Origini dell’unità nazionale. Frammenti di storia del Risorgimento italiano

Le celebrazioni in corso In Italia dedicate ai 150 anni dell’Unità nazionale si stanno caratterizzando per due aspetti essenziali che ripropongono una irrisolta contraddizione. Da una parte si registra un coinvolgimento forte e diffuso degli italiani nelle numerose manifestazioni organizzate per ricordare momenti, idealità e protagonisti del lungo processo di unificazione; una partecipazione anche emozionale che sembra attestare un ritrovato sentimento di identità nazionale. Dall’altra non mancano atteggiamenti polemici e posizioni critiche che attestano il persistere degli elementi di debolezza e di squilibrio che hanno segnato la nascita dello stato unitario e che, di conseguenza, non hanno dato fondamenta indiscusse al senso di appartenenza ad una patria comune. Eppure questi due aspetti contraddittori mi pare abbiano trovato un punto di equilibrio nelle parole pronunciate il 17 marzo scorso dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione del suo discorso commemorativo in Parlamento.  “Non c’è discussione, pur lecita e feconda, sulle ombre, sulle contraddizioni e tensioni di quel movimento che possa oscurare il dato fondamentale dello storico balzo in avanti che la nascita del nostro Stato nazionale rappresentò per l’insieme degli italiani, per le popolazioni di ogni parte, Nord e Sud, che in esso si unirono. Entrammo, così, insieme, nella modernità, rimuovendo le barriere che ci precludevano quell’ingresso”. Il valore  collettivo di quel passaggio epocale può, dunque, essere considerato il punto di sintesi di un travagliato processo che è conosciuto come Risorgimento italiano.


L'epopea risorgimentale

L’epopea risorgimentale, in senso stretto, si sviluppa fra due poli temporali, dal Congresso di Vienna del 1815 alla proclamazione del Regno d’Italia a Torino il 17 marzo 1861. La tensione verso il riscatto nazionale si manifesta proprio come rifiuto di quel disegno restaurativo tracciato dalle grandi monarchie legittimiste che ambiscono a demolire l’intera costruzione politico-istituzionale realizzata da Napoleone. L’illusione dei sovrani, riuniti a Vienna, è quella di tornare all’antico ordine aristocratico fondato sul potere assoluto del re e sul privilegio del ceto. In questo senso la Restaurazione esprime il totale ribaltamento dei principi di libertà ed eguaglianza affermati dalla Rivoluzione Francese ed immediatamente innesca l’azione di forze politiche contrapposte che non accettano l’idea di far tornare indietro le lancette della storia. Limitandoci alla situazione italiana, si possono sinteticamente individuare nello schieramento anti-monarchico due componenti. La prima formata dagli eredi della stagione rivoluzionaria e napoleonica che sfuggono alla repressione dei governi restaurati e operano, spesso clandestinamente, per  riannodare il filo spezzato del processo di democratizzazione. La seconda componente vede in prima linea dei giovani patrioti che privilegiano nella loro azione la questione nazionale affermando la priorità assoluta della conquista dell’indipendenza e dell’unità del paese. Si potrebbe dire che questi giovani, intrisi di cultura romantica, vogliono dare un’anima politica a quella “espressione geografica” derisa da Metternich. Dalla determinazione dei vecchi e dei nuovi rivoluzionari  scaturiscono le prime cospirazioni del 1820-’21 e prende avvio la parabola risorgimentale che sfocerà, quarant’anni dopo, nella proclamazione del Regno d’Italia, quando l’azione insurrezionale del partito democratico, incarnata da Garibaldi, accetterà di farsi imbrigliare nella logica pragmatico-istituzionale del partito moderato di Cavour. Un esito non definitivo della vicenda nazionale che crea le premesse per successive tappe del processo risorgimentale come la liberazione del Veneto nel 1866, la Breccia di Porta Pia nel 1870 con l’occupazione di Roma, divenuta capitale l’anno dopo, e ancora l’annessione del Trentino e della Venezia-Giulia a seguito della prima guerra mondiale (1915-’18). E c’è chi ha parlato di “secondo Risorgimento” con riferimento alla lotta partigiana, durante la Resistenza, che viene interpretata come movimento popolare per la riconquista di una identità nazionale e democratica, stravolta e umiliata dal Fascismo. Dunque un’analisi storiografica più complessiva tende a concepire il Risorgimento come un lungo processo che dilata il suo spazio temporale non soltanto rispetto agli esiti finali ma anche alle origini.


Il simbolo del tricolore


Le radici risorgimentali si possono collocare nel burrascoso epilogo del ‘700 quando, sulla scia della prima invasione francese dell’Italia, nascono le “repubbliche giacobine”. Nell’aprile 1796 il giovane generale Bonaparte, forzando le scelte del Direttorio, dà avvio alla campagna d’Italia per poi attaccare l’Austria. Sorretti dall’appoggio delle armi francesi, ristretti gruppi di giacobini italiani entrano in azione proclamando municipalità rivoluzionarie che instaurano governi repubblicani sul modello della Francia. Nascono così la Repubblica Cispadana e la Repubblica Transpadana,poi unificate nel 1797 nella Repubblica Cisalpina. La bandiera repubblicana sventolerà anche a Genova, Venezia, Roma e Napoli; saranno tutte esperienze di breve durata e di diverso valore politico che la storiografia riconduce complessivamente alla matrice giacobina non tanto per uno specifico riferimento ai programmi e alle realizzazioni dei gruppi dirigenti repubblicani, quanto per una comune idealità legata ai valori della rivoluzione del 1789  e, in alcuni casi, alle teorizzazioni più radicali del partito giacobino. Fra questi ideali condivisi c’è anche una prima, embrionale concezione di patria comune, non certo intesa in senso compiutamente nazionale ma piuttosto avvertita come sentimento di appartenenza ad una comunità unificata dai principi di libertà, indipendenza e giustizia sociale. In tale prospettiva si può parlare del “triennio giacobino” in Italia come l’incubatrice della stagione risorgimentale che ne eredita valori, uomini e apparati simbolici. Fra questi ultimi c’è il simbolo nazionale per eccellenza, la bandiera tricolore sulle cui origini esistono opinioni diverse. Una prima ricostruzione la fa risalire all’autunno 1794 a Bologna durante il tentativo insurrezionale, d’ispirazione giacobina, di due studenti universitari, Luigi Zamboni e Giovanni Battista De Rolandis. In quell’occasione viene usata una coccarda bianca e rossa, come i colori della municipalità bolognese, a cui si aggiunge il verde a simboleggiare la speranza del riscatto italiano. Nel 1796 coccarde tricolori fregiano le uniformi della Guardia Nazionale milanese e vengono poi espressamente autorizzate da Napoleone Bonaparte come distintivo della Legione Lombarda, tanto che una lettera del Direttorio fissa i colori nazionali  nel verde, bianco e rosso. Ma la nascita vera e propria della nostra bandiera è datata 7 gennaio 1797 quando la Repubblica Cispadana dichiara di adottarla come simbolo della patria. Il vessillo tricolore viene confermato anche dalla Repubblica Cisalpina  e dal 1805, durante l’impero napoleonico, diventa l’emblema del Regno Italico con la definitiva sistemazione dei colori a strisce verticali. Scomparsa pubblicamente negli anni della Restaurazione, la nostra bandiera è tenuta in vita clandestinamente dai primi cospiratori contaminandosi spesso con la simbologia della Carboneria. Si deve a Mazzini e all’azione propagandistica della Giovine Italia  la rinascita del tricolore che poi assume piena visibilità durante i moti del 1848, quando viene consacrato come segno dell’identità nazionale nel fuoco della prima guerra d’indipendenza. Non a caso il Regno di Sardegna decide di farlo proprio, sostituendo l’insegna azzurra dei Savoia, ma inserendo al centro della bandiera il simbolo della monarchia sabauda per manifestare, anche in questo modo, il legame fra la dinastia piemontese e la  causa nazionale unitaria che trionferà nel 1861.


L’eredità di Filippo Buonarroti


A proposito di personaggi che incarnano la continuità fra “triennio rivoluzionario” e Risorgimento, va ricordata la figura di Filippo Buonarroti che emerge con grande rilevanza proprio all’interno dell’azione svolta dai gruppi giacobini. Nato a Pisa nel 1761, da una famiglia già illustre per aver dato i natali a Michelangelo, fin dai suoi esordi giornalistici Buonarroti mostra particolare interesse per l’opera di Rousseau e degli utopisti francesi Mably e Morelly. Allo scoppio della Rivoluzione Francese parte volontario per la Corsica e partecipa attivamente alle vicende rivoluzionarie dell’isola fino al 1793 collaborando, fra l’altro, al Giornale Patriottico della Corsica che è il primo foglio redatto in lingua italiana a diffondere principi rivoluzionari. Naturalizzato francese, nel maggio 1793 Buonarroti giunge a Parigi dove entra subito in contatto con Robespierre. La prima prova della sua piena adesione alle posizioni robespierriste è rappresentata dall’azione antifeudale svolta come commissario nazionale nei territori di Oneglia e Loano, appena strappati ai piemontesi. In questo periodo l’azione buonarrotiana si sviluppa lungo due direttrici che tendono ad intrecciarsi: la prima è quella di organizzare un laboratorio giacobino per sperimentare in concreto le tesi dell’ala più avanzata dello schieramento politico francese; la seconda è quella di dare risposte alle forze rivoluzionarie italiane che, seppur modeste, cominciano a porsi la questione nazionale. Il libero territorio di Oneglia diventa punto di riferimento per numerosi patrioti, soprattutto napoletani e piemontesi,costretti all’esilio dopo aver partecipato ai primi sfortunati tentativi di cospirazione. Il commissario nazionale affida loro incarichi di responsabilità e soprattutto con loro comincia a delineare la prospettiva della liberazione e unificazione del nostro paese. In questa prospettiva Buonarroti accoglie con entusiasmo la proposta di realizzare un giornale periodico “adatto ad istruire il popolo”, così si legge in una sorta di progetto editoriale, sui mali della tirannia e i benefici della rivoluzione, un foglio che, si legge ancora, “dovrebbe anche avere di mira la rivoluzione dell’Italia”. Ma proprio la radicalità dell’azione buonarrotiana e la  stretta sintonia ideale con i giacobini italiani innescano tensioni, rispetto alle direttive provenienti da Parigi, che sfoceranno in aperta ostilità dopo la caduta di Robespierre. Arrestato e condotto sotto scorta armata nella capitale francese,nell’aprile 1795 Buonarroti viene incarcerato ed inizia per lui una fase di riflessione politica che lo porta a confermare ed approfondire i suoi convincimenti tanto da assumere un ruolo di grande rilievo nella Cospirazione degli Eguali promossa da Babeuf (1796).Mentre è impegnato in questa trama cospirativa, Buonarroti riannoda i legami con i patrioti italiani esuli a Parigi e a Nizza per mettere a punto un progetto di rivoluzione unitaria nel nostro paese che, ancora una volta, si inserisca in una più vasta dinamica europea la cui iniziativa sia in mano alla Francia. Queste direttive vengono definite in uno scambio di lettere con alcuni compatrioti, anche perché il momento appare favorevole visto che alla testa dell’Armata Italiana vengono chiamati due uomini ben conosciuti, ovvero Napoleone Bonaparte, come generale in capo, e Cristoforo  Saliceti, suo compagno di tante battaglie in Corsica, come commissario civile del Direttorio. Di lì a poco lo stesso Buonarroti riceve l’incarico di recarsi in Italia per coordinare l’azione dei rivoluzionari piemontesi in appoggio alle operazioni militari francesi. Ma la partenza viene rinviata più volte nella speranza di veder coincidere la sua missione italiana con il buon esito della Cospirazione. Invece il fallimento di quest’ultima travolge ogni altro disegno perché Buonarroti viene nuovamente incarcerato ed è poi costretto a fuggire in Svizzera e in Belgio. In esilio il Pisano riprende l’attività cospirativa dando vita a nuove sette segrete, fra queste i Sublimi Maestri Perfetti, mentre sul piano teorico scrive nel 1828 quella che è considerata la sua opera fondamentale, la Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf. Un testo che Norberto Bobbio ha definito il prototipo dell’ideologia egualitaria e che, per la sua radicalità sulla questione della proprietà privata e del lavoro, è stato da alcuni studiosi considerato come una prima radice del socialismo. Contemporaneamente alla pubblicazione della Cospirazione, Buonarroti riprende l’iniziativa settaria mentre segue con attenzione i segnali che vengono dai principali centri europei del fuoriuscitismo italiano, in realtà assai diviso e carente di un programma comune di lotta. Cosciente di tale debolezza, Buonarroti nel gennaio 1831 risponde all’appello per l’unificazione dei diversi gruppi ed entra nel Direttorio esecutivo che è alla testa di una Giunta liberatrice italiana. Ne esce poco dopo per contrasti interni ma ribadisce la sua opzione unitaria nel breve scritto Riflessi del governo federativo applicato all’Italia, in cui critica radicalmente l’ipotesi di una soluzione nazionale in senso federale. Intanto non si ferma il suo impegno cospirativo nell’ambito delle sette carbonare, nascono così la Carboneria Riformata, la Carboneria Democratica Universale mentre nella nostra penisola operano i Veri  Italiani. Su questa strada diventa inevitabile l’incontro-scontro con Giuseppe Mazzini, fondatore proprio nel 1831 della Giovine Italia e destinato a diventare il leader del movimento d’indipendenza nazionale.


La “missione” mazziniana


Si potrebbe dire che in quegli anni Mazzini è l’astro nascente dello schieramento rivoluzionario italiano. Nelle Note autobiografiche rivela che la prima idea di costituire un nuovo organismo politico in Italia comincia ad affacciarsi alla sua mente sul finire del 1830. Nato a Genova nel 1805 in una famiglia colta e borghese, fin dal periodo universitario Giuseppe Mazzini mostra maggior interesse per la letteratura romantica che per gli studi di medicina. Il suo animo si accende leggendo le pagine di Alfieri e Foscolo, autori che rappresentano il retroterra culturale su cui s’innesta la passione politica, ispirata alle idee di patria e di libertà. Poco più che ventenne scrive su alcuni giornali genovesi e nel 1827 si affilia alla Carboneria. Al momento del suo primo arresto ha già maturato tre anni di militanza nel mondo settario del quale comincia a scorgere i limiti. Nel carcere di Savona approfondisce i motivi di insoddisfazione verso la segretezza e la genericità del programma carbonaro. Matura così l’esigenza di creare una nuova organizzazione, più aderente alle aspirazioni di rinnovamento nazionale che, secondo il Genovese, agitavano soprattutto quella giovane generazione ormai distante dall’esperienza rivoluzionaria francese e permeata invece della cultura romantica. Dal marzo 1831 Mazzini si stabilisce esule a Marsiglia e s’inserisce in maniera efficace negli ambienti della nostra emigrazione politica. In questa fase, anche grazie all’influenza di alcuni rivoluzionari di lungo corso come Domenico Nicolai, cospiratore a Napoli nel 1820, e Carlo Bianco di Saint-Jorioz, seguace di Buonarroti e teorico della guerra per bande,  comincia ad elaborare  alcuni capisaldi del suo pensiero politico. Lo dimostra l’opuscolo intitolato Appello agli Italiani in cui anticipa taluni motivi programmatici fondanti della Giovine Italia e che si conclude con una esortazione rivolta alla nuova leva di patrioti e democratici. Di lì a poco, tra maggio e giugno 1831, nasce la Giovine Italia accompagnata anche da una rivista dallo stesso titolo. Nel Manifesto dell’organizzazione, Mazzini espone i punti del suo programma di riscatto nazionale e insiste sulla funzione del giornale inteso come strumento di diffusione delle nuove idee. L’obiettivo di quella pubblicazione è aggregare i militanti intorno ad un programma preciso, diffuso pubblicamente, che si sintetizza in tre parole d’ordine: indipendenza,unità e libertà. Un programma da comunicare alla luce del sole per conquistare un consenso di massa, secondo un metodo che si contrappone alla prassi iniziatica ancora cara alla Carboneria. Sarebbe troppo lungo entrare nel merito delle idealità e dei contenuti programmatici dell’organizzazione, ma si possono evidenziare alcuni nodi teorici che, peraltro, segneranno l’evoluzione della vicenda risorgimentale a cominciare dall’incontro-scontro fra Mazzini e Buonarroti. Fin da principio si può avvertire una certa distanza ideologica, sia sulla questione sociale che sulla prassi rivoluzionaria, ma sta di fatto che negli anni 1831-1832 i due cospiratori si scambiano attestati di stima che sfociano in un patto di fratellanza fra le loro organizzazioni. Le basi dell’accordo, però, appaiono subito poco praticabili: i Veri Italiani si sarebbero dovuti dedicare alla propaganda tra gli emigrati e alla stesura di uno statuto italiano, mentre alla Giovine Italia sarebbe toccata l’azione politica nel nostro paese. I contrasti emergono con tutta evidenza quando la rivista mazziniana pubblica un articolo dal titolo Del governo d’un popolo in rivolta per conseguire la libertà, firmato Camillo, pseudonimo di Buonarroti. Il fulcro del discorso buonarrotiano sta nell’affermazione della necessità di una dittatura individuale per schiacciare i nemici interni ed  esterni, un’autorità straordinaria e temporanea capace di affrontare i mille pericoli della fase di transizione rivoluzionaria. Mazzini prende le distanze chiosando l’articolo con note assai polemiche, in particolare contesta l’analisi sociale sui nemici interni e di conseguenza respinge l’idea della dittatura individuale, sostenendo che fin dal momento della rivolta si debba prefigurare “il germe della potestà futura” in senso democratico. C’è poi un ulteriore elemento di discordia che riguarda l’autonomia dell’iniziativa italiana non più dipendente dal ruolo-guida della Francia, come vorrebbe Buonarroti. Al contrario nell’ideale mazziniano i protagonisti della nuova epoca, basata sul principio dell’associazione e sul nesso fra Dio e l’umanità, saranno proprio quei popoli, come l’italiano, il polacco, il tedesco che devono ancora affermare la propria nazionalità. Così ci si avvia alla rottura clamorosa fra le due organizzazioni divenute ormai concorrenti e impegnate in uno scambio di reciproche accuse. L’occasione si presenta nel febbraio 1834 quando Mazzini organizza la seconda spedizione in Savoia. Attraverso l’Alta Vendita della Carboneria Democratica Universale Buonarroti condanna l’impresa bollandola di avventurismo e contribuendo così al suo fallimento. La reazione mazziniana è una durissima accusa alla vecchia struttura carbonara di essere ormai soltanto un ostacolo per qualunque iniziativa. La violenta polemica continuerà a lungo e le critiche buonarrotiane finiranno per investire anche la nuova creatura scaturita dalla febbrile attività mazziniana, la Giovine Europa. Non a caso nell’atto di fratellanza, sottoscritto a Berna da patrioti italiani, polacchi e tedeschi , si riafferma la centralità assoluta della tematica nazionale recidendo ogni residuo legame con le strategie rivoluzionarie precedenti. L’insanabile contrapposizione si protrarrà nel tempo  segnando gli ultimi anni di vita di Buonarroti, scomparso nel 1837 , e peserà per un certo periodo sull’azione di Mazzini.


Il ruolo di Garibaldi


Nel burrascoso passaggio di testimone dal vecchio rivoluzionario giacobino al giovane apostolo della nazionalità, si può inserire l’entrata sulla scena della  storia di Giuseppe Garibaldi, protagonista-chiave della mitografia risorgimentale. Proprio nel 1833 viene affiliato alla Giovine Italia ed ha un ruolo non marginale nel tentativo insurrezionale di Genova nel 1834. Il futuro Eroe dei Due Mondi nasce a Nizza nel 1807 in una famiglia numerosa che si guadagna da vivere lavorando sul mare. Quella di Garibaldi non è una formazione culturale sistematica, si realizza invece attraverso scelte molto personali e diversificate come lo studio della storia greca e romana, la lettura di scrittori romantici, l’ammirazione per gli autori illuministi: Rousseau, Voltaire, Beccaria, Filangieri. Ma la sua vera passione è il mare e nel 1821 intraprende la carriera di marinaio che lo porterà lontano da casa. In questi anni giovanili il Nizzardo appare estraneo ai fermenti politici che già si avvertono negli stati italiani e sono degli incontri occasionali, fatti durante alcuni viaggi, a cambiare la sua vita.  Navigando verso la Turchia, ha occasione di ascoltare i discorsi di un gruppo di sansimonisti, fautori di una utopia socialistica che coniugava lo sviluppo industriale con la giustizia sociale. Più tardi, nelle sue Memorie, Garibaldi scriverà di aver così scoperto “orizzonti ancora non intravisti” e di aver avvertito la vocazione di combattente per la libertà dei popoli oppressi. In quello stesso periodo va diffondendosi la propaganda mazziniana che non trascura l’ambiente dei marinai, considerandoli assai utili per la diffusione della stampa clandestina. Ed è proprio questa la modalità con cui Garibaldi entra in contatto con la Giovine Italia e viene coinvolto nell’attività cospirativa. Lui stesso scrive:”Mi tuffai interamente in quel elemento, che sentivo essere mio da tanto tempo; ed in Genova, il 5 febbraio 1834, io sortivo da porta della Lanterna alle 7 pomeridiane vestito da contadino e proscritto”. Le ultime parole alludono al fallimento del tentativo di sollevare Genova di cui, come già ricordato, il futuro Generale è stato uno dei principali organizzatori. Infatti, nel dicembre 1833, forse su indicazioni dello stesso Mazzini, si arruola nella marina piemontese ed insieme al conterraneo Edoardo Mutru, che poi sarà al suo fianco in Sudamerica, avvia una intensa attività di proselitismo tra i marinai e i facchini del porto, forse anche nei confronti di alcuni sottufficiali dell’esercito. Ma l’attività cospirativa non sfugge alle autorità sabaude che ritardano il loro intervento repressivo per individuare meglio le reali dimensioni del complotto. L’altro teatro insurrezionale è situato in Savoia dove il piano di mobilitazione è destinato al fallimento anche per l’ostilità dei gruppi carbonari vicini a Buonarroti. Nonostante questo fiasco, Mazzini è convinto che a Genova si possa ancora agire con successo e affida a Garibaldi l’incarico di impadronirsi della nave su cui è imbarcato per metterla a disposizione dei repubblicani insorti. Ma un improvviso trasferimento, forse non casuale, del Nizzardo su un’altra fregata rende impraticabile questo progetto e Garibaldi, in una situazione di totale sbandamento,viene a sapere che comunque in città sta per scoppiare la rivolta. Allora scende a terra con un pretesto e cerca inutilmente informazioni  più precise e contatti con altri cospiratori  finchè, il mattino dopo, incontra un amico che gli riferisce di numerosi arresti avvenuti durante la notte e gli consiglia di fuggire. In effetti la stanza, dove aveva riposato la sera precedente, è stata perquisita e il compagno Mutru è stato arrestato. Praticamente isolato, riesce a lasciare Genova  fortunosamente e, dopo un faticoso viaggio, raggiunge Nizza per mettersi, poi, definitivamente in salvo a Marsiglia mentre il tribunale di Carlo Alberto lo condanna a morte in contumacia. Molti anni dopo lo stesso Garibaldi ricorderà queste vicende non senza una punta di polemica anti-mazziniana: ”ricordo invece di migliaia d’uomini armati sui punti importanti di Genova,d’aver veduto trentaquattro giovanotti in tutto, di cui facevo parte, non suonaron le campane e la polizia informata d’ogni cosa sin dalle prime ore di sera aveva cominciato ad arrestar gente”. E poi aggiunge:” In quella del ’34 si possono fotografare tutte le imprese insurrezionali del Mazzini”, come a voler sottolineare che la responsabilità del fallimento si deve far risalire alla scarsa capacità di direzione del Genovese, senza per questo chiamare in causa i principi ispiratori dell’iniziativa insurrezionale. Sulla base di queste riflessioni Garibaldi affronterà le battaglie in terra Sudamericana, diventando il simbolo vivente della lotta per la libertà e l’indipendenza dei popoli oppressi, mentre Mazzini cercherà di far compiere allo schieramento democratico un salto di qualità rilanciando l’obiettivo del riscatto nazionale su scala europea. Per ritrovarli insieme bisogna attendere la drammatica difesa della Repubblica Romana nel 1849, estremo bagliore democratico di quello straordinario incendio rivoluzionario scoppiato in Italia e in mezza Europa. Mazzini guida il triumvirato che governa Roma e conta sul carisma e sulla capacità tattica di Garibaldi per difendere la città, assediata dai francesi e già completamente isolata. Nonostante questo rapporto fiduciario, però, emergono contrasti sulle valutazioni politico-militari. Il Genovese, infatti, cosciente della debolezza  dei repubblicani, spera di poter sfruttare un’evoluzione della politica interna francese, favorevole alle forze democratiche. Per questo motivo frena il Nizzardo che, dopo una sorprendente vittoria sul Gianicolo, vorrebbe contrattaccare e respingere i transalpini verso la costa laziale. Un’ulteriore complicazione è, poi, rappresentata dal dissidio fra Garibaldi e Pisacane, un altro padre nobile del Risorgimento italiano. Formatosi nella scuola militare della Nunziatella e profondo conoscitore di strategia bellica, il futuro martire di Sapri disapprova la tattica guerrigliera dei volontari garibaldini. Per di più giudica politicamente miope una difesa della Repubblica tutta interna alle mura della città e perciò incapace di saldarsi con le reali esigenze delle masse per dar vita a quella “guerra di popolo”, che è il fulcro del pensiero politico-militare pisacaniano. Così a Roma si spegne una delle più significative esperienze repubblicane della stagione quarantottesca, sia per la sua oggettiva debolezza che per i contrasti interni alla leadership democratica.


La politica dei moderati


Per completare il panorama delle principali opzioni politiche che segnano l’avvio del processo risorgimentale, bisogna analizzare le posizioni espresse da quello che sinteticamente possiamo definire il partito moderato. In realtà si tratta di uno schieramento assai composito e variegato, formato da personalità significative che esprimono approcci diversificati rispetto alla questione nazionale. Basti pensare a Gian Domenico Romagnosi, apparentemente così lontano dalle tensioni ideali di cui abbiamo parlato, che però riflette sulle peculiarità della storia italiana ed elabora il concetto di incivilimento, intesocome processo storico e culturale capace di armonizzare lo sviluppo economico, etico e politico della società per la realizzazione del bene comune. Non a caso alla scuola romagnosiana si forma Carlo Cattaneo, teorico del progresso sociale e sostenitore del federalismo come fondamento dell’identità nazionale. Vale la pena, poi, di citare la componente cattolica dello schieramento moderato il cui più noto esponente è Vincenzo Gioberti che nelle pagine Del primato morale e civile degli italiani propugna la soluzione neoguelfa per il riscatto nazionale, ovvero una confederazione di stati italiani guidata dal Papa. Sarà il fuoco delle rivoluzioni del 1848 ad incenerire questo progetto politico spingendo Gioberti ad una sorta di autocritica per approdare all’idea di un percorso di emancipazione nazionale tracciato dalla monarchia sabauda. Si spiega così l’apprezzamento giobertiano  per l’opera di Cesare Balbo, voce autorevole del moderatismo piemontese che mette l’accento soprattutto sul valore dell’indipendenza da realizzare pragmaticamente, sotto la guida dei Savoia, sfruttando i nuovi spazi che avrebbero potuto aprirsi nell’evoluzione degli equilibri internazionali. Nell’ampio ventaglio delle posizioni moderate il punto di riferimento privilegiato è rappresentato da Camillo Benso conte di Cavour, il vero regista dell’unità d’Italia. Nato a Torino nel 1810 da una famiglia agiata dell’aristocrazia di campagna, il giovane Cavour viene avviato alla carriera militare che s’interrompe bruscamente, dopo la rivoluzione del luglio 1830, perchè i vertici dell’esercito giudicano poco ortodosse alcune sue opinioni. Così comincia ad occuparsi di agricoltura e più in generale di tematiche economico-sociali che non sono prive di connessioni importanti con la prospettiva della costruzione di uno stato nazionale. In questo senso un testo emblematico è quello sulle strade ferrate in Italia ( Des chemins de fer en Italie )  che, in prima battuta, analizza le potenzialità economiche e produttive legate allo sviluppo della rete ferroviaria italiana. Lungo i binari, secondo Cavour, non corrono più velocemente soltanto le merci e i profitti degli industriali, si muovono anche le persone con le loro idee e in definitiva le diverse parti del paese si possono avvicinare. Di conseguenza agli effetti economici faranno seguito quelli morali, un discorso di chiara matrice liberale e anti-utopistica che salda la libertà del commercio con la libertà politica. I nemici sono individuati nelle forze reazionarie dell’Austria e della Chiesa, che vogliono tenere l’Italia in uno stato semifeudale, ma non meno dura è la critica verso i radicali e gli estremisti, responsabili di aver promosso i “funesti avvenimenti”  del 1821 e del 1831, col solo risultato di aver rafforzato l’ostilità dei governi verso qualsiasi idea di progresso e di emancipazione nazionale. Nella prospettiva cavouriana, dunque, sbaglia Mazzini nel puntare su una soluzione democratico-insurrezionale mentre l’unica via percorribile sarebbe l’azione combinata dei governi nazionali sostenuti da tutte le componenti politiche. Insomma una prospettiva di riscatto nazionale basata su una sorta di patto fra i sovrani, con le loro aspirazioni espansionistiche, e la borghesia italiana, forza sociale trainante che aspira alla legittimazione politica. Nelle pagine dedicate alle strade ferrate, che sono del 1845, si può cogliere l’anticipazione delle motivazioni di fondo che sorreggeranno l’azione di Cavour dopo l’entrata nell’agone politico. Eletto per la prima volta nel Parlamento piemontese nel ’48, sarà più volte ministro e poi nel 1852 diventerà Presidente del consiglio grazie al famoso “connubbio”, cioè un accordo fra centro-destra e sinistra moderata. Giunto alla guida del governo sabaudo, Cavour si trova nelle condizioni di porre concretamente la questione italiana in un contesto internazionale alla fine della guerra di Crimea, durante il congresso di pace di Parigi. Così si creano le premesse per l’intesa con la Francia di Napoleone III, un’alleanza che sfocerà nella seconda guerra d’indipendenza (1859) ma si concluderà bruscamente con un esito in parte deludente. Il Regno di Sardegna, comunque, si annetterà la  Toscana, l’Emilia e i ducati di Modena e Parma ma dovrà cedere Nizza e Savoia alla Francia. Sulla scia della delusione, l’iniziativa del movimento unitario torna nella mani delle forze democratiche e insurrezionali che attaccano Cavour per quello che definiscono il “ vergognoso ripiegamento” sul sostegno francese. Così nel maggio del 1860 l’impresa garibaldina dei Mille nel meridione d’Italia apre un nuovo sbocco alle aspirazioni nazionali che sembrano orientarsi verso una soluzione di tipo mazziniano. I successi militari delle Camice rosse e il trascinante entusiasmo che Garibaldi riesce a suscitare, fanno temere a Cavour che il movimento unitario possa perdere il carattere nazionale e monarchico che aveva sempre teorizzato. Per  ingabbiare la spinta “rivoluzionaria”, decide di prendere a sua volta l’iniziativa invadendo le regioni pontificie dell’Umbria e delle Marche, sbarrando di fatto la strada  verso Roma. Per evitare uno scontro, al Generale nizzardo non resta che consegnare nelle mani del sovrano sabaudo le regioni liberate del sud Italia. Nel marzo 1861 si compie il disegno cavouriano con la proclamazione del Regno d’Italia a cui manca il tassello di Roma capitale. Questo epilogo dell’epopea risorgimentale contiene in sé tutte le contraddizioni e le potenzialità che emergeranno nel successivo processo di consolidamento dello stato unitario. Quelle ombre e quelle tensioni, evocate dal recente intervento del Presidente, Giorgio Napolitano, che hanno segnato il difficile cammino del nostro paese ma non gli hanno impedito di diventare una moderna democrazia industriale, protagonista a pieno titolo dei passaggi decisivi della storia contemporanea.


Fabrizio Masciangioli
(n. 1, dicembre 2011, anno I)