Scalpellini e appaltatori: gli italiani nella «Rumania» del 1912

«Gli italiani in Rumania sono principalmente muratori, scalpellini, stuccatori, tagliapietre e tagliaboschi. Vi sono pochi merciai ambulanti e un forte gruppo di appaltatori. Tutti vivono nella agiatezza». È il 1912 e il dott. G.E. di Palma di Castiglione, ispettore viaggiante dell’emigrazione, pubblica una relazione sul «Bollettino dell’Emigrazione» di Roma, col titolo L’Oriente d’Europa quale mercato per la mano d’opera italiana (Rumania - Bulgaria - Serbia). Presentiamo qui la parte seconda relativa alla Romania, intitolata Gli italiani in Rumania, con importanti informazioni sul numero, la provenienza e i mestieri degli emigrati italiani, nonché sulle colonie fisse di Bucarest, Cataloi, Jacob Deal (Macin), Sinaia e Busteni. Un'accurata analisi di questo testo è stata realizzata da Corina Ţucu nel suo recente volume, Un document diplomatic italian despre români – inspectorul emigraţiei G.E. di Palma di Castiglione în „Buletinul Emigraţiei”, Roma, 1912 (Editura Pro Universitaria, Bucureşti 2012).


GLI ITALIANI IN RUMANIA

1. Numero, provenienza, mestieri

a) Numero degli italiani in Rumania. Sul numero degli italiani residenti in Rumania non si hanno informazioni precise. Il Ministero degli Interni ritiene che attualmente (1912) siano circa 8.000. Il Marchese E. Incisa di Beccaria, già R. Ministro in Bucarest, faceva ascendere il loro numero, nello agosto del 1900, a circa 6.000, compresi anche gli italiani allora temporaneamente residenti in quel Regno [1].
Secondo notizie raccolte dal Ministero dell’Interno rumeno, nel 1902, gli italiani con residenza abituale in Rumania in quell’anno erano 3493 dei quali 2873 uomini, il resto donne [2].
Da ricerche da me fatte nell’archivio della R. Legazione di Bucarest risulta che, negli ultimi anni, vennero notificati a quell’ufficio dalle autorità locali (giusto l’articolo XIII della convenzione consolare tra l’Italia e la Rumania) i seguenti atti di stato civile:

Anni

Atti
di nascite

Atti di morte

Atti
di
matrimoni

1904

68

36

7

1905

79

44

9

1906

72

39

15

1907

115

73

18

1908

129

47

24

1909

62

49

7

Totali

525

288

80

Media annuale
per i sei anni

87.5

48

13.3

In base a tali dati si può calcolare [3] che la popolazione italiana permanentemente stabilita in Rumania oscilla fra 2.300 e 2.700 anime circa.

b) Provenienza degli emigranti italiani. La enorme maggioranza degli emigranti italiani appartiene alla provincia di Udine; seguono, per importanza numerica, quelli provenienti dalle province di Belluno, Treviso, Rovigo, Ancona, Bologna e Bari, i quali, complessivamente, rappresentano meno del quarto del totale degli emigranti.

c) Mestieri degli italiani in Rumania. Gli italiani in Rumania sono principalmente muratori, scalpellini, stuccatori, tagliapietre e tagliaboschi. Vi è un nucleo di agricoltori in Dobrudja. Vi sono pochi merciai ambulanti: venditori di coltelli.
Vi è un forte gruppo di appaltatori e sub-appaltatori italiani: essi complessivamente formano dal 20 al 25% del numero totale degli impresari e circa il 40% degli appaltatori stranieri che lavorano in Rumania; alcuni hanno delle fortune rilevanti, diversi sono ricchi, tutti vivono nella agiatezza. Molte fra le più importanti costruzioni in Rumania sono state fatte e sono fatte da impresari italiani. Fra le maggiori vanno notate: la sede della Camera dei Deputati, che è costata L. 1.700.000; il palazzo delle Belli Arti in Bucarest (L. 900.000), la Camera di Commercio in Bucarest (L. 1.500.000), il Canale di Campolungh, le linee ferroviarie Craiova-Calafat (60 km.), Comanesti-Palanca 3 km., e centinaia di altre opere di costruzione, come ponti, canali, strade, edifici. Non pochi impresari italiani erano in origine semplici operai che, assumendo lavori a cottimo progressivamente più importanti, si sono imposti per la loro sveltezza ed abilità e sono riusciti ad entrare nel gruppo dei più importanti e stimati appaltatori del paese.
A Galatz, la più forte casa bancaria è gestita dal Banchiere italiano comm. A. Dall’Orso.

 

2. Le colonie fisse

a) Bucarest. È la più grande. Si calcola che sia formata da oltre 200 famiglie, in gran parte impresari e loro impiegati e capomastri. Vi sono anche alcuni stabilimenti industriali (una fabbrica di materiali in cemento, un’officina per la lavorazione dei marmi, ecc.) posseduti e diretti da italiani. Vi è una associazione di mutuo soccorso e beneficienza con circa 180 soci, un Comitato della Dante Alighieri ed una scuola, in un edificio costruito con fondi dati da un italiano, il comm., Cazzavillan, che fece fortuna con la fondazione di uno dei più importanti giornali in lingua rumena di Bucarest. La scuola è mantenuta con il reddito del capitale donato dal fondatore, con contribuzioni degli allievi, con sottoscrizioni pubbliche e con un piccolo sussidio del Governo Italiano. Annesso alla scuola è un corso (serale) di disegno diretto da un nostro connazionale che presta gratuitamente la propria opera. Il corso è frequentato da circa 20 giovanetti ed ha già dato modo a diversi figli di operai di ottenere buoni impieghi in uffici di architetti ed ingegneri. La scuola ed il corso sono aperti sia agli italiani sia ai rumeni. È augurabile che questi istituti possano avere sempre maggiore sviluppo perche rappresentano efficaci mezzi di penetrazione della cultura italiana nell’ambiente locale.

b) Cataloi. Nella giurisdizione del R. Consolato Generale di Galatz, a circa 15 chilometri da Tulcea, porto del Danubio nella Dobrudja, vi è la Colonia di Cataloi composta da 111 famiglie di contadini tutti provenienti dalla provincia di Rovigo. Attualmente conta 653 anime; 103 uomini e 118 donne con famiglia, alcune vedove, 223 celibi e ragazzi e 209 nubili e ragazze.
La storia di questa gente è una storia di sofferenze e di lotte contro la perversità degli uomini e la resistenza della natura. Dell’una e dell’altra i coloni hanno saputo trionfare con calma, modesta tenacia e con indefesso lavoro. Originariamente essi erano stabiliti in Moldavia su un latifondo appartenente ad un ricco proprietario il quale, nel 1879, fece venire dall’Italia circa 100 famiglie ed affittò loro, a mezzadria, dei terreni presso Jassy. Otto anni dopo essendo morto, gli eredi vendettero la proprietà ed i coloni, ingannati dal nuovo acquirente, rinunziarono ai diritti che avevano acquisiti in forza del contratto originario e vennero scacciati dalle case che occupavano. Una parte ritornò in Italia, gli altri (in complesso 72 famiglie) ottennero dal Governo rumeno, con l’aiuto dell’autorità diplomatica italiana, (nella località dove ora si trovano), 72 lotti di terreno di quindici ettari ciascuno che vennero loro ceduti in affitto in ragione di 7 lire per ettaro all’anno. Arrivati sul posto non trovarono né case né edifici. Il terreno, per oltre due terzi dell’area totale, era stato da poco disboscato e non era ancora dissodato. Si alloggiarono alla meglio in una baracca di legno già adibita a deposito ed in rifugi che scavarono nella terra e che prendevano aria e luce soltanto da porte grossolanamente messe insieme. Alcune famiglie (11) non resistettero alle difficoltà e abbandonarono il posto. Il primo anno i coloni ebbero dal Governo italiano un prestito di 150 lire per famiglia e, nel 1899, anno in cui per siccità andò distrutto tutto il raccolto, ebbero una sovvenzione in granaglia da S. M. il Re d’Italia.
Attualmente essi hanno: 88 case di due e tre stanze ciascuna, costruite in mattoni e con tetti di zinco, ciascuna con pozzo, orto, cortile e stalla; 112 carri; 339 cavalli; 138 vacche; 97 aratri; 47 mietitrici; 8 ventilatori per cereali; 3 battitrici; una chiesa con annessa scuola; un salone di trattenimento; 34 istrumenti musicali; il tutto valutato a circa 350.000 franchi, senza tener conto del mobilio esistente in ogni casa e dei molti depositi in legname per fieno e paglia. Sono stati i coloni stessi che hanno fabbricati i mattoni, segato il legname e costruiti gli edifici. Tranne le due sovvenzioni summenzionate essi non hanno ricevuto altro aiuto da nessuno. Sono stimati come buoni agricoltori, e trovano facilmente credito perche sono pagatori puntuali ed onesti.
Nella scuola l’insegnamento è impartito in italiano; di giorno ai ragazzi, di sera agli adulti, sotto la direzione del parroco: il dott. De Benedetto, giovane attivo, energico, entusiasta, orgoglioso della sua origine italiana. La scuola è sussidiata dal Governo italiano e l’anno scorso ricevette anche una sovvenzione straordinaria dalla Dante Alighieri, che ha una rappresentanza locale costituita in un comitato di 66 soci.
Da due anni i coloni hanno organizzato una cooperativa di consumo la quale ha attualmente un capitale circolante di circa L. 2000. I profitti di essa, circa 800 lire l’anno, sono devoluti a vantaggio della chiesa e della scuola.
Più di una trentina di coloni hanno prestato servizio militare in Italia; alcuni hanno combattuto in Eritrea; due si presentarono alle armi quando avevano già 37 anni e famiglia numerosa ed erano stati all’estero 15 anni. Recentemente i coloni hanno contribuito alla sottoscrizione per le famiglie dei richiamati per la Guerra nella Libia ed a quella per la flotta aerea.
Dal 1899 due famiglie soltanto hanno abbandonato la colonia e sono ritornate in Italia: una ha portato seimila e l’altra tremila lire di economie. Di famiglie senza danaro non ve ne sono che due o tre; tutte le altre, oltre gli animali ed i carri e le case, posseggono dei risparmi. Cinque o sei coloni giovani soltanto vanno, qualche volta, a lavorare a salario per conto di altri e guadagnano da 1,50 a 3,00 lire al giorno; d’altra parte sono circa 30 le famiglie che impiegano mano d’opera estranea (bulgari o rumeni) per due o tre mesi all’anno.
Nessuno invia denaro in Italia non avendo parenti da sostenere.
Le spese di mantenimento sono lievi perché ciascun colono produce molti dei generi che consuma. Comprano la carne ad una lira al chilo, il riso a 0,50, lo zucchero a 1,20, il petrolio a 0,25 il litro, il vino e la birra rispettivamente ad 1,20 e 0,90 il litro.
Coltivano frumento, granturco, orzo e segala; nel 1911 ebbero un prodotto totale di 21.300 quintali valutati a L. 311.600. Non lasciano mai riposare il terreno; coltivano successivamente frumento, granturco ed orzo; usano soltanto concime naturale. La terra è di facile lavorazione; mi dicevano: «con il lavoro necessario a coltivare in Italia un ettaro, qui se ne coltivano 10». La terra rende, in media, quindici volte la sementa. In 25 anni il raccolto è stato distrutto, e non tutto, due volte soltanto. Non possono coltivare ortaggi per mancanza di acqua; alcuni, però, hanno appezzamenti piantati a vigna.
Attualmente essi pagano: pel fitto 15 lire all’ettaro, più le seguenti tasse ed imposte:
Imposta fondiaria, per ettaro, all’anno .........................................  L. 11.00
Tassa personale, all’anno ...........................................................  »    7.40
Tassa per esimersi dal prestare servizio quale guardia notturna del villaggio: (ogni capo famiglia) all’anno ....................................................................  »  15.70
Tassa stradale, ogni persona senza animali, all’anno ..................... »  15.00
Idem, ogni persona con 2 capi di bestiame, all’anno ....................... »  25.00
Idem, ogni persona con 4 capi di bestiame, all’anno........................ »  44.00
Idem, ogni persona con 6 capi di bestiame, all’anno ....................... »  66.00

Le condizioni materiali e morali della colonia sono soddisfacenti. I coloni vivono vita calma e tranquilla resa più felice dalla intima soddisfazione di aver saputo vincere molti e gravi ostacoli. Di carattere semplice e modesto non sono agitati da ambizioni tormentose. Essi però soffrono della sproporzione esistente fra il numero delle braccia di cui dispongono e l’area di terra che posseggono. La popolazione è aumentata di molto: venticinque anni fa erano solo 72 famiglie, oggi, nonostante che 11 si siano allontanate, sono 111 famiglie. Nel 1911 ebbero 31 nascite ed 11 matrimoni contro 5 morti. Oltre i 1080 ettari loro ceduti dal Governo rumeno, fittano circa 2000 ettari da privati a prezzi che oscillano da 25 a 40 lire l’ettaro. Ma terreni privati disponibili non ve ne sono più nelle vicinanze ed inoltre i coloni sono sfiduciati perché parecchie volte sono stati frodati avendo avuti in fitto terreni che, per legge, non potevano essere affittati dai proprietari essendo terre concesse direttamente dal Governo a contadini rumeni. Inoltre, sia per la natura del suolo, sia per la deficienza di esperienza, di cultura tecnica, i coloni di Cataloi non possono trasformare in intensive l’attuale coltivazione estensiva dei terreni che lavorano. Per questa ragione, se non sarà possibile avere nuovi terreni, un certo numero di coloni sarà costretto ad abbandonare il posto.
Un altro ostacolo che minaccia l’esistenza stessa della colonia è rappresentato dallo spirito nazionalista del Governo e della popolazione rumena, i quali mal tollerano che sudditi stranieri occupino permanentemente terre del paese, specie quando queste appartengono al Demanio. Durante l’ultima rivolta dei contadini rumeni del 1907 i nostri coloni vennero minacciati dai ribelli; essi si armarono e si disposero alla difesa, ma le loro case sarebbero state bruciate ed i loro animali uccisi se il Governo rumeno, in seguito a richiesta della Regia Legazione Italiana di Bucarest, non avesse prese energiche misure preventive. I nostri connazionali di Cataloi non vogliono rinunziare alla cittadinanza italiana e già l’ultima volta ebbero forti difficoltà a rinnovare il loro contratto di affitto. Quello attualmente in corso scade nel 1921.
Rinunzieranno i coloni alla cittadinanza italiana?
Aderirà il Governo rumeno a rinnovare la concessione a cittadini stranieri?
In tutti i modi la colonia italiana di Cataloi costituisce una nuova e luminosa prova di quanto, silenziosamente e modestamente, sanno fare i nostri lavoratori anche quale pionieri e colonizzatori.

c) Jacob Deal (Macin). Nella giurisdizione del R. Consolato Generale di Galatz. È un gruppo di cinquanta famiglie italiane, oltre 200 individui, quasi tutti della provincia di Udine, alcuni di Belluno, pochi di altre province del nord d’Italia. Di meridionali vi è (maggio 1912) un cosentino e due casertani.
Sono tutti tagliapietre. Hanno le case presso la cava di granito nella quale lavorano; esse appartengono all’impresa che ne cede l’uso gratuitamente ai propri operai. Le stanze sono di 4,80 per 4,30, alcune di 4 per 4 metri, alte 3 metri circa. Le case sono tutte costruite con pietre della cava e sono coperte di zinco. Come tutte le case operaie in Rumania, non hanno né cantine né vespai, il pavimento è fatto di terra battuta; in nessuna di esse la terra è coperta da tavole o quadrelli (le tavole marciscono); non tutte sono elevate dal suolo; esse però sono sufficientemente illuminate ed areate. Fino al 1900 gli operai della cava alloggiavano in rifugi scavati nella terra chiusi da pietre e tavole, alcuni coperti da paglia e mota impastati con sterco di cavallo.
L’acqua è buona è fornita da due pozzi non lontani dall’abitato.
Le condizioni di salute dei coloni sono ottime.
I viveri sono in vendita in un magazzino generale, gestito dalla impresa, nel quale trovasi tutto quanto può occorrere agli operai ed alle loro famiglie. I coloni pagano: per il pane di qualità media, 30 centesimi al chilo; per la carne di manzo da 0,90 ad 1 lira il chilo, per quella di agnello 0,80. Il grasso per cucina si vende a 2,20 al chilo, i maccheroni (rumeni) a 0,65; il petrolio a 0.35 al litro; il vino da 1 a 1,40 e la birra ad una lira al litro. L’olio costa 2 lire al chilo, lo zucchero 1,30, il caffè 3,80, il sale 0,15. Le scarpe da lavoro non si possono acquistare per meno di 22 lire al paio, le altre da 14 a 18 lire; gli abiti costano da 22 a 25 lire; le camice 4 lire ciascuna, i cappelli da 4 a 7, le calze da 0,70 a 0,80, le mutande da 2 a 3 lire, le maglie da 5 a 6, i pantaloni da lavoro da 12 a 15 lire. Nel 1909 i coloni fondarono un forno cooperativo ma l’esperimento non riuscì. I celibi mangiano con le famiglie degli ammogliati, alcuni pagano da 40 a 45 lire al mese per il vitto senza bevanda, altri fanno accordi speciali in base ai quali pagano L. 0,10 al giorno per ciascuno alla donna della casa che prepara le vivande che essi acquistano a parte con denaro proprio: questi ultimi spendono qualche franco di meno. Nessun celibe spende per il mantenimento proprio, bevande comprese, meno di 2 lire al giorno; la maggioranza, in media, spende lire 2,50. Per quelli con famiglia le spese di mantenimento variano secondo il numero dei figli i quali, abitualmente, sono molti. Quasi ogni famiglia alleva maiali e galline.
Vi è una chiesa; il prete è un Tedesco che parla l’italiano e lo insegna per un’ora al giorno in una scuola che è gestita dall’impresa e per la quale gli operai pagano 3 franchi al mese per ogni due alunni. L’insegnamento è impartito in rumeno.
Quasi tutti i coloni sono membri di una Associazione di Mutuo Soccorso, ed hanno organizzato anche un circolo sociale nel quale vi è un bigliardo ed una sala di lettura. Per la Croce Rossa Italiana hanno recentemente raccolte 116 lire, per la flotta aerea 71.
Come tutti quelli che risiedono in Rumania, cittadini o stranieri che siano, gli operai di Jacob Deal debbono pagare la tassa personale (L. 7,20 all’anno) se hanno famiglia, più la tassa per la guardia notturna la quale oscilla, secondo i comuni rurali, da 15 a 20 lire l’anno ed, infine, la tassa per il mantenimento delle strade che è di 15 franchi l’anno.
Tutti gli uomini lavorano: i ragazzi cominciano a lavorare a 12 anni. Sono pagati a cottimo meno i braccianti i quali, per altro, non sono italiani (serbi, bulgari e rumeni). Lavorano dalle 5 alle 8 – dalle 8 ½ alle 12 – dalle 14 alle 19; 11 ore e mezzo al giorno, alcuni anche 12 ore. Sono divisi in gruppi: ogni gruppo ha un capo, il quale impiega da 6 a 40 operai secondo l’ampiezza e la ricchezza della sezione di cava che è incaricato di sfruttare. I capigruppo, quando io visitai la cava (19 maggio 1912), erano 12 dei quali 11 italiani. In ogni gruppo gli operai sono divisi in tre classi: i cosiddetti minatori che preparano i fori per le mine, i tagliatori che rompono i massi, gli squadratori che riducono i massi in quadrelli. Questi (quadrelli) costituiscono il prodotto della cava e sono esclusivamente usati per la pavimentazione delle strade. Il capo gruppo, il quale abitualmente è uno squadratore e lavora anche lui, riceve dieci centesimi per ogni quadrello prodotto, e paga due centesimi e venticinque per quadrello ai tagliatori e 5 centesimi agli squadratori da lui dipendenti. Sui due centesimi e settantacinque che gli restano egli deve pagare i minatori in ragione di lire 6 per ogni metro (in profondità) scavato, i manovali con salari che oscillano da 2,50 a 3,25 al giorno e la polvere che costa 1,75 al chilo. I capigruppo guadagnano da quattro a dieci lire al giorno, gli squadratori da 4 a 7, i tagliatori da 5 a 7, i minatori da 4 a 5. In media, i guadagni dei capigruppo e degli squadratori sono di cinque lire al giorno; quelli degli altri proporzionalmente minori. I ragazzi da 12 a 15 anni lavorano alle stesse condizioni ed in media guadagnano 1,25 al giorno. Oltre questi vi sono alcuni fabbri i quali sono pagati dall’impresa in ragione di lire 5,25 per ogni 100 quadrelli che la cava produce.
Il risparmio degli operai senza famiglia oscilla intorno alle lire 30 al mese; pochi sono quelli con famiglia che riescono a risparmiare. Da Jacob Deal vanno in Italia circa 800 franchi al mese.
La cava di Jacob Deal, che è la più importante in Rumania, lavora, ad eccezione di una trentina di giorni, costantemente tutto l’anno. Essa produce da 2 milioni e mezzo a 3 milioni di quadrelli all’anno ed ha il lavoro assicurato da un contratto col municipio di Bucarest al quale deve fornire da un minimo di un milione e mezzo ad un massimo di due milioni di quadrelli l’anno. Venti anni fa la produzione era maggiore: allora vi erano circa 500 tagliapietre italiani i quali erano pagati in ragione di L. 0,24 a quadrello; in seguito – dodici anni fa – i prezzi furono diminuiti a 0,12 ed è dal 1899 che vige la tariffa attuale.
A Jacob Deal negli ultimi ventiquattro anni vi sono stati 21 infortuni seguiti da morte, tredici delle vittime erano italiane. Le ultime due rimasero uccise nel 1910: una non lasciò eredi, la vedova dell’altro liquidò 5000 lire di danni. Dal 1909 l’impresa assicura gli operai: questi nei casi di inabilità temporanea, ora, ricevono assistenza medica gratuita e lire 2,50 al giorno di sussidio.
Sullo stesso territorio dove è sita la cava di Jacob Deal vi sono altre cave di granito: Turcoaia, nella quale lavorano circa 50 italiani; Greci, con circa 100 italiani dei quali diversi si sono naturalizzati cittadini rumeni: Pietrarossa, con venti italiani. In tutte queste cave la popolazione operaia è fissa e le condizioni di lavoro e di vita sono simili a quelle di Jacob Deal. Gli italiani lavorano tutti come maestri; i braccianti sono bulgari, serbi, rumeni, montenegrini, russi.

d) Sinaia e Busteni nella giurisdizione del R. Consolato di Buarest. Questi sono due piccoli gruppi di italiani formati anch’essi da tagliapietre. Nel primo vi sono 5, nel secondo 25 italiani. Lavorano pietre da taglio; guadagnano, in media, 6 franchi al giorno. Anch’essi lavorano per tutto l’anno e da 11 ore e mezzo a dodici ore al giorno. Diversi hanno le famiglie con loro ma mandano ad educare i figli in Italia. Sono tutti della provincia di Udine, ad eccezione di 3 o 4 provenienti da Treviso. Anche in queste cave gli italiani sono esclusivamente tagliapietre o scalpellini, i manovali sono serbi e rumeni.
A Sinaia negli ultimi dieci anni si sono avuti dieci infortuni fatali; a Busteni nessuno.
Oltre le suindicate vi sono colonie fisse di italiani, nel distretto del R. Consolato di Bucarest: a Ploiesti (circa 100 anime), a Craiova (circa 100 anime), a Turnu-Severin (settantacinque); e poi, a Campolungh, a Pitesti, a Slatina, a Calarasi, ad Alexandria, da 7 a 10 famiglie in ogni posto; nel distretto del R. Consolato di Galatz: a Galatz, circa 30 famiglie; a Sulina, 22 famiglie, in gran parte impiegate della Commissione Danubiana; a Tulcea, 4 famiglie; a Costanza, circa 100 italiani; a Jassy, circa 300, a Bacau, circa 100.

e) Minatori italiani. Vi sono anche piccoli nuclei di minatori di lignite con dimora fissa presso Comanesti, nel distretto di Bacau; in tutto essi formano circa 50 famiglie. Le miniere sono orizzontali, pochi pozzi sono perpendicolari. Gli operai lavorano a cottimo; guadagnano da 3,50 a 5 lire al giorno. Anch’essi sono veneti.

In quasi tutti i principali centri urbani, in diversi centri rurali ed in qualche villaggio vi sono italiani venuti con la corrente d’emigrazione temporanea e poi fermatisi stabilmente. Pochi si sono naturalizzati rumeni. Alcuni si sono ammogliati con donne del paese. Quasi tutti sono friulani.


(n. 9, settembre 2012, anno II)

NOTE

1. Vedi: Emigrazione e Colonie, vol. I, Roma, Unione cooperativa editrice, 1905, pag. 189.
2. Vedi: idem., pag. 190.
3. Nel periodo 1906-1909 in Italia la percentuale dei matrimoni fu di 0.79, quella delle morti di 2.08, quella delle nascite (nati morti non compresi) di 3.23 (vedi: Annuario statistico italiano, seconda serie, volume primo, 1911. Pag. 20). Ho calcolata la popolazione permanentemente stabilita in Rumania in base alla percentuale delle morti e delle nascite in Italia non tenendo conto di quella dei matrimoni per la diversa composizione demografica della popolazione del regno e di quella emigrata.