Carmine Abate, vincitore del Premio Campiello. Una testimonianza interculturale

L’emigrazione italiana ha espresso, come del resto ogni fenomeno migratorio, una vasta produzione artistica e letteraria, che si è andata evolvendo negli anni, acquisendo nuove forme, nuove tematiche, nuove spinte artistiche. Tale produzione ha arricchito la letteratura di migrazione e le donne e gli uomini che l’hanno resa possibile esprimono oggi un importante apporto culturale, sul piano internazionale e multiculturale. Il presente contributo intende analizzare alcuni aspetti della scrittura narrativa di uno dei rappresentanti di questa corrente letteraria. L’aspetto che assumerà particolare rilievo sarà quello linguistico: ci si soffermerà sulla componente ʻoraleʼ rintracciabile nella narrativa di Carmine Abate [1] e sulle scelte linguistiche da lui prodotte. È comprensibile che la lingua ricopra una grande importanza: gli emigrati basano soprattutto sull’elemento linguistico la possibilità non solo di stabilire un contatto, per quanto basilare con la diversità, ma anche di rappresentare ed auto-rappresentarsi come quel ʻdiversoʼ che si diviene, lontano da un mondo familiare, sempre identico a sé, o quasi. La scrittura narrativa di Carmine Abate, infatti, si fa strumento e testimonianza di un incrocio e di un impegno interculturale che le garantiscono piena attualità e profonda efficacia.


Carmine Abate, uno scrittore tra mitologia e non-esperienza

Nel panorama degli scrittori italiani, Abate viene considerato uno scrittore tra mitologia e non-esperienza. Con tutti i romanzi finora da lui pubblicati, sembra che Abate compia un unico ciclo che riguarda il suo paese d’origine, la nostalgia che sente. E la nostalgia per Abate non appartiene solo a quell’emigrante che è in grado di costruire una rete di nuovi rapporti e nuove identità nel nuovo mondo; la nostalgia appartiene anche ai posti sconosciuti, alle radici negate, al tempo perduto, ai padri mancati.
Tramite la sua creatività, lo scrittore arbëresh prova sempre di riscoprire il senso e l’importanza dell’identità culturale e della ricerca di se stesso, poiché la memoria, secondo lui, è l’unica che si sottomette alle dimenticanze del tempo ed ai cambiamenti delle società. L’opera letteraria di Abate ha le sue radici in un’esperienza personale, testimoniale. Fin da bambino, lo scrittore convive con il turbamento e il dispiacere causato dalla separazione dal padre emigrato. Scrive: «Quando avevo quattro anni, mio padre partì per la Francia con un contratto di lavoro da minatore, rientrò dopo un anno per ripartire alla volta della Germania, dove è rimasto venticinque anni. Chissà quante volte l’ho visto salire sul treno, mentre i miei familiari ripetevano come una cantilena che lui doveva partire, era costretto a farlo, lui non voleva ma doveva. Il treno partiva senza badare ai miei patetici tentativi di fermarlo. Penso subito a questi dolorosi distacchi, quando mi si chiede perché ho cominciato a scrivere e perché scrivo soprattutto sul tema dell’emigrazione. Ho cominciato a scrivere perché ho sentito l’esigenza di denunciare l’ingiustizia della costrizione ad emigrare» (Carmine Abate, Sul vizio di scrivere e sulla materia del mio narrare in AA.VV., Gli spazi della diversità, Bulzoni, Roma, 1995, p. 665).
Il bambino, protagonista, affronta i problemi adolescenziali e, oltre alla separazione dal genitore, si trova ad assistere e costruire un sentimento identitario contaminato dalle diverse culture che si uniscono e dalle lingue che si mescolano. Nell’infanzia dello scrittore possiamo considerare almeno sei lingue che si incontrano: l’arbëresh, l’albanese, l’italiano, il dialetto calabrese, il «germanese» e il tedesco. «Le storie che ho in testa, sono storie che “sento” in diverse lingue: in primo luogo in arbëreshë, poi in germanese, in calabrese, in tedesco, e cerco di farle respirare tutte all’interno della lingua italiana» (In due Mondi, conversazione del 1° aprile 2009).
Abate raccoglie tutte le storie in lingue diverse e le fonde nella sua lingua letteraria, l’italiano. Con un linguaggio energico, una scrittura che sa essere evocativa, analitica, cantabile, senza mai una caduta, già con il primo romanzo conferma gli alti risultati e si accredita come uno degli scrittori più originali e completi dell’attuale panorama letterario italiano. 
L’esodo dei calabresi-arbëreshë verso le sponde europee e le dinamiche che esso genera sono il leitmotiv di tutta l’opera dello scrittore di Carfizzi. Abate migra da una lingua conosciuta solo oralmente, l’arbëresh, verso una lingua scritta, l’italiano, per una necessità storica e un bisogno sociale, e questo spiacevole passaggio appare allo scrittore come una scelta infedele: «Fino a sei anni sapevo parlare solo l’arbëresh e anzi ero convinto che l’italiano, la lingua che avrei imparato a scuola, fosse il napoletano delle canzoni che cantavano i teatristi di piazza, durante i loro spettacoli, e mio padre, ogni mattina che si faceva la barba. Eppure la scelta, all’inizio forzata e poi sempre più consapevole di scrivere in italiano l’ho vissuta come una sorta di tradimento nei confronti dell’arbëresh» (Microcosmo di culture e di lingue, p. 40). Ancora con le sue parole possiamo definire lo scrittore calabrese: «Mi piace definirmi un transfuga linguistico, cioè uno scrittore che scrive una lingua diversa da quella che ha imparato dalla voce della propria madre» (ibidem).

Se ci riferiamo alla definizione di Translinguismo letterario di Steven G. Kellman [2] nel suo Scrivere tra le lingue, «cioè il fenomeno di autori che scrivono in più d’una lingua e almeno in un’altra rispetto alla propria madrelingua»[3], Abate è uno scrittore in altre lingue, ma mai scrittore in lingua madre.
Nel saggio Microcosmo di culture e di lingue, lo scrittore mette in evidenza la promiscuità linguistica della comunità arberëshe, individuando tre sostrati principali: Litirë, la lingua straniera, Gjuha e Zemeres, la lingua del cuore, parlata in famiglia, e infine, Gjuha e Bukës, la lingua del pane, parlata dai maestri e dai datori di lavoro. In questo microcosmo di lingue è possibile eseguire un’analisi translinguistica, poiché essa devia da un contesto prettamente morfo-sintattico o di semplice traduzione, per lambire le sfere affettive e sentimentali di un’intera comunità.
Kamala Das, autrice translingue e una delle maggiori figure della letteratura indiana, scriveva: «Parlo tre lingue, scrivo in due, sogno in una». Le stesse parole si possono dire per Carmine Abate: tre sono le lingue, con due scrive (Litirë e Bukës) e con l’altra sogna, cioè con la lingua del cuore, quella che si impara dalla voce della propria madre: l’arbëresh-zemeres. E questo legame è abbastanza evidente nella sua esperienza letteraria, allorché, abbandonata la lingua del cuore a sei anni, impara l’italiano, e pochi anni dopo, da migrante, il tedesco.

  

Comportamenti linguistici nel romanzo Il ballo tondo

A Michele, naturalmente; Naturlich fur Michele; Ne, Mikelit
Questi vocaboli in italiano, in tedesco e in arberesh scritti nell’epigrafe del romanzo Il ballo tondo segnalano un incontro  di tre culture. Per continuare con l’indice, Abate dedica un’osmosi linguistica numerando i vari capitoli del romanzo prima in arbëresh (Një, Dy, Tre, Katër, Pesë, Gjashtë, Shtatë, Tetë, Nendë, Djetë) e dopo in italiano. Una scelta linguistica ben trovata: una comparazione con l’infanzia dello scrittore scandita dal suono della lingua arbëresh e un incontro progressivo con la lingua italiana nel tempo adolescenziale, quando i successivi capitoli del libro vengono sfogliati sui banchi di scuola.
Nel prologo del romanzo, Abate dà subito spazio alla contaminazione linguistica. Sono citati, infatti, i primi vocaboli arbëreshë ed è importante elencarli: vallja, zonja, besa, burraçë, gjitonia, i cui significati sono rispettivamente: danza, donna, parola data, uomo, e vicinato. Con l’uso iniziale di questi termini, Abate descrive il piccolo mondo arbëresh di Hora nella sua base fondante. La danza, e in particolare la vallja [4], è il rito tradizionale della comunità arbëreshë che accompagna l’unione in matrimonio della zonja e della burraçë, attraverso la besa, ossia la parola data, simbolo di una delle regole del Kanun [5], il «codice della montagna» che aveva regolato per secoli la vita sociale del popolo albanese, secondo il quale la parola data vale più di qualsiasi documento scritto. La gjitonia è il vicinato, è lo spazio dove la coppia si muove e vive, è il suo microcosmo, il luogo ristretto dove si succedono gli eventi in quasi tutta l’opera di Abate. Nella gjitonia trova posto il tempo della storia, ma anche quello della leggenda. Nella gjitonia la strada in ciottoli accompagna i pochi movimenti dei vecchi claudicanti, delle donne, dei bambini che corrono dietro un pallone, accoglie il rientro dei germanesi e li conduce nella partenza. Nella gjitonia è fragile il suono di una lahuta che avvolge armonie di parole, tristi e stanche di restare sopra un davanzale ad aspettare che si schiuda una finestra, e stridula è la voce della sera che canta mestamente il ritaglio di un dolore.
Come chiaramente si vede dagli esempi, nel registro linguistico, Abate dà voce ad entrambe le culture. Egli sente l’esigenza di fonderle, di farle convivere, consegnando all’arberëshe non uno status di lingua straniera da tradurre, ma considerandola, molto spesso, un’appendice dell’italiano che il lettore riesce a codificare attraverso il contesto narrato.
«Però risultava simpatico anche ai burra di Hora, vecchi e giovani, che forse lo consideravano innocuo, troppo educato e dunque incapace di toccare persino col pensiero le loro gra, figlie o sorelle o mogli o fidanzate che fossero» (p. 25). In questo contesto, è possibile riconoscere dietro le voci burra e gra i significati rispettivi di uomini e donne.
Per altri versi, Abate traduce l’arbëresh in italiano soprattutto quando riporta frasi più lunghe o parole e detti appartenenti alla comunità.  In seguito diamo alcuni esempi:

- Fu dunque un caso che mi trovassi anch’io nella piazzetta della sua gjitonia, il vicinato (p. 12);
- Noi abbiamo lo stesso giak, lo stesso sangue (p. 17);
- Zonja Nuse: signora sposa (p. 67);
- Gjaku ësht giaku, il sangue è sangue (p. 42);
- Më të litoti ka skuar, bijë, il peggio è passato, figlia (p. 43);
- grua me kripë, una vera donna (p. 50);
- bëri hamur me një kupil i bukur si drita/e nanì ka martuar një arvull pa fjieta, amoreggiava con un giovane bello come la luce e ora ha sposato un albero senza foglie (p. 66);
- kur zogu vete e vien, o bën o ka fulen, quando l’uccello va e viene, o costruisce il nido o ce l’ha già (p. 93);
- jeta ësht si fjeta, la vita è come una foglia (p. 177).

In questo caso, le parole e le frasi arbëresh che sono riportate in italiano nella seconda parte del periodo, sono quei termini che caratterizzano e identificano la comunità di Carfizzi. Sono parole e frasi che si riferiscono al suo aspetto socio-antropologico e ai rapporti di parentela tra gli individui che ne fanno parte, racchiudono inoltre la sfera affettiva ed emotiva.
I vocaboli arbëresh lungo le pagine de Il ballo tondo, infatti, sono basamenti lessicologici indispensabili del parlare quotidiano. Senza esagerare, potremmo considerare quella di Abate una prima vera lezione di arbëresh che ci avvicina al suo uso più familiare.
Una caratteristica linguistica di questo romanzo è il plurilinguismo. Lo scrittore usa, pur se in modo minore, anche termini tedeschi e «germanesi». È un’esigenza dello stesso autore che  si affida ad una lingua infarcita di vocaboli non italiani per schiudere la sua narrazione verso un nuovo orizzonte da scoprire.
Nel suo Sul vizio di scrivere e sulla materia del mio narrare, Abate afferma: «Scrivo in italiano perché l’italiano è la lingua della mia scolarizzazione, la lingua della mia formazione letteraria, l’unica lingua che so scrivere correttamente o quasi. Però ripensando soprattutto ai racconti de Il muro dei muri, mi sorge il dubbio che io non scriva in “puro italiano”, ma in una lingua presa dal vivo, infarcita di termini dialettali e tedeschi italianizzati, di arbëresh e di gastarbeiter-deutsch, una lingua che potrei chiamare “germanese”. Mi piace definirmi un transfuga linguistico, cioè uno scrittore che scrive in una lingua diversa da quella che ha imparato da piccolo. Infatti, la mia madre lingua è l’arbëresh. Penso che questo dato non vada sottovalutato, perché come è noto, la lingua non è solo un mezzo di comunicazione, ma un importante fattore di organizzazione della realtà. Forse questa scelta ha anche un vantaggio: un certo distacco della materia, una specie di filtro capace di eliminare le scorie tradizionali più inflazionate: la nostalgia lamentosa, la denuncia scontata. Ne Il ballo tondo ho imboccato una nuova strada: ho lasciato in arbëresh e in tedesco le parole e le frasi che mi venivano spontanee, perché in noi nidificano più culture. È in questa direzione che va la letteratura di domani. Ed è questo, a mio avviso, uno dei contributi che la letteratura dell’emigrazione può dare».
Ne Il ballo tondo,l’autore, come egli stesso sostiene, dà vita ad una lingua/distanza che ha la funzione di filtrare la realtà del convivere tra le culture: «Questa lingua/distanza mi ha fatto da filtro ed è stata allo stesso tempo la chiave per riappropriarmi dei miei luoghi, per raccontare i miei personaggi visti in un orizzonte più ampio: attraversati, più o meno consapevolmente, dal mio stesso plurilinguismo e multiculturalismo». 


I racconti di Vivere per addizione ed altri viaggi

Quasi due anni fa, Carmine Abate rese pubblico il fatto di aver iniziato a scrivere una raccolta di racconti del suo paese, Carfizzi, della Germania, dove abitò per anni, e del Trentino, dove attualmente vive. Due anni più tardi, il libro arriva nelle mani del lettore italiano, un volume ancora una volta di successo per Abate. Sotto il titolo di Vivere per addizione ed altri viaggi, questa edizione della casa editrice Mondadori rilancia il lettore verso le sue storie di emigrazione, la stanchezza, il dolore, la nostalgia verso le radici e la tradizione che ancora oggi lotta per trovare il suo posto nel mondo, con lo sguardo rivolto sempre verso il futuro. Il protagonista di questo libro, come il padre ed il nonno dello scrittore, deve partire dalla sua terra.
Carmine Abate racconta i viaggi continui dell’eroe: viaggi di andata e ritorno nel passato e nel presente. Per i 18 racconti che prendono posto in questo nuovo libro, lo scrittore arbëresh si ispira alla sua vita e volge lo sguardo anche oltre. Abate riporta ancora una volta la sua infanzia, i sapori della cucina arbëresh, la magia delle rapsodie antiche, l’allontanamento poi verso il Nord d’Italia e dopo in Germania. Ritorna a parlare di un altro tema, quello dell’emigrazione, una piaga ed ingiustizia, da lui trattato già nei primi lavori. La sua origine arbëresh è per lo scrittore una grande ricchezza. Ricorda spesso come a scuola gli insegnanti consigliavano di non parlare nella lingua arbëresh, poiché questa non sarebbe servita a nulla nel futuro.
Oggi lui si sente felice di non aver seguito quel consiglio e trova una ragione: era la paura di perdere la lingua madre, perdendola avrebbero perso entrambi. Abate capì che essere arbëresh, in realtà, era qualcosa in più. «È come possedere un occhio o un orecchio in più per capire meglio questo nostro mondo, che sempre di più si sta trasformando in multiculturale», dice lo scrittore che, nella comunità delle sue origini, apprezza particolarmente il fatto che non si è chiusa nei secoli nel suo guscio, ma ha sempre cercato di avere contatti con il mondo esterno, mostrando di essere una comunità aperta e proteggendo in questo modo la lingua e le sue tradizioni. Abate dimostra ancora una volta di essere molto legato alle radici e alla comunità della sua infanzia. Per lui lo sradicamento avviene solo in caso di necessità e, in realtà, non si sradicano i valori di una comunità, che si conservano nel tempo. È questo che fa di Carmine Abate uno scrittore che ha saputo esprimere nella sua creatività un incontro di culture.

Frosina Qyrdeti
(n. 10, ottobre 2012, anno II)

NOTE

1. Carmine Abate è nato a Carfizzi, una cittadina arbëresh, in provincia di Crotone. Cresce tra la Calabria e Amburgo, dove il padre era emigrato. Si trasferisce quindi in Germania subito dopo essersi diplomato in Lettere, insegnando nelle scuole degli emigranti, e comincia a pubblicare racconti, poesie e pubblicistica. Nel 1984, esce il suo primo libro di racconti, scritto in lingua tedesca, sull’emigrazione, la storia e la vita di una comunità calabrese ed i suoi emigranti. Nel 1991, viene pubblicato il suo primo romanzo, Il ballo tondo. Nel 1999 è poi la volta de La moto di Scanderberg, quindi Tra due mari, con il quale vince anche premi letterari. I libri di Carmine Abate hanno riscosso successo di critica di e pubblico e sono stati tradotti in molte altre lingue, tra cui anche in albanese.
2. Steven G. Kellman, docente di letteratura comparata alla Texas University, ha pubblicato, tra l’altro, The Plague: Fiction and Resistance (1993) e Redemption: The Life of Henry Roth (2005).
3. Idem, Scrivere tra le lingue, Città Aperta, Troina (En), 2007.
4. La vallja consiste in una danza popolare formata da giovani vestiti in costume tradizionale arbëresh, che tenendosi a catena per mezzo di fazzoletti e guidati all'estremità da due figure particolari, chiamate flamurtarë (portabandiera), si snodano per le vie del paese eseguendo canti epici, rapsodie tradizionali, canti augurali o di sdegno per lo più improvvisati. Non si tratta di una variante della tarantella calabrese, ma di una ridda dal colorito originale albanese, che richiama i ritmi sostenuti e fieri che ancora oggi si trovano nelle danze dei montanari.  
5. Kanun è un insieme di norme tramandate raccolte in un codice di leggi scritte che erano l'unica fonte del diritto per regolamentare una società che non aveva altre leggi. Il riconoscimento della patria potestatis, la tutela della proprietà privata, la successione e la promessa come patto da rispettare al costo di perdere l'onore o la capacità giuridica, sono concetti che derivano dal diritto romano. Il Kanun non concepisce la schiavitù come stato sociale dell'individuo, che deve reagire a qualsiasi tentativo di sottomissione o di attentato alla propria vita. Il codice fu adottato come propria legge dagli Arbëreshë, che con tali leggi trovavano nel contempo legittimazione e consenso alla ribellione contro gli occupanti l'Albania.