Verginità della parola e determinatezza della memoria nella lirica di Giuseppe Ungaretti

Il 24 maggio del 1915 l’Italia entrava in guerra contro l’Austria e Giuseppe Ungaretti si arruolava volontario. In dicembre era già al fronte combattendo sul Carso come semplice soldato del diciannovesimo reggimento di fanteria. Coinvolto nel periodo precedente la guerra in clamorose campagne interventiste, il fante Ungaretti non era più a quel tempo un ‘ragazzino’ perché compiva i suoi ventisette anni. Però, i versi scritti in questo periodo non sono affatto il frutto di un tentativo di sublimazione dannunziana delle virtù eroiche, rigeneratrici della guerra, e neppure un patetico tentativo di mascherare un segreto rimorso. L’esperienza di trincea, i massacri, i primi treni-ospedale che portavano i feriti in patria diventano tuttavia i presupposti di una lacerante ‘prise de conscience’. Il porto sepolto, primo nucleo della Allegria, nasce in questo periodo. La forza e l’influenza di questi componimenti sarebbero rimaste piuttosto insignificanti se la spinta diaristica – queste poesie sono in gran parte una specie di cronaca di una coscienza traumatizzata – non si fosse associata a uno sforzo di rinnovamento dei canoni poetici.

Ricercare la parola vergine
         
Il poetare ungarettiano si dimostrò sin dalla pubblicazione del Porto sepolto (1916) una proposta sorprendente. Il principale strumento dell’innovazione fu decisamente un tipo di sillabazione ‘rituale’ che porta il fruitore alle radici archetipiche del linguaggio.  Ungaretti abbandona i vecchi schemi retorico-stilistici e impone i propri codici di comunicazione poetica realizzando ipso facto un raccordo con la grande poesia europea nata dopo e, in certo qual modo, in seguito alle turbolenze degli avanguardisti. Nel suo ormai classico saggio La struttura della lirica moderna Hugo Friedrich perlustra la poesia della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento e osserva che, nel secolo scorso, Gottfried Benn, Apollinaire, Ungaretti e T. S. Eliot aspirano a creare una nuova lingua, se non addirittura un’antilingua, ottenuta per varie dislocazioni della struttura sintattica, dei meccanismi grammaticali, del tessuto logico. L’esito è un linguaggio incongruente e il ‘come si fa’ diventa in sostanza più importante del ‘cosa si dice’: nel complicato processo di generazione del testo poetico, il primo elemento dell’equazione creativa ingloba completamente il secondo assumendone tutte le potenzialità semantiche. Scrive Friedrich: «Il vertice dell’opera e il vertice dell’effetto sono nella tecnica. Le energie artistiche si trasferiscono quasi completamente nello stile, il quale è l’esecuzione linguistica e quindi il fenomeno più immediato della grande trasformazione del reale e del normale. La differenza rispetto alla lirica precedente è dunque nel fatto che l’equilibrio tra contenuto dell’espressione e modo di espressione è soppiantato dalla prevalenza di quest’ultimo» [1].

L’immersione nell’indeterminatezza

Tale filosofia creativa produce di solito una sorta di nominalizzazione del verso dove i verbi scarseggiano o sono ancora presenti ma con funzioni alquanto distorte. Hugo Friedrich individua nella lirica moderna i segni di una «ostilità della frase» che deriva da una voluta ambiguità lessicale e sintattica. Inoltre, molti poeti moderni praticano con passione l’immersione nell’indeterminato creando significati nebulosi e riescono con tutto ciò a non far sparire completamente la contingenzialità che rimane però spesse volte in questa nuova poesia solo come pretesto per acrobazie formali. Il poeta sembra cedere alle insidie di una vagheggiata plasticità materiale della lingua e vuole invadere il territorio degli scultori, dei pittori e dei musicisti trasformando la comunicazione linguistica in uno strumento simile al marmo, al colore, al suono. Studiando i versi dell’Allegria ungarettiana è assai facile dare risalto a queste nuove tendenze e Friedrich s’appoggia sul testo Noia nella cui sequenza centrale osserva la mancanza dei predicati verbali: «Questa solitudine in giro / titubante ombra dei fili tranviari / sull’umido asfalto». Così, Ungaretti sembra aver voluto rendere più intensa la desolazione notturna che grava sulla città [2]. Molto pittorica poi la corrispondenza cromatica e dinamica tra la vibrazione ombratile dei fili tranviari e «le teste dei brumisti» che l’osservatore lirico sorprende «nel mezzo sonno / tentennare».
Attento alle esperienze europee, l’autore dei Fiumi, in uno sforzo simpatetico e nel contempo originale, s’inventò, a partire dall’Allegria, un tipo di comunicazione letteraria privo di magniloquenze stilistiche e tematiche perché aveva bene intuito il grado di fossilizzazione di una certa prestigiosa lingua poetica. Non a caso in una brevissima poesia intitolata Tappeto, quasi un haiku («Ogni colore si espande e si adagia / negli altri colori / Per essere più solo se lo guardi»), trapelano tutti i tratti della migliore lirica novecentesca: ciò che Paul Valéry chiamava ‘festa dell’intelletto’; al contrario ciò che il surrealista André Breton intendeva per ‘crollo dell’intelletto’ [3]; una concentrata e astratta espressione del misterioso gioco mentale che implica un’oscillazione tra percezione globale e impegno analitico; un rinvio sottile all’idea di  fluidità della materia [4].

Babble, doodle e oltre

Quando si trovava quasi al coronamento della sua carriera, il poeta descrisse il processo che lo portò dal linguaggio scarnificato dell’Allegria ad altri modi espressivi che per primo si sarebbero materializzati nella raccolta Il sentimento del tempo. Esprimere la stupefazione di stare al mondo e lavorare indefessamente per addomesticarne i misteri sembrano siano le mansioni tradizionali dei poeti di tutte le epoche e Ungaretti aveva capito bene l’essenza contraddittoria della propria condizione. Per questo forse in un paratesto intitolato Ragioni d’una poesia, che è allo stesso tempo una sintesi della propria poetica e un corpus di istruzioni d’uso della sua lirica, egli parla del nesso segreto che esiste tra fantasia e logica, sottolineando un insito intento organizzatore dell’arte: «...tutto quel potere d’evocazione della realtà, quel potere magico di restituire per sempre, muovendo la fantasia, un momento della realtà, l’arte l’ottiene principalmente per la sua forza geometrica» [5].
Ungaretti vi si avvicina alle riflessioni di Northrop Frye perché nella tragicità della trincea pare aver riempito di abbozzi lirico-grafici (doodles) i suoi quaderni di guerra schizzando così dei percorsi poetici nati da un ritmo primitivo, cioè da un segreto babble ossia balbettio della fantasia catturato poi certo irrevocabilmente dalla coscienza artistica. Queste proposte terminologiche e fenomenologiche di Frye sono un po’ imprecise come lo è l’arte stessa, ma ovviamente si dimostra pienamente valida la sua idea concernente la tendenza della lirica a rivolgersi all’orecchio per il tramite dell’occhio, soprattutto dopo la straordinaria diffusione della stampa [6]. Ungaretti non produce le ormai canoniche calligrammes, ma è molto attento agli effetti risultanti dalla mancanza della punteggiatura che cambia completamente la fisionomia grafica dei suoi componimenti. Poi, osserva Pier Vincenzo Mengaldo, Ungaretti coinvolge «nella significazione, ben più profondamente che nella poesia tradizionale, pause di silenzio e spazi bianchi» riuscendo a semantizzare anche parole espressivamente ‘vuote’ (preposizioni, avverbi, articoli, congiunzioni) [7].
Nella famosa poesia Soldati, contrassegnata da una precisazione diaristica – Bosco di Courton, luglio 1918, si può osservare il doloroso stato di sospensione grafica dell’avverbio connettivo (quasi un grido tipograficamente raffigurato) che apre il paragone nel primo verso

- «Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie» -

e il modo in cui come acquista una forte carica semantica svelando abissi dell’abbandono, della disperata e muta solitudine collettiva. Stando ai precetti della semiotica, un testo estetico nasce di solito come conseguenza di un processo di ipercodifica, ma Ungaretti vi dimostra in soli quattro versi che l’ipocodifica è altrettanto efficace; rinunciando alle scorie retoriche, il poeta ricorre all’essenzialità espressiva e struggenti contenuti tragici irrompono dalla struttura profonda della poesia: la fragilità di quei poveri  soldati e l’angoscia derivata dal presentimento di imminenti pericoli, tradotta poi in quell’immobilismo o tanatosi che adottano gli insetti quando si sentono  minacciati.
Il poeta evita la grandiloquenza retorica e scopre la magniloquenza semantica, metodo che trasforma ogni vocabolo in un nucleo capace di trasmettere significati inconsueti. Così, le pochissime unità lessicali si trasformano in parole-catacresi. L’apertura ottenuta è massima principalmente perché il referente è titubante, sfumato, e la tecnica musicale del glissando produce strane deviazioni di senso. Inoltre, il linguaggio, scosso sin dalle fondamenta, diventa contemporaneamente discorso illocutorio e atto linguistico perlocutivo. Il fruitore è coinvolto quasi senza rendersi conto in una sconvolgente avventura cognitiva. In Pellegrinaggio, ad esempio, è invitato allo spettacolo di un’alienazione che rompe i vincoli della congenita astrattezza per trasformarsi in sofferenza corporea. Atomo insignificante in un angolo dell’universo dove regna l’entropia tipica di una guerra di posizione e di logoramento, il soldato Ungaretti cessa di essere una persona diventando una ‘cosa’: soffocato da «budella di macerie», sempre in agguato, paralizzato dalla paura di uccidere o di essere ucciso, è già reificato e parzialmente ‘vegetalizzato’ come accade d’altronde anche in componimenti come Soldati oppure Fratelli. Ma Pellegrinaggio, pur lasciando spazio a un’esile speranza, raddoppia la dose di tragicità: «ore e ore / ho strascicato / la mia carcassa / usata dal fango / come una suola / o come un seme / di spinalba // Ungaretti / uomo di pena / ti basta un’illusione / per farti coraggio // Un riflettore / di là / mette un mare / nella nebbia».

Una metafisica del tempo fluido

Sottrarsi alle insidie della Storia, sublimare ad esempio i timori e le atrocità della guerra, è la difficile impresa che non di rado si propone di portare a termine il personaggio Ungaretti la cui voce o meglio dire coscienza ‘operativa’ fa vibrare i versi dell’Allegria. Brani di una vita anteriore, residui di comunicazione normale, il valore ritrovato dell’umanità e della sofferta partecipazione ai mali altrui diventano tutti elementi d’appoggio che fanno scattare spontanei meccanismi psichici di difesa. Eccoli funzionare nella ben nota Veglia, stesa il 23 dicembre del 1915 presso la Cima Quattro: «Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto lettere piene d’amore // Non sono mai stato / tanto  / attaccato alla vita».
I confini tra presente mortificante e passato idealizzato si dissolvono e il soggetto lirico si ricostruisce una normalità sfuggevole conforme a una percezione metafisica del tempo come fluido instabile ed evanescente [8]. Così succede in C’era una volta, stesa nel primo giorno dell’agosto del 1916: «Bosco Cappuccio / ha un declivio / di velluto verde / come una dolce / poltrona // Appisolarmi là / solo / in un caffè remoto / con una luce fievole / come questa / di questa luna».
Una deissi della memoria fa qui capolino e l’iterazione apparentemente banale del dimostrativo questo che dovrebbe rinviare a precise coordinate del cronotopo produce piuttosto una sequenza temporale fluida e labile che si potrebbe forse formalizzare in questo modo:  

Passato recuperato  ←→ deittico (questo) ←→ Presente respinto.

L’avverbio del sesto verso si deve decifrare in base agli stessi codici dell’indeterminatezza perché indica un posto collocato nella realtà ricostruita dal ricordo.
Questa deissi della memoria raggiunge la sua pienezza in un componimento ben noto, I fiumi, poesia con certe virtù narrative che costituisce un classico esempio di transcodifica. L’avventura autodiegetica si svolge in solitudine assoluta e, prima di procedere a certi rituali di recupero della memoria, il personaggio-soldato, usando sempre il deittico ‘questo’, cerca disperatamente di fornire precise informazioni in merito al quadro spazio-temporale, cercando a mano a mano di allontanarsi da un presente insopportabile: «Mi tengo a quest’albero mutilato / abbandonato in questa dolina». Il primo tipo di passato evocato è uno recentissimo e l’avverbio stamani conserva ancora la sua piena funzione di deittico: «Stamani mi sono disteso / in un’urna d’acqua / e come una reliquia / ho riposato».
Si tratta ovviamente di un rito di immersione nelle acque dell’Isonzo, di un lavacro purificatorio che deve far scattare gli automatismi della memoria involontaria. L’abluzione rituale è seguita dall’inchino davanti all’altare improvvisato in un sincretico gesto che unisce un brivido precristiano a una religiosità di tipo orientale: «Mi sono accoccolato / vicino ai miei panni / sudici di guerra / e come un beduino / mi sono chinato a ricevere / il sole».
Si ha così una ritualizzazione raddoppiata – rito battesimale e poi prosternazione da beduino – per cui il protagonista cerca quello stato di ataraxia, di armonia perfetta che lo aiuti a ripassare le epoche della sua vita: «Questo è l’Isonzo / e qui meglio / mi sono riconosciuto / una docile fibra / dell’universo».
‘Questo’ e ‘qui’ sono ancora indicazioni precise ma il presente del verbo ‘essere’ è in certo qual modo problematico perché richiama nella memoria gli altri fiumi emblematici per le varie tappe di crescita del personaggio. Segue una lunga sequenza anaforica («Questo è il Serchio...Questo è il Nilo...Questa è la Senna...») con una sorprendente intelaiatura semantica in cui il dimostrativo ‘questo’ che di solito serve a identificare un “oggetto” e può  indicare anche vicinanza spaziale diventa il veicolo temporale ambiguo di un passato rivissuto e chiuso tra due formule sacre: «Questi sono / i miei fiumi» e, alla fine dell’analessi, «Questi sono i miei fiumi / contati nell’Isonzo».
Ovviamente, il protagonista si sforza di crearsi una mitologia personale rifugiandosi in illo tempore. Per breve tempo ci riesce e il viaggio si dimostra benefico ma poi deve riconoscere che non può evitare la circolarità del tempo e torna al punto di prima che coincide con una sorta di dolorosa espansione semantica del deittico principe del testo: «Questa è la mia nostalgia / che in ognuno / mi traspare  / ora ch’è notte / che la mia vita mi pare / una corolla / di tenebre».


Hanibal Stănciulescu
(n. 2, febbraio 2015, anno V)



NOTE

1. Hugo Friedrich, Die Struktur der modernen Lyrik, Rowohlt Taschenbuch Verlag GmbH, Hamburg 1956; ed. it. La struttura della lirica moderna, Garzanti, Milano 1971, pp. 158-159.
2. Ivi, pp. 162-163.
3. Ivi, p. 150.
4. Hanibal Stănciulescu, Interpretare şi empatie în traducerea textului poetic, in Romanica 13 (Traductologie: teorie şi analiză), Editura Universităţii din Bucureşti, 2012, p. 221.
5. Giuseppe Ungaretti, Ragioni d’una poesia, in Vita d’un uomo - Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1986, p. LXX.
6. Cfr. Northrop Frye, Anatomy of Criticism, Princeton University Press 1957, ed. rom. Anatomia criticii, Univers, Bucureşti 1972, pp. 346-347, 350.
7. Pier Vincenzo Mengaldo (a.c.), Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1996, p. 384.
8. Cfr. Giacomo Debenedetti, La poesia italiana del Novecento, Garzanti, Milano 1998, pp. 69-104 e 127-173.