Donna-sfinge o donna fatale? L'universo femminile e «La noia» di Moravia

Ci sono quattro tipi di donne nella letteratura, sottolinea Corina Ciocârlie nel suo Fals tratat de disperare (Falso trattato di disperazione) [1]: la sfinge oppure la moglie dominante; la bisbetica oppure la moglie detestata; il diavolo oppure la donna fatale; Vidma oppure la donna malata.
Analizzando il noto romanzo di Alberto Moravia La noia, si può notare che la classifica di Corina Ciocârlie non è del tutto valida per i personaggi-donne di Moravia, specialmente nel caso della madre del protagonista. Prima di tutto, la madre di Dino è una donna sfinge, perché è una donna che «non ha passioni, dolori o nostalgie, non sa che cosa sia la vergogna, non conosce il gusto della sconfitta»[2]. Per Dino, lei è una persona fredda, rigida, anche la sua voce è sgradevole: «… non potei fare a meno di notare che il suono della sua voce restava il solito, secco e gracchiante, simile al verso della cornacchia». (p. 27).
La donna-sfinge è di una bellezza perfetta, ma Dino non parla affatto della bellezza di sua madre. Al contrario: «Mia madre amava adornarsi di gioielli vistosi: anelli massicci … intorno alle dita magre, braccialetti … che ad ogni momento parevano doverle scivolare via dai polsi ossuti, spille troppo ricche per il suo petto sfornito, orecchini troppo grandi per le sue brutte orecchie cartilaginose». (p. 26-27).
Poi, «efficiente e prudente, la donna-sfinge prende su di sé tutte le responsabilità del marito»[3]. La definizione è valida, in questo caso, anche per il nostro personaggio: parlando di suo padre, Dino chiede alla madre:
«- Perché allora, se è vero che non scappava da te, tu non viaggiavi con lui?
- Prima di tutto qualcuno doveva pur stare a Roma e occuparsi dei nostri interessi.
- Vuoi dire i tuoi interessi.
- Gli interessi della famiglia». (p. 29).
Un'altra volta, fiera di se stessa, dichiara al figlio: «Grazie a tua madre, tu sei oggi un uomo molto ricco». (p. 57). «Era vero che … metteva nell’amministrazione e nell’accrescimento del nostro patrimonio un’incredibile passione» (p. 29), dice ironicamente Dino, ma anche con un bri-ciolo di ammirazione distaccata.
Una donna-sfinge non può amare mai suo marito, perché è egocentrica: lui è solo un pretesto per amare se stessa e poi, quando lui non è più necessario, deve scomparire. Per la madre di Dino non contavano mai i sentimenti di suo marito, lui diventa un oggetto qualsiasi che deve scomparire[4]. Quando Dino vuole sapere perché scappava di casa anche suo padre, lei gli risponde: «Non mi sono mai curata di saperlo. So soltanto che diventava triste, non diceva più niente, non usciva mai. Alla fine ero io stessa che gli davo i soldi e gli dicevo: prendi, va', è meglio che te ne vai». (p. 30)
C'è qualcosa di strano in questa coppia: i genitori di Dino non si sono sposati per amore – questo è chiaro e lo riconosce anche la madre («… ma non mi amava» – p. 30). E tuttavia, il matrimonio si è fatto. Siccome era una donna ricca, la moglie si è comprata il marito e, da questo punto di vista, è anche una donna-bisbetica[5]. Dino lo indovina subito:
«- E allora perché ti aveva sposato?
- Sono io che volli sposarlo. Lui forse ne avrebbe fatto a meno.
- Lui era povero, no? E tu ricca?
- Sì, lui non aveva proprio niente. Era di buona famiglia … Ma questo è tutto». (p. 30).
Continuando ad analizzare il nostro personaggio, però, si può osservare che, dal modo di vestirsi, si tratta un po' anche di una donna diavolo. Dalla descrizione di Dino si capisce che sua madre non si vestiva affatto come altre donne della sua età e questo la fa sembrare una donna leggera. Vestita di capi affatto innocenti e adornata di gioielli, lei organizza a casa dei tornei di bridge o di canasta: «Mia madre indossava un vestito turchino a due pezzi, con la giacca molto stretta alla vita e molto larga alle spalle e la gonna angustissima, addirittura una guaina. Si vestiva sempre così, con vestiti molto attillati». (p. 26).
È chiaro che si veste in questo modo per due motivi: per attirare l'attenzione verso di sé (perché con la sua bellezza non si può vantare, ma con i gioielli e i vestiti, sì) e per snobismo (Dino dice ad un certo momento che tutte le belle cose che sua madre ha in casa sono comprate a causa del prezzo alto e non per la loro buona qualità e bellezza, perché lei non è di buon gusto): «Mia madre amava adornarsi di gioielli vistosi: anelli massicci, … braccialetti enormi carichi di amuleti e di pendagli, … spille troppo ricche, … orecchini troppo grandi». (pp. 26-27).
In conclusione, la madre di Dino è una donna sfinge, perché è fredda; ma non è una donna sfinge, perché non è bella. È una donna bisbetica, perché si compra il marito e, più tardi, la presenza del figlio, ma non lo è, perché non è obesa, non mangia troppo (come fa, di solito, un tale tipo di donna). È una donna diavolo, perché è egocentrica e si comporta quasi come una donna leggera, ma non lo è, perché non è interessata al sesso e alle perversioni sessuali. E allora, c’è un po' di tutto, una mescolanza di più tipi di donne che, tuttavia, alla fine, si può definire così: una donna fatale, perché una cosa è chiara: la sua presenza uccide.        



Cecilia, donna fatale

Cecilia è un'altra donna fatale e questa volta abbiamo – senza dubbio – la donna diavolo oppure la donna fatale, in senso proprio. Anche se non bellissima e abbastanza magra, come una bambina, lei sa farsi attraente e diventare una vera donna davanti alla sua ʻvittimaʼ che è sempre un uomo più o meno dell'età di suo padre, se non addirittura più anziano. Dino la descrive spietatamente: «Adolescente dalla vita in su, donna dalla vita in giù, Cecilia suggeriva un po' l’idea di quei mostri decorativi che sono dipinti negli affreschi antichi: specie di sfingi o arpie, dal busto impubere innestato, con effetto grottesco, in un ventre e due gambe possenti». (p. 108)
«La vidi allontanarsi nell'ombra … con la sua capigliatura gonfia, crespa e bruna, il suo dorso gracile e ossuto e, sotto la vita snella, le due convessità pallide e oblunghe delle natiche». (p. 121).
A vederla sembrava una donna o, meglio dire, una ragazza qualsiasi. Lo dimostrano anche le parole di Dino: «La ragazza non mi piaceva, non avevo mai amato che donne fatte, e questa, che non doveva avere più di diciassette anni, ne mostrava meno di quindici a causa della gracilità della persona e della infantilità del volto». (p. 69).
Era forse anche il parere di Balestrieri, perché neanche a lui piaceva all'inizio e la respingeva sempre. Più tardi, ne diventa succube.
Ma Cecilia non sa aspettare di essere scelta, basta che le piaccia un uomo e userà dei trucchi per farsi accettare. Per arrivare al pittore Balestrieri, per esempio, ha detto alla sua amica Elisa (che posava per lui) che è stato lui a telefonare per avvisarla di non venire più da lui perché era molto impegnato. Ed è andata lei da Balestrieri che, pian piano, l’ha accettata, dichiarandole tuttavia più tardi: «… se tu non facevi quel trucco, non ti avrei mai dato retta, non mi piacevi». (pp. 90-91). Una volta sicura del suo amore, Cecilia lo tradisce e vuole lasciarlo, facendolo tentare più volte di uccidersi; in altre parole, lo uccide indirettamente e ben consapevole di ciò che fa. Quello che non riesce Balestrieri con i barbiturici, riesce con l’amore eccessivo: anche se si sente male, le dice un giorno durante l'amplesso:  «Continua, continua, vorrei che tu continuassi senza tenere conto di me, anche se protesto, anche se mi sento male, e mi facessi morire, ma davvero morire». (p. 116). E Cecilia continua… Dopo la morte di Balestrieri, si arriva alla conclusione – dopo l’autopsia – che «la causa non troppo indiretta della sua morte era stato il suo amore per la ragazza». (p. 101). Il medico le dice: «Signorina, lei lo ha ucciso». (p. 73).
Una volta morto Balestrieri, Cecilia si sbriga a trovarsi un'altra vittima che ha adocchiato da molto: Dino. La storia si ripete fino ad un punto: la respinge anche lui e si meraviglia come è possibile che una donna così insignificante come lei possa «suscitare una passione così distruttiva come quella di Balestrieri». (p. 113) Le dice anche in faccia: «… immaginavo che tu fossi una donna terribile, di quelle che possono rovinare un uomo. Invece mi sembri una ragazza molto normale». (p. 115)
L’impressione di Dino non rimane la stessa, però, per molto tempo: «Le prove che Cecilia era venale si moltiplicavano» (p. 286), dice più tardi. Ma meno male che Dino non finisce per morire, „davvero, come accade con gli altri uomini del romanzo.
Che Cecilia sia una donna-diavolo lo conferma anche il fatto che si fa pagare; questo tipo di donna combina sempre l’appetito sessuale con l’interesse materiale: «Presi dunque l’abitudine, al primo momento dei nostri incontri, di spingere nella mano di Cecilia, senza dir niente, come avevo fatto la prima volta, una somma che, secondo i giorni, variava dalle cinque alle trentamila lire». (p. 256)
Anche la madre di Cecilia è una donna fatale, non si può precisare esattamente di quale tipo, perché il narratore non insiste su di lei; lui è interessato solo a tracciare la cosa più importante: è una donna fatale che uccide suo marito, con la sua gelosia, giorno per giorno.

Laura Stefania Mara
(n. 10, ottobre 2012, anno II)

NOTE

1. Vedi Corina Ciocârlie, Fals tratat de disperare, Timisoara, Hestia, 1995, p.62.
2. Ibidem, p.63.
3. Ibidem, p.66.
4. Ibidem, p.72.
5. Ibidem, p.75.