«Cioran, il nulla e l'assurdo». Tesi universitaria di Umberto Cardinale

Il lirismo e la noia: Leopardi e Cioran

L’ammirazione di Cioran è esercitata anche nei confronti del massimo pensatore-poeta italiano: Leopardi. Nell’introduzione a Il pensiero di Leopardi, di Mario Andrea Rigoni, l’autore del Sommario scrive: «Invidiamo coloro che hanno trovato la liberazione e la pace, ma restiamo con chi non ha incontrato né l’una né l’altra […] Rifiutare l’idea di soluzione, affondare sempre più nell’impasse capitale che annulla tutte le domande e tutte le risposte – e che si chiama noia. Nessuno ne ha conosciuto i tormenti come Leopardi […] La noia, l’ho provata sempre; la mia prima esperienza cosciente che ne ho avuto risale a un pomeriggio della mia infanzia, quando ho sentito nel modo più intenso una presenza insieme interna ed esterna: era quella del tempo; era in me e al di fuori di me, in entrambi i casi sotto forma di una lacerazione ostile, di un’esclusione folgorante dal paradiso e, soprattutto, di un’impressione di vacuità letteralmente inesauribile (quest’impressione paradossale è la definizione stessa della noia) che dovevo in seguito sperimentare tanto di frequente» [1].
Cioran qui si riferisce agli autori ai quali non ha mai smesso di pensare, sempre presenti nei momenti essenziali: «A torto o a ragione immagino che Leopardi ha dovuto affrontare lo stesso genere di sensazioni e di prove. E proprio a causa di questa illusione – o certezza – sono inadatto a parlare come si dovrebbe di qualcuno che ho tanti motivi di ammirare quanti di amare. Un’inibizione per eccesso di complicità… Parecchie volte sono stato sollecitato a scrivere su Pascal e su Baudelaire. Adesso mi rendo conto che, se non l’ho fatto, era per le stesse ragioni. Sono troppo legato ai tormenti di questi tre per poter esprimere su di loro il minimo giudizio obiettivo» [2].

L’attribuzione di un sommo valore conoscitivo alla facoltà poetica, e più precisamente lirica, emergono da un frammento dello Zibaldone leopardiano, datato 5-6 ottobre 1821, frammento che sembra disegnare i lineamenti lirici del giovane Cioran: «(…) Quante grandissime verità si presentano sotto l’aspetto delle illusioni, e in forza di grandi illusioni; e l’uomo non le riceve se non in grazia di queste, e come riceverebbe una grande illusione! Quante grandi illusioni concepite in un momento o di entusiasmo, o di disperazione o insomma di esaltamento, sono in effetto le più reali e sublimi verità, o precursore di queste, e rivelano all’uomo come per un lampo improvviso, i misteri più nascosti, gli abissi più cupi della natura, i rapporti più lontani o segreti, le cagioni più inaspettate e remote, le astrazioni le più sublimi; dietro alle quali cose il filosofo esatto, paziente, geometrico, si affatica indarno tutta la vita a forza di analisi e di sintesi. Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilmente corporale) e quasi di ubriachezza? […]» [3]
Il pensiero organico di Cioran trova nella riflessione patica di Leopardi il suo fondamento: l’immaginazione e la sensibilità rappresentano l’organo – un’appendice corporale – atto a conoscere il fine poetico – perché assurdo, insensato – della natura. Ancora, in un frammento del 23 ottobre 1821: «Un uomo di forte e viva immaginazione, avvezzo a pensare ed approfondire, in un punto di straordinario e passeggero vigore corporale, di entusiasmo, di disperazione, di vivissimo dolore o passione qualunque, di pianto [4] (…) e furore, ecc. scopre delle verità che molti secoli non bastano alla pura e fredda e geometrica ragione per scoprire; e che annunziate da lui non sono ascoltate, ma considerate come sogni, perché lo spirito umano manca tuttavia delle condizioni necessarie per sentirle, e per comprenderle come verità (…). Ma l’uomo in quello stato vede tali rapporti, passa da una proposizione all’altra così rapidamente, ne comprende così vivamente e facilmente il legame, accumula in un momento tanti sillogismi, e così ben legati e ordinati, e così chiaramente concepiti, che fa d’un salto la strada si più secoli […] » [5]

La vertiginosa lucidità di chi concepisce i sillogismi dell’amarezza culmina nella constatazione che l’infinito anelato dal desiderio non esiste, «coincide con il nulla» – scrive Rigoni – «perché è incompatibile con la stessa pensabilità filosofica del concetto di individuo» [6]. E Leopardi infatti scrive: «Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a essere lo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo che l’infinito non ammetta individualità e questi due termini siano contraddittori; quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti» [7].
La ragione intesa come lucidità totale della coscienza – che scava nella profondità delle cose rivelandone il nulla –, se fosse privata del suo opposto, l’oblio, condurrebbe alla follia; mentre l’esistenza si fonda sull’errore [8]. E proprio l’oblio della scrittura permette a Cioran di avere l’idea del suicidio, ma non di suicidarsi [9]. Se la verità delle cose inghiotte il soggetto che le pensa fino in fondo, allora non rimangono che le illusioni – e l’«insensato gioco di scrivere»:
«Pare un assurdo, e pure è esattamente vero che, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni» [10].

Chi non è più illuso sul mondo ama l’illusione, paradosso questo, tanto della poesia leopardiana quanto della prosa di Cioran: «Ho provato, in un silenzio e in una solitudine immensi, in mezzo alla natura, lontano dagli uomini e vicino a me stesso, una sensazione di tumulto infinito, in cui il mondo mi ha invaso con l’irruenza di un torrente, simile a un fluido trasparente e impercettibile. Se chiudo gli occhi, il mondo intero sembra essersi disciolto nel mio cervello, che traversa impetuosamente accompagnato da un’ineffabile seduzione, per erompere poi in ondate, come quando si sogna, in preda a un terrore voluttuoso, di morire annegati. Ho avvertito allora non solo come un uomo possa vivere in certi momenti tutta la misteriosa essenza del destino umano, ma anche come in lui possa concentrarsi l’universalità del mondo, assorbita nelle estasi della solitudine. Se a occhi chiusi – affinché il silenzio e la solitudine siano più intensi – si perde l’infinito della prospettiva esteriore, se ne guadagna uno più complesso e più avvincente. E in questo momento di estasi cosmica, di rivelazione metafisica, ho compreso che i fiumi che scaturivano da me erano quelli del mondo, che il mio tremore era il tremore dell’essere, e la mia allucinazione quella dell’esistenza. E in questo brivido unico mi sono sentito irresponsabile dell’esistenza del mondo» [11].
È ancora Leopardi a evidenziare il senso di oblio dell’arte: «Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di esse esprime o collo stile o co’ sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime ancora o collo stile o co’ sentimenti formali o con ambedue un abbandono una noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d’ogni cosa. E generalmente non v’ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà!» [12].
E anche l’incoscienza di tutti gli organi è un oblio vitale, per Cioran: «Se si arrivasse ad essere coscienti degli organi, di tutti gli organi, si avrebbe un’esperienza e una visione assoluta del proprio corpo, il quale sarebbe così presente alla coscienza che non potrebbe compiere più i servizi ai quali è costretto: diventerebbe esso stesso coscienza, e cesserebbe in tal modo di svolgere la sua funzione di corpo…» [13].

Riflessione fisiologica, questa, che riconduce ad un altro pensatore organico, Ceronetti. Ed è proprio quest’ultimo, in un’appendice a Qohélet, a istituire implicitamente una corrispondenza fra Leopardi e Cioran attraverso quella fra Chamfort [14], Leopardi e Qohélet [15]: «E dall’unghia profetica di Qohélet, tutto Leopardi è segnato. Niente di Orazio in Giacomo: la dottrina del piacere leopardiano è la stessa del suo Salomone (come sempre chiamò l’Ecclesiaste): l’impossibilità del piacere assoluto pone la certezza, è il fondamento inesorabile dell’infelicità umana. Questo modo di pensare, tragicamente infantile, è rifiutatissimo dalla filosofia, accolto invece dal sentimento tragico, o dalla Scrittura, che lo fa profetico e sacro. Di colpo, con Leopardi sei nell’infinito (un infinito senza siepe, senza neppure ultimo orizzonte) come repentino, a qualunque apertura delle sue poche pagine, è con Qohélet lo sbattimento nell’infinito. Se non fosse così breve, non si resisterebbe alla vertigine. Il qoheletismo leopardiano ne mette in luce un furore semitico che smentisce in parte la sua discendenza essenziale greca. Leopardi tutto greco? Un momento…La sua massima non è certo Niente di troppo…E intanto si sgretola il Qohélet tutto ellenizzato, se lo si confronta bene con gli ecclesiastizzati che nel tempo furono, e si ricompone il semitico. Giochi del chiaroscuro…» [16].

In Qohélet e in Leopardi c’è «(…) tutto il nostro miserabile affanno, il presagio e la sciagura dell’insaziato. E aggiungi il volo tragico del pensiero, l’impregnazione di violenza che annienta nel ritmo, subito, quel poco bene…Ma a Qohélet, all’uomo esperto in piaceri, certamente l’apólausiz non fu ignota. Ecco quindi il suo testo ininterrottamente sospeso alle corde dell’ambiguità. Per noi lettori dell’Ecclesiaste, recitatori di Scrittura, il piacere qoheletico è vanità leopardiana; per Qohélet era un bene reale, che l’aveva più volte saziato, figlio di Dio e non figlio d’affanno. Quando Leopardi, invece, parla di piacere, ne parla sempre en philosophe, e in astratto, perché non conobbe che le frustate del desiderio, rese micidiali da una sensibilità da vertigine […]» [17].
La stessa sensibilità di Cioran, che «a occhi chiusi» rimugina sull’assurdo – la realtà delle illusioni – e sul nulla: «Come saper se si è nel vero? Il criterio è semplice: se gli altri fanno il vuoto intorno a voi, nessun dubbio che siete più vicini all’essenziale di loro» [18]. E intorno al pensiero di Leopardi c’è forse ancora troppo vuoto.


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Umberto Cardinale
(n. 4, aprile 2015, anno V)



NOTE

1. E.M. Cioran, Qualche parola su Leopardi, trad. di M.A. Rigoni, pref. a M.A. Rigoni, Il pensiero di Leopardi, Milano, Bompiani, 1997, pp. 5-6. Sulle prime sue ʻcrisi di noiaʼ, scrive Cioran: «Cette crise d’ennui que j’eus à cinq ans (1916), un après-midi que je n’oublierai jamais, fut mon premier et véritable éveil à la conscience. C’est de cet après-midi-là que date ma naissance en tant qu’être conscient. Qu’ètais-je avant? Un être sans plus. Mon moi commence avec cette fêlure et cette révélation tout ensemble qui marque bien la double nature de l’ennoui. D’un coup je sentis la présence du rien dans mon sang, dans mes os, dans mon souffle, et dans tout ce qui m’entourait, j’étais vide comme les objets. Il n’y avait plus ciel ni terre, mais une immense étendue de temps, de temps momifié»;
«Sans l’ennui je n’aurais pas eu d’identité. C’est par lui, et à cause de lui, qu’il me fut donné de me connaître. Ne l’aurais-je jamais éprouvé, que je m’ignorerais totalment, que je ne saurais pas qui je suis. L’ennui est la rencontre avec soi- par la perception de la nullité de soi-même». (E.M. Cioran, Cahiers 1957-1972, Paris, Gallimard,1997, pp. 768-769)
2. Ivi, pp. 6-7.
3. G. Leopardi, Tutto è nulla. Antologia dello “Zibaldone dei pensieri”, a cura di M.A. Rigoni, Milano, Rizzoli, 1997,  fr. [1900-1902], pp. 127-128.
4. «Nella mia somma noia e scoraggiamento intero della vita talvolta riconfortato alquanto e alleggerito io mi metteva a piangere la sorte umana e la miseria del modo. Io rifletteva allora: io piango perché sono più lieto, e così è allora che il nulla delle cose pure mi lasciava la forza d’addolorarmi, e quando io lo sentiva maggiormente e ne era pieno, non mi lasciava il vigore di dolermene». G. Leopardi, fr. [84], op. cit., p.29. Quasi a commentare questo frammento, scrive Cioran: «Nella noia ordinaria, non si ha voglia di niente, non si ha nemmeno la curiosità di piangere; nell’eccesso di noia avviene tutto il contrario, perché quest’eccesso incita all’azione, e piangere è un’azione». (E.M.Cioran, Squartamento, tr. di M.A. Rigoni, Milano, Adelphi, 1981, p. 169)
5. Ivi, fr. [1975-1978], pp. 129-130.
6. M.A. Rigoni, op. cit., pp. 93-94.
7. G. Leopardi, fr. [4178], 2 maggio 1826, op. cit., pp. 222-223. «In questa straordinaria riflessione Leopardi offre un breve ma fulminante saggio di ‘analitica della finitudine’, paragonabile alla lettura hegeliana di Kojève […] L’individuo viene infatti rapportato alla finitudine come alla sua stessa condizione di possibilità. Se non ci fosse la finitudine, cioè la morte, non ci sarebbe neppure l’individuo. Così si potrebbe dire che se non ci fosse la morte, non ci sarebbe neppure il desiderio (così come non ci sarebbe il pensiero, il linguaggio e, alla fine, il ‘mondo’): il desiderio reca dunque in sé, originariamente, le stimmate della morte. Senza la morte, tutto dilegua nell’indistinto assoluto: un’entità che sia insieme infinita e individuale è un assurdo filosofico, una contradictio in terminis, come appunto osserva Leopardi». (M.A. Rigoni, op. cit., p. 94n)
8. «Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico non ci vuole soltanto luce, ma anche oscurità. Un uomo che volesse sentire sempre e solo storicamente, sarebbe simile a colui che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che dovesse vivere solo ruminando e sempre per ripetuta ruminazione […] è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio». (F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. di S. Giametta e M. Montinari, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. III, t. I,  Milano, Adelphi, 1976, p. 264)     
9. «Il desiderio di morire fu il mio solo e unico pensiero; ad esso ho sacrificato tutto, anche la morte». (E.M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza, tr. di C. Rognoni, Milano, Adelphi, 1993, p. 67)
10. G. Leopardi, fr. [99], op. cit., p. 30.
11. E.M. Cioran, Al culmine della disperazione, tr. di F. Del Fabbro e C. Mantechi, Milano, Adelphi. 1998, p. 140.
12. G. Leopardi, fr. [4074], 19 Aprile 1824, op. cit., p. 211.
13. E.M. Cioran, Squartamento, op. cit., p. 123.
14. L’influenza di Chamfort sullo stile tagliente e aforistico di Cioran è decisiva: «A intervalli sempre più lunghi, ho eccessi di gratitudine per Giobbe e Chamfort, per la vociferazione e il vetriolo». (E.M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, tr. di L. Zilli, Milano, Adelphi, 1991, p. 36)
Sulla necessità delle illusioni, scrive Chamfort: «Tutto è ugualmente vano negli uomini, le loro gioie e i loro dolori; è tuttavia preferibile che la bolla di sapone sia aurea o azzurra, anziché nera o grigiastra». (N. Chamfort, Massime e pensieri, [309], trad. di U. Renda e G. Bonazzi, pref. di G. Macchia, Parma, Guanda, 1998, p. 64)
15. La corrispondenza tra Leopardi e Qohélet è presente anche in M.A. Rigoni., op. cit., pp. 174-186.
16. G. Ceronetti, Chamfort, Leopardi e Qohélet, in Qohélet o l’Ecclesiaste, vers. e saggi di G. Ceronetti, Torino, Einaudi, 1988, pp. 63-64.
17. Ivi, p. 64.
18. E.M. Cioran, Squartamento, op. cit., p.122.