«Piloti del vuoto»: Paul Celan e Nichita Stănescu

Nel volume Lirica lui Paul Celan si gândirea contemporană (La poesia di Paul Celan e il pensiero contemporaneo), apparso quest’anno presso la casa editrice Muzeul Naţional al Literaturii Române con il sostegno dell’Accademia Romena, ho documentato la straordinaria risonanza che la poesia di Paul Celan ha avuto sul pensiero e sulla riflessione filosofica. Su nessun altro poeta si è scritto così tanto, e a un livello così elevato, che la domanda che ci si pone riguarda soprattutto in che modo il particolare desiderio del discorso filosofico è in grado di manifestarsi nei confronti della poesia, una poesia che, in effetti, tocca le note più profonde di una pratica poetica condizionata da un’implicazione ontologica. La risposta a questa domanda – anche sulla base dello scambio di lettere di Celan con i più importanti filosofi del secolo scorso e attraverso gli studi dedicati alla sua opera come quelli di Hans Georg Gadamer, di Jacques Derrida, oppure quelli di Maurice Blanchot, Georg Steiner, Emmanuel Lévinas e Philippe Lacoue-Labarthe – è essa stessa evidente: in tutta l’evoluzione della poesia europea, non c’è mai stata alcuna opera che abbia avuto un tale impatto, in merito alle implicazioni ontologiche del posizionamento del soggetto nel mondo, come quella di Paul Celan. Questo poeta ebreo bucovino, nato in Romania a Cernăuţi nel 1920, che impiegava la lingua romena come sua seconda lingua madre (essendo il romeno l’unica lingua, all’infuori di quella tedesca, con cui non solo egli abbia scritto, ma anche tradotto) – è, allo stesso tempo, anche colui che ha saputo conferire allo spazio romeno una riconoscibilità universale di grandissima espressione.
Ho presentato nel mio libro – insieme alla corrispondenza epistolare del poeta con Heidegger e Adorno – testi che hanno già un’impressionante tradizione critica in relazione all’opera di Celan, in particolare gli studi di Hans Georg Gadamer e quelli di Jaques Derrida. Pur influenzandosi reciprocamente, e avendo avuto un rapporto con i casi precedenti (l’articolo di Gadamer, da cui prende avvio la sua analisi, esce nello stesso anno della pubblicazione della Teoria estetica di Adorno), questi testi non vanno ricostituiti, e nemmeno troppo contestualizzati, perché hanno di per sé già un carattere abbastanza esplicito. Il fatto che nello spazio romeno questi studi non siano quasi per niente conosciuti (e ancor meno tradotti) ha imposto, da parte nostra, un volontario ripiegamento del commento sul testo originale. Tutto ciò, nel tentativo di costituire, per la prima volta nello spazio linguistico romeno, un corpus rappresentativo del ruolo determinante che l’opera di Celan ha avuto nel pensiero contemporaneo attraverso la sperimentazione di provocazioni (quanto mai acute), alle quali la filosofia ha dovuto trovare una risposta – una risposta che la poesia, forse, è riuscita a dare per prima.

La sottile complessità del testo poetico celaniano

Occorre sottolineare che nel caso della poesia di Paul Celan abbiamo a che fare con una pratica compositiva che mette in questione la condizione stessa di esistenza del «contenuto», la sua possibilità di esposizione, il suo allontanamento di fronte all’orizzonte umano svuotato di senso. Ciò avviene in maniera, non a caso, simile alle grandi domande con cui si è confrontata la filosofia del dopo guerra, e non solo. Basta pensare, per esempio, alla pregnanza con cui tali questioni sono state sollevate, prima della guerra dalla filosofia del Dasein di Heidegger. La sottile complessità del testo poetico celaniano è stata probabilmente avvertita anche dallo stesso Heidegger, se consideriamo che, negli anni immediatamente successivi al suicidio del poeta, il filosofo prese in prestito i mezzi di espressione impiegati dallo stesso Celan in gioventù, per dedicargli (sotto forma di risposta a quella «parola a venire nel cuore, ein kommendes Wort im Herzen») un poema – o meglio un «proemio» al componimento celaniano Todtnauberg, scritto in memoria della visita alla «Baita filosofale», alla Hütte di Heidegger. Il gesto di dedicare un poema a un grande poeta e di rispondere con i suoi stessi strumenti è, a quanto pare, abbastanza singolare, se abbiamo presente tutta la vita e l’intera opera di Heidegger.
Inoltre, è utile ricordare che, proprio grazie a Celan, Theodor W. Adorno ha radicalmente attenuato la sua celebre ʻsentenzaʼ del 1949 secondo cui «scrivere poesia dopo Auschwitz era un atto di barbarie», arrivando persino ad elogiare nella sua Teoria estetica, apparsa postuma, l’opera di Paul Celan (l’unico scrittore contemporaneo insieme a Beckett, del resto, menzionato nel compendio della sua «estetica»), inserendola nella grande tradizione della poesia ermetica come poesia dai contenuti proiettati verso il futuro.
Come si è detto, altri due importanti pensatori, Hans Georg Gadamer e Jacques Derrida hanno dedicato studi di un certo rilievo alla poesia di Celan. Gadamer intraprende un’analisi minuziosa dell’intero ciclo Atemkristall (Cristallo di respiro), ritenendolo, insieme ad altri, l’apice della creazione poetica celaniana. Derrida, dal canto suo, lavorando intorno a una vera e propria mitologia della «data», vede nella poesia di Celan l’espressione unica e irripetibile, quindi degna di commemorazione, della «circoncisione della parola», di quel processo che avviene cioè una volta sola. Questa situazione unica e insieme ripetibile intorno all’«anello-anniversario» della data da commemorare (Derrida dà un nome a questo evento impiegando esplicitamente il termine filosofema anziché quello di poema), è stato l’argomento di un mio precedente libro sulla ri-attualizzazione del senso della poesia di Paul Celan [1]. Attraverso una diretta implicazione nella pratica (post) avanguardista bucarestina, tra il 1945 e il 1947, e poi in quella viennese (sino al 1948), Celan si è fabbricato una poetica acuta, idiosincratica rispetto alla tradizione, profondamente antiretorica – nel senso del futuro «autenticismo» –, ma sorprendentemente vicina e di segno opposto a quella del suo contemporaneo Nichita Stănescu, coinvolto anch’egli in un «poiein» [2] le cui«non-parole» (necuvinte) (1969) seguono come un’ombra i«non-poemi» (noemi) [3] (1965) di Paul Celan. Si può presupporre, come ho già affermato altrove, che se Nichita Stănescu avesse scritto in una lingua di grande circolazione mondiale, avrebbe avuto la stessa ricezione di Paul Celan. L’indifferenza dell’esegesi romena (applicata con minime eccezioni) nei confronti dei due poeti e dei loro destini poetici, il fatto che l’opera celaniana sia molto poco conosciuta in Romania e che non ci sia ancora una traduzione completa della sua poesia, sono sintomi evidenti di una certa mancata consistenza nella ricezione.

Celan e Nichita Stănescu: le somiglianze tra le due poetiche

Ad un’attenta lettura, le somiglianze tra le due poetiche, per lo meno sul piano del significante, sono effettivamente vistose [4]. Per esempio, nel celebre poema celaniano Todesfuge (Fuga di morte), troviamo ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng («una tomba nell’aria lì non si sta stretti») – che ha un equivalente diretto in noi avem mormânt în nori / uneori şi alteori («noi abbiamo una tomba nelle nubi / delle volte e altre volte») di Stănescu [p. 292]. Il meccanismo corrisponde, nel caso di Celan, ad un’inversione tipicamente avanguardista degli assi spazio-temporali, visibili già nel «naufragio aereo» (naufragiul aerian) dei poemi in prosa del periodo bucarestino, che si è conservata anche nella sua poesia più matura attraverso l’immagine dei «relitti celesti» che precipitano dal cielo in Atemkristall. Nella poesia di Nichita Stănescu, al di là dei tratti avanguardisti assimilati a livello formale, quelle reci molecule / adeptele lui Hercule («fredde molecole / adepte di Ercole»), che provengono in diverse occorrenze direttamente dalla celebre apostrofe a Şuly: Tu, bercule, ai un tubercul de os, tuberculosule! («Tu, scodato, hai un tubercolo di osso, tubercoloso!»), gli assi spaziali ruotano quasi in senso ascensionale; oppure, nel volume O viziune a sentimentelor (Una visione dei sentimenti), si può ancora vedere: gândurile ni se fugăreau / pe o aeriană câmpie («i pensieri ci sfuggivano / su una distesa aerea») [p. 41], il delfino izbind cu coada aerul lichid («colpendo con la coda l’aria liquida») [p. 48] cerul de ape («il cielo di acque») [p. 62], catargul de fum («l’albero maestro di fumo») [p. 70], înot şi zbor în sus («nuoto e volo all’insù») [p. 76], cerul era în mine şi-avea de orizonturi / curbate coastele spre stern  («il cielo era dentro di me e aveva dagli orizzonti / le costole piegate verso lo sterno») [p. 51], che determinano il rapprendersi delle acque (a partire dai versi della poesia di Goethe, posti in esergo allo studio di Gadamer su Celan: Schöpft des Dichters reine Hand / Wasser wird sich ballen, «Se il poeta con mano pura ha attinto, / diverrà l’acqua plastica sostanza») [5]: Şi deodată-n jurul meu, natura / se făcu un cerc, de-a dura / când mai larg, când mai aproape / ca o strângere de ape («E all’improvviso intorno a me, la natura / si fece un cerchio, per durare / quanto più largo, quanto più vicino / come una stretta d’acqua») [p. 43], che implica poi la trasmutazione alchemica: Totul trebuia să se tranforme în aur, / absolut totul: / cuvintele tale, privirile tale, aerul / prin care pluteam, sau treceam de-a-notul  («Tutto doveva trasformarsi in oro, / assolutamente tutto: / le tue parole, i tuoi sguardi, l’aria / attraverso cui galleggiavamo, o percorrevamo a nuoto») [p. 80]. Sembra così che il soggetto faccia immergere la spazialità, la «natura», attraversandola «a nuoto» come un delfino nell’«aria liquida», rapprendendola in una «stretta di acque» e nel «nuoto e nel volo all’insù», sino alla trasformazione del «tutto» in oro, in una visione «dei sentimenti» come segno fondamentalmente positivo. Nella poesia di Celan, invece, il soggetto è «immerso», trafitto e ferito, se non proprio annientato, dalle dure leggi della «natura» –  è il «naufrago», precipitato in una «fossa di Babele» (secondo l’immagine di Kafka), come si osserva pure nei testi staneschiani, anche se di segno rovesciato: Turn al lui Babel, întors cu mănuşa / pe dos («Torre di Babele, girata con il guanto / alla rovescia») – deci piramidă («dunque piramide») [p. 157]. Persino le «tombe nelle nubi», mormintele în nori di Nichita Stănescu sono doppiamente valorizzate in senso positivo: dar mormânt n-avem acuma / şi nici moarte / şi nici moarte («ma la tomba ora non ce l’abbiamo / e neanche la morte / neanche la morte»). Queste descrizioni di un paesaggio essenzialmente vitale sembrano muoversi nella direzione delle ontologiche «vedute non-nate» (nenăscute privelişti) che divengono impercettibilmente (e necessariamente) anche delle vedute «browniane».

Peculiarità dello spazio ontico

Insomma, mentre la poetica di Nichita Stănescu sembra trarre le proprie radici da uno spazio ontico che precede l’essere, anticipando l’entrata nell’apertura dell’esistenza e del linguaggio (da qui le «non-parole», le «vedute non-nate», i «cani non-nati» che latrano agli «uomini non-nati»); la poetica di Paul Celan sembra seguire l’essere e la sua apertura, trova il proprio fondamento su un luogo dell’assenza che tenta di riattualizzarsi, cercando e toccando i resti di uno spazio ontico in maniera alquanto simile a quella di Nichita Stănescu. I due poeti, Nichita Stănescu e Paul Celan hanno, in altre parole, negli strati più profondi della loro scrittura, una matrice, cioè una «veduta» ontologica comune, in cui il primo con un movimento ascensionale tenta fiduciosamente di proiettarla o, come si direbbe in dolce stil classico, di «addolcirla» [p. 354], mentre il secondo è impegnato nell’impossibile impresa di recuperarla – rimane però essenziale il fatto che entrambi sentono e percepiscono quel «mormorio» estremo dell’esistenza, sino alla morte: Nichita Stănescu indica nel murind, murmurând («morendo, mormorando») [p. 369] lo stesso Gemurmel der Toten («mormorio dei morti») di Paul Celan. E non è forse vero che questi versi di Stănescu: Răsare obişnuinţa, legea, idolul / nenăscutul, vag plodul. / Este neliniştea care vesteşte / fiecăruia în singurătate că este? // Adică sudul, adică nordul («Sorge l’usanza, la legge, l’idolo / il non-nato, il vagamente embrione. / È forse l’inquietudine che si annuncia / a ognuno nella solitudine? // Cioè il sud, cioè il nord») [p. 397], non sono altro che la riformulazione, nuovamente rovesciata, della «parola proscritta» di Celan, Nordwahr, Südhell («vero al nord, chiaro al sud»)?
Schwarze Milch der Frühe («Il latte nero delle albe») della Todesfuge è diventato con Nichita Stănescu un ou negru («uovo nero»): într-un ou negru mă las încălzit («in un uovo nero mi lascio riscaldare») [p. 121], ouă concentrice, negre, sparte / fiecare pe rând şi în parte  («uova concentriche, nere, rotte / ognuna in fila e in parte»); Dintr-un ou într-unul mai mare / le nesfârşit te naşti, nezburată / aripă. Numai din somn / se poate trezi fiecare, – / din coaja vieţii nici unul, / niciodată  («Dentro un uovo in quello più grande / all’infinito nasci, non-volata / ala. Solo dal sonno / ciascuno si può ridestare, – / dalla scorza della vita nessuno, / mai») [p. 122] – un «uovo nero» che nasconde un cielo «sepolto» di «carne nera»: N-am cer. Ce e mai departe de mine / sunt eu, negrul şi înlăuntrul. / Cerul meu este de carne neagră. Cer îngropat («Non ho il cielo. Cosa è più lontano da me / sono io, il nero e il recondito. / Il mio cielo è di carne nera. Cielo sepolto») [p. 155], il quale, a sua volta, si trasforma, in un «cielo bianco con stelle nere, lunghe»(cer alb cu stele negre, lungi) [p. 386]. Sembra che laddove uno dei due poeti designi il vuoto, l’altro indichi il pieno (o il freddo / il caldo, se pensiamo che nell’«uovo nero» il soggetto si lascia «riscaldare») spesso con termini perfettamente equivalenti a livello del significante. Le «ferite» di Celan (con cui il poeta della Todesfuge,dopo Gherasim Luca, intendeva l’apertura delle fessure ontologiche e la loro impossibile «sutura») sono con Nichita Stănescu «immediatamente» riempite con un «dio» (nella Seconda Elegia, p. 104), e ciò che in Celan era un «toccare la ferita» si trasforma con Stănescu in un rivelarsi della visione: o rană întâmplătoare la mână / mă face să văd, prin ea, / ca printr-un ochean, / durerile lumii, războaiele («una ferita accidentale sulla mano / mi fa vedere, attraverso di essa, / come dentro un cannocchiale, / i dolori del mondo, le guerre») [p. 54]. Si assiste in entrambi i poeti alla rottura «della sfera del vuoto» (sferei de vid) [p. 106]: «gli occhi dalla fronte, dalla tempia, dalle dita / mi si aprono»(ochii din frunte, din tâmplă, din degete / mi se deschid) [p. 106] e l’immagine della dita cieche che non possono più «vedere», sono, come si sa, ricorrenti sia nell’opera di Celan che in quella di Stănescu, attraverso «le mura del silenzio» tra le sensazioni, che creano «il non-udito, la non-vista, / il non-olfatto, il non-gusto, il non-tatto» (neauzul, nevăzul, / nemirosul, negustul, nepipăitul) [pp. 126-127]. Continuando il parallelismo tra i due poeti a partire dal vuoto, si può dire che nella misura in cui Nichita Stănescu si auto-definisce come il  «pilota del vuoto e delle creature» (pilot al vidului şi al făpturii) in Deci voi sta [p. 237], cioè come colui che viene dal vuoto verso la creatura, Paul Celan sembra esplorare esattamente la traiettoria inversa, cioè  quella che dalla «creatura» porta verso il vuoto – tuttavia, il territorio,  la «veduta» percorsa, è ciò che li accomuna.

L’espressione della temporalità

Anche la temporalità, nella sua espressione più concentrata, quella delle «ore senza sorelle» (l’ora ultima, quella che non è seguita da nessun’altra) di Celan, è sorprendentemente presente nell’opera di Stănescu. Forniamo soltanto alcuni esempi per provarlo: ora, lovită, se sparse-n minute («l’ora, colpita, si ruppe in minuti») [p. 44], parcă am căzut din ore («sembra che sia caduto dalle ore») [p. 68], ora se-nclină, bate / cu secunde tot mai rare («l’ora s’inclina, batte / con secondi sempre più rari») [p. 91], che culmina con la straordinaria visione del Racconto sentimentale: Pe urmă ne vedeam din ce în ce mai des. / Eu stăteam la o margine a orei, / tu – la cealaltă, / ca două toarte de amforă. / Numai cuvintele zburau între noi, / înainte şi înapoi. (...) / Cuvintele se roteau, se roteau între noi, / înainte şi înapoi, / şi cu cât te iubeam mai mult, cu atât / repetau, într-un vârtej aproape văzut, / structura materiei, de la-nceput. Apoi: dacă fiecare secundă n-ar fi / mereu a trecutului («Dopo ci vedevamo sempre più spesso. / Io stavo all’estremità dell’ora, / tu – all’altra / come due manici di anfora. / Solo le parole volavano tra noi, / avanti e indietro. (…) / Le parole volteggiavano, volteggiavano tra noi, / avanti e indietro, / e ti amavo così tanto, così tanto / ripetevano, in un vortice quasi visibile, / la struttura della materia, dall’inizio»). Ancora: dacă fiecare secundă n-ar fi / mereu a trecutului («se ogni secondo non fosse / sempre quello del passato») [p. 221], e di nuovo: cad orele din pom. Ciorchine / secundele în strugure leşină («cadono le ore dall’albero. Grappoli / i secondi svengono nell’uva») [p. 223], smulg secundele din oră / şi le arăt, bătând («strappo i secondi dall’ora / e li mostro, battendo») [p. 239]; più avanti si assiste all’«interruzione dei secondi»: se poate stinge pocnind ca un bec / şi această secundă ştiută. / Poate rămâne ca la înec / deasupră-ne, apă stătută («si può interrompere scoppiando come una lampadina / anche questo secondo conosciuto. / Forse resta come un annegarsi / sopra di noi, acqua stantia»), un’acqua che si trasforma in un horn invers, ca fumul în râpă / cu ceru-n prăpăstii atras («comignolo inverso, come il fumo nel burrone / con il cielo attratto nell’abisso») [p. 230], in un paesaggio con animale înalte, dormind / pe şubredul aer. / Ele îşi scot pliscurile / în afara atmosferei, / în valuri («alti animali, dormendo / sull’aria acciaccata. / Sfoderano i becchi / fuori dall’atmosfera, / nelle onde») [p. 224] – giungendo infine, nello stesso testo, al ribaltamento degli assi spazio-temporali. Tuttavia, ad eccezione dell’ultima poesia citata (intitolata, non a caso, Timp, «Tempo») che parla esplicitamente di una «interruzione» temporale, le ore e i secondi sembrano essere, nel testo staneschiano, piuttosto pieni: essi «battono» come un cuore, si schiacciano i «grappoli», possono essere «strappati» e «spremuti», e ai loro bordi, come tra «due manici di anfora», circolano in vortice le parole, ripetendo la «struttura della materia, dall’inizio». In Celan, al contrario: i secondi e le ore ripetono, per così dire, proprio quell’«irripetibilità» dell’ora finale. Solo più tardi le ore staneschiane si trasformano in segni della rottura, della faglia tra soggetto e oggetto, io e tu, come nel verso s-au înfăşurat în ora / ne-amândurora («si sono avvolti nell’ora / nell’entrambi-noi») [p. 370] – oppure si pietrificano, come nella carne străvezie orelor / e mai pietroasă, cu fiecare oră («carne trasparente delle ore / è più pietrosa, ad ogni ora») [p. 376], oppure in forme rigidamente geometrizzanti, come in quelle orele mult mai pătrate / îmi lungeau fiinţa, lunga, («le ore molto più quadrate / mi allungavano l’essere, lungo») [p. 378]. Qui interviene un altro meccanismo degno di interesse che è presente in entrambi i poeti, quello dell’«indebolimento» / «dislocazione» della rigidità della pietra o della forma geometrica, che in Celan si manifesta attraverso «il parlare alla pietra» (allo scopo evidente di permettere che essa parli), mentre in Nichita Stănescu, con i versi piatra deasupra ei devine moale / şi curge în rotocoale la vale («la pietra sopra di essa diventa molle / e scorre nelle spire a valle») [p. 259], oppure con greu este să jupuieşti o piatră de sinele său («è difficile scalfire una pietra dal suo essere») [p. 269], assistiamo a una «sorta di pietra solubile» (chip de piatră solubilă) [p. 348] che fa sì che la materia diventi pământul, pământul / vorbirii cuiva («la terra, la terra / del parlare a qualcuno») [p. 289].

Linguaggio e comunicazione

Il parlare, la comunicazione, la testimonianza, il linguaggio sono centrali nell’opera di questi due grandi poeti – e non è il caso di stupirsi, giacché mettono in discussione, come già diceva Gadamer riguardo alla poesia di Paul Celan, la nostra condizione di comprensione dell’orizzonte in cui siamo completamente «invischiati». Mai forse nel XX secolo si è puntato così tanto sul problema della comunicazione come nel caso di Paul Celan e di Nichita Stănescu. L’immagine dell’occhio che esce dal dito, in ultima istanza, è anch’essa un segno di una possibile apertura tra l’io e il tu; proprio in una poesia intitolata Pierderea ochiului (La perdita dell’occhio): Şi totuşi, şi totuşi / poarta asta, dintre mine şi tine, / trebuie zguduită de cineva («Eppure, eppure / questa porta, tra me e te, / deve essere smossa da qualcuno») [p. 141] oppure in un altro testo sull’«idea del Tu» in Lupta lui Jacob cu îngerul (La lotta di Giacobbe con l’angelo): Eu sunt numai numele meu. Restul e Tu, i-am zis («Io sono solo il mio nome. Il resto è Tu, gli dissi») [pp. 142-145], vediamo un Tu proteso in un confronto così serrato con quel ce nu ţine de domeniul / comunicării / de domeniul înţelesului («che non appartiene al campo / della comunicazione / al campo della comprensione»), in cui la «comunicazione» viene accettata solo come una «condivisione» tra le due istanze enunciative. Infatti, le Non-parole sono una lunga serie di lotte, di «prove» della comunicazione, di «attese» dell’altro, come nel verso sunt aşteptat de tu («sono atteso dal tu») [p. 165], che avvengono in una «lingua muta», con un «occhio al posto della bocca» (ochi în loc de gură) [p. 153]. Questa «lingua muta» è fatta di cuvinte oarbe / lent şlefuite de mişcarea mării  («parole cieche / levigate lentamente dal movimento del mare») [p. 154], ed è molto simile alla parola «palpabile» di Celan, vera e propria «concrezione» della poesia celaniana. La prassi poetica è determinata naturalmente da un impossibile desiderio di «restituzione», come si vede nei versi: şi tu, o, tu, refacere-n interior, / tu, potrivire de jumătăţi, aidoma / îmbrăţişării bărbatului cu femeia sa, / o, tu, şi tu, şi tu, şi tu («e tu, oh, tu, rifacimento interiore, / tu, ricongiungimento delle metà, identico / all’abbraccio dell’uomo con la sua donna, / oh tu, e tu, e tu, e tu») [p. 111], versi che riprendono quasi come in un altro quadro (con le dovute differenze) le celebri e irregolari linee celaniane di Es war Erde in ihnen, und / sie gruben («Era terra dentro di loro, ed essi / scavavano») [6]: O einer, o keiner, o niemand, o du: / Wohin gings, da’s nirgendhin ging? / O du gräbst und ich grab, und ich grab mich dir zu, / und am Finger erwacht uns der Ring. («Oh nullo, oh nullo, oh nessuno, oh tu: / Dove s’andava, giacché non s’andava in alcun luogo? / Tu scavi ed io scavo, scavando ti raggiungo: / e al dito si ridesta a noi l’anello») [7]. La scissione tra sé e l’altro è sottolineata molto chiaramente da Nichita Stănescu, ed è in realtà una separazione irrecuperabile (e forse ancor più dolorosa) tra il sé e l’io: nu pot să înaintez niciunde. / De la eu la eu distanţa / e acoperită de moarte («non posso avanzare da nessuna parte. / Dall’io all’io la distanza / è coperta dalla morte») [p. 155]. Tale evento segna il tramonto dell’essere, ma non la fine della narrazione della storia: Ce poveste! / Este / a fost mâncat / de nu este («Che storia! / È / è stato mangiato / dal non è») [p. 339].
La poesia di Nichita Stănescu è comunque dominata da un ottimismo tragico inconfondibile all’interno dell’orizzonte dato, mentre quella di Paul Celan aspira all’impossibile riattualizzazione dell’orizzonte stesso, tentativo questo, alla fine, anch’esso di segno positivo. Entrambi i poeti pilotano attraverso il nulla: mentre uno si dirige verso il nulla per incontrare nella sua concretezza «l’essere», l’altro lo fa per attraversare il nulla in sé, nella speranza che, al di là del nulla, ci possano essere ancora dei resti di «esseri» perduti. Solo così si giustifica forse, nelle «parole fisse», la fiducia staneschiana nei confronti del «parlare di coloro che non cambiano»: o, voi cuvintelor, cuvintelor / pe care le desfăşor mereu / în urmă, ca o locomotivă / sufletul ei negru… / orice corn poate să vă străpungă // cuvintelor, cuvintelor / şi orice dorinţă de corn / cuvintelor, necuvintelor… («Oh, voi parole, parole / che srotolo sempre / dopo, come una locomotiva / la sua anima nera… / ogni corno forse vi trafiggerà // parole, parole / e ogni desiderio di corno / parole, non-parole…») [p. 227], oppure cuvintele fixe erau trupul lor, / trupurile lor nu erau decât o limbă / vorbind în limba celor care mor / vorbirea celor ce nu se schimbă («le parole fisse erano il loro corpo, / i loro corpi non erano altro che una lingua / che parla nella lingua di coloro che muoiono / il parlare di coloro che non cambiano») [p. 232]. Nel poema Necuvintele, che dà il titolo al volume della raccolta, sono invece le «non-parole» a trasformarsi in «sangue» e poi in «linfa», mentre le istanze enunciative del discorso continuano comunque a restare, proprio a causa di questo transfert, fondamentalmente sole: Eu am trecut prin el. / El a trecut prin mine. / Eu am rămas un pom singur. / El / un om singur. («Io ho vissuto attraverso di lui. / Lui ha vissuto attraverso di me. / Io sono rimasto un albero solo. / Lui / un uomo solo»). Forse, nei versi che seguono di Stănescu, è proprio possibile assistere alla descrizione di quella miracolosa operazione che ha sempre tentato di fare Celan: noi am vorbit împreună vorbirea / acelor trupuri care nu mai sunt («Noi abbiamo parlato insieme il parlare / di quei corpi che non ci sono più») [p. 195]. E ciò riguarda forse anche il tempo, lo scorrere del fiume che trascina con sé l’esistenza e con sé il tutto: Curge un râu undeva lângă noi / şir lung de ochi, şir lung (…) sunt malurile lui. Şir / nesfârşit de ochi privitori / multiplicând luna-n delir / înotând printre nori («Scorre da qualche parte un fiume accanto a noi / lunga serie di occhi / lunga serie (…) sono le sue sponde. Serie / infinita di occhi scrutatori / moltiplicando la luna nel delirio / nuotando tra le nubi») [p. 204] oppure, come si vede nel testo seguente, è sempre il fiume che trecea foarte repede, deşi / numai el era de faţă, tot timpul. / Fiind de faţă el trecea / cu faţă cu tot, astfel / ne sărutam cu gâturile retezate / Cuvintele tale şi cuvintele mele / erau lipite, pentru că / locul din care se năşteau / era unul şi acelaşi pentru amândoi (…) Trecea foarte repede râul, deşi / numai el exista / Existând, el trecea cu existenţă cu tot («passava molto velocemente, sebbene / soltanto lui fosse di fronte, tutto il tempo. / Essendo di fronte lui passava, / così noi ci baciavamo con i colli mozzati / Le tue parole e le mie parole / erano incollate, perché / il luogo in cui nascevano / era l’uno e lo stesso per entrambi […] Passava molto veloce il fiume, sebbene / solo lui esistesse / Esistendo, lui passava con l’esistenza e con il tutto») [p. 205].

Una testimonianza nell’«ombra» dell’essere

Forse l’evoluzione delle strutture profonde della poesia di entrambi i poeti è avvenuta nell’«ombra» dell’essere, e ciò testimonia anche l’attrazione manifestata dalla filosofia ermeneutica nei confronti dell’opera di Paul Celan che, come si è detto, è stata enorme per lo meno nel suo caso. Si sa che un determinato verso che insiste esattamente su questo «più d’ombra»: Sprich auch du, /sprich als letzter, / sag deinen Spruch.Sprich – / Doch scheide das Nein nicht vom Ja. / Gib deinem Spruch auch den Sinn: / Gib ihm den Schatten. // Gib ihm Schatten genug, / gib ihm so viel, / als du um dich verteilt weiβt zwischen / Mittnacht und Mittag und Mittnacht. («Parla anche tu, / parla come l’ultimo, / di’ la tua poesia. // Parla – / Ma non separare il no dal sì. / Dà anche senso alla tua poesia: / dàlle l’ombra. // Dàlle ombra abbastanza, / tanta che intorno a te / tu la sappia spartita tra / mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte») [8], ha dato il titolo a un libro di Vincenzo Vitiello, Non dividere il Sì dal No. Tra filosofia e letteratura (Laterza, 1996). Chissà cosa avrebbe scritto il filosofo italiano se avesse conosciuto anche questi versi di Nichita Stănescu dell’Elegia întâia (Elegia prima): Spune Nu doar acela / care-l ştie pe Da. / Însă el, care ştie totul, / la Nu şi Da are foile rupte («Dice No solo chi / conosce il Sì. /Ma esso, che sa tutto, / per il No e per il Sì ha i fogli strappati») [9] [p. 102]? Questa domanda merita un esercizio dell’immaginazione che non è affatto gratuito.
Dopo aver identificato sommariamente delle analogie nelle poetiche di entrambi i poeti, e segnalato anche alcune sovrapposizioni a livello significante, possiamo accostare un’altra immagine degna di rilievo, quella cioè relativa al «testimone». Se Paul Celan, in Aschenglorie (Splendore di ceneri), afferma: Niemand / zeugt für den / Zeugen («Nessuno / testimonia / per il Testimone»), Nichita Stănescu sembra ribadire così: Om este cuvântul care doarme în pietrele omului. / Om este cuvântul care zace în stelele / de deasupra omului. / Om este necuvântul omului. // Om este omul care moare asistat de om. / Om este cel care depune mărturie / despre om în faţa omului («Uomo è la parola che dorme nelle pietre dell’uomo. / Uomo è la parola che giace nelle stelle / sopra l’uomo. / Uomo è la non-parola dell’uomo. // Uomo è l’uomo che muore assistito dall’uomo. / Uomo è colui che depone la testimonianza / sull’uomo di fronte all’uomo») [p. 213]. Tra la «non-testimonianza per il testimone» e la «deposizione della testimonianza dell’uomo di fronte all’uomo» c’è una differenza d’attitudine e non di percezione – i due grandi poeti hanno sentito con la stessa gravità le cose e, in maniera altrettanto profonda, hanno «pilotato» attraversando il nulla. Nichita Stănescu rivela questo nulla come un’apocalisse aurorale, mentre Paul Celan lo consegna nella sua poesia come un’aura nera dell’apocalisse.


Mircea Ţuglea
Traduzione di Irma Carannante

(n. 12, dicembre 2013, anno III)

NOTE

1. Si tratta del libro di Mircea Ţuglea, Paul Celan şi avangardismul românesc, Pontica, Costanza, 2007 [N.d.T.].
2. Secondo il titolo di una delle poche esegesi che concettualmente potrebbe stabilire delle affinità concludenti tra i due poeti, ovvero quella di Ştefania Mincu, Nichita Stănescu: între poiesis şi poiein, Editura Eminescu, Bucarest, 1991.
3. Ho preso in prestito la variante noem dalla traduzione di Pierre Jorris (Paul Celan, Breathturn, Sun and Moon, Los Angeles, 1995). In tedesco noem è Genicht, che si contrappone a Gedicht.
4. Questa mia prima ricognizione è comunque parziale. Dato che questo articolo è stato scritto in Italia, a Firenze, ho utilizzato un’antologia tascabile dell’opera staneschiana, intitolata Necuvintele (Non-parole) e apparsa presso Curtea Veche nel 2009, nella collezione Biblioteca pentru toţi con una prefazione di Daniel Cristea-Enache. Per comodità di lettura si indicano tra parentesi soltanto il numero delle pagine dell’edizione citata.
5. I versi di Goethe sono stati tradotti da Franco Camera e si trovano in Hans Georg Gadamer, Chi sono io, chi sei tu. Su Paul Celan, Marietti, Genova, 1989, p. 119 [N.d.T.].
6. I versi celaniani sono tradotti da Giuseppe Bevilacqua e si trovano in Paul Celan, Poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1998, p. 351 [N.d.T.].
7. Ibidem.
8. Traduzione di Mario Ajazzi Mancini[N.d.T].
9. La stessa cosa è stata rilevata anche da Giovanni Rotiroti nel suo saggio Ciò che resta dell’enigma dopo l’esercizio critico della traduzione. Intorno all’Elegia prima di Nichita Stănescu, apparso negli Annali dell’Università Ovidius di Costanza, Sezione Filologia, volume XVII, 2006, p. 207, in cui si mettono in relazione questi versi staneschiani con il versetto (5,37) del Vangelo secondo Matteo: «Sia invece il vostro parlare si, si; no, no; il di più viene dal Maligno». (La traduzione dei versi dell’Elegia di Nichita Stănescu è di Giovanni Rotiroti [N. d. T.])