Una protagonista della «Nuova Europa»: la Grande Romania

Per molti popoli dell’Europa centrale e orientale la fine della Prima guerra mondiale costituì il trionfo del proprio ideale nazionale, coltivato nel corso del secolo XIX. Per altri invece, la morte, le rovine morali e materiali che accompagnarono e seguirono questi durissimi anni di lotta costituirono il corollario di una sconfitta non solo politica e militare ma anche morale. Di fatto ancor oggi a quasi un secolo da quel tornante fondamentale della storia contemporanea dell’Europa alcuni Paesi non paiono aver ancora del tutto assorbito i ʻtraumiʼ occasionati da quello straordinario rimescolio di popoli, frontiere, razze, ordinamenti che diede origine, alla cosiddetta Nuova Europa.
Per la Romania le trasformazioni che seguirono la Grande Guerra sancite quindi dagli accordi di pace del cosiddetto «sistema di Versailles» (Trattato di Versailles 28 giugno 1919, Trattato di Saint-Germain 10 settembre 1919, Trattato di Neuilly 27 novembre 1919, Trattato del Trianon 4 giugno 1920, Trattato di Sèvres 10 agosto 1920) rappresentarono l’occasione per realizzare il definitivo compimento della propria unità nazionale iniziato nel 1859 con l’unione dei due piccoli Principati di Valacchia e Moldavia in un solo soggetto politico. Fu la prima tappa di un percorso accidentato e controverso al termine del quale nacque la cosiddetta România Mare (cioè Grande Romania). L’intera Transilvania, una buona metà del Banato (spartito con il Regno SHS), la Bucovina, la Bessarabia e la Dobrugia meridionale potevano dirsi ormai riunite alla madrepatria. Fu così che il Regno (Regat) di Romania, che alla vigilia della guerra era un piccolo Stato di circa 130 mila kmq fondamentalmente omogeneo dal punto d vista etnico, al termine delle ostilità con l’acquisizione delle regioni sopramenzionate accrebbe la sua estensione geografica di ben 156.000 Kmq, e aumentò la propria popolazione di circa 8,5 milioni di abitanti. Fu questa la genesi di uno Stato che con i suoi 295.000 kmq e 15,5 milioni di abitanti era il più esteso e popolato del Sud-est dell’Europa e, dopo la ricostituita Polonia, il secondo più grande dell’intera pars orientalis del nostro continente, Russia sovietica esclusa, naturalmente.

Il «caso romeno» nel contesto europeo


Il 15 ottobre 1922, a circa due anni dalla firma del Trattato del Trianon, la fastosa cerimonia celebratasi ad Alba Iulia, nel cuore della Transilvania, con la quale il re Ferdinando I e la regina Maria furono incoronati sovrani del nuovo grande Stato romeno, non poteva certo nascondere gli enormi problemi che agitavano il difficile dopoguerra della nuova Romania. A parte la povertà che in conseguenza della guerra (costata più di 300 mila morti e perdite per circa 72 ml di lei oro) attanagliava molte aree del Paese, il nuovo organismo statale romeno appariva fragile economicamente, poco coeso etnicamente, dilaniato da aspre lotte sociali e soprattutto circondato da vicini, quali Ungheria e Bulgaria, che sebbene sconfitti o comunque costretti a un atteggiamento di basso profilo (come la nuova Russia sovietica) erano tutt’altro che disposti a dimenticare le amputazioni territoriali sofferte. Amputazioni di cui la Romania si era ampiamente avvantaggiata, un Paese che ora era composto anche da 1,4 milioni di magiari (7,9% della popolazione totale), 745.000 tedeschi (4,1%), 728.000 (4%), 582.000 ucraini (3,2%), quindi in minor proporzione da genti russe, serbe, turche, ecc. Alle inevitabili tensioni etniche si aggiungevano frequenti scioperi, manifestazioni violente, attentati di varia natura seguiti dalle durissime repressioni operate delle forze di sicurezza. Date queste condizioni – peraltro molto simili a quelle di altri stati della regione – è risultato piuttosto facile per molti storici bollare l’esperienza dei nuovi Stati dell’Europa centro-orientale sorti negli anni Venti come destinata da subito a un sicuro fallimento. Eppure la questione appare molto più complessa. A venti anni dalla caduta dei regimi comunisti totalitari che avevano eretto nei confronti degli anni interbellici una sorta di controversa e selettiva damnatio memoriae e, quindi, a qualche anno dall’apparizione di un’inevitabile (sia pur comprensibile anche se a volte intollerabile) stagione di nostalgie per i tempi di una più presunta che reale Romania felix, credo che per gli storici sia arrivato davvero il momento di cercare di intendere che cosa rappresentò davvero l’esperienza politica, economica e sociale dei Paesi dell’Europa centro orientale negli anni Venti e Trenta. A mio giudizio il caso romeno risulta particolarmente esemplificativo.

Il difficile dopoguerra della nuova Romania


Il primo Dopoguerra si dimostrò estremamente faticoso per tutti i Paesi belligeranti sia quelli usciti vincitori che per gli sconfitti. E particolarmente ardua fu la sfida che dovette affrontare la Grande Romania. La frammentazione etnica e religiosa della popolazione rappresentava solo una faccia della medaglia. L’altra era data dal compito impegnativo di cercare di armonizzare territori così variegati e diversi, soprattutto se si considera che anche dopo la Grande Unione venne mantenuta una struttura rigidamente centralizzata. Si pensi, per esempio, ai differenti (e in parte inconciliabili) sistemi scolastici, amministrativi e politici vigenti nelle diverse zone. Dall’oggi al domani i burocrati e funzionari di Bucarest dovettero cercare di ʻlegareʼ fra di loro regioni attigue ma di ben dissimile assetto economico, sociale e politico quali, tanto per fare un esempio, la Bessarabia e la Bucovina. La prima fino al 1917 rimase sottoposta all’amministrazione dello Stato zarista, risultava povera di infrastrutture, con indici paurosi di analfabetismo e arretrata economicamente. La seconda, fino al 1918 provincia austriaca, era culturalmente sviluppata, dotata di una discreta capacità economica e la popolazione cosmopolita, multietnica e multiconfessionale era già abituata da decenni a confrontarsi politicamente attraverso la contesa elettorale. Nel giro di pochissimi anni territori caratterizzati da ben quattro diverse e ben radicate tradizioni legislative furono sottoposti a un’unica legislazione e un unico ordinamento amministrativo, impresa tanto più ardua se pensiamo che in alcuni distretti della Bessarabia, per esempio, neppure un secolo di dominazione zarista era riuscita a scalfire il ricorso da parte delle popolazioni e dei maggiorenti locali a consuetudini legislative che addirittura rimontavano a Bisanzio. Altrettanto difficile (per non dire proprio astrusa) era la situazione in cui versavano le vie di trasporto delle nuove province: tutte indirizzate verso l’interno dei rispettivi territori di riferimento (l’Ucraina e la Crimea per la Bessarabia, l’Ungheria per la Transilvania, la Cisleithania per la Bucovina e il Banato) piuttosto che verso la Valacchia e la Moldavia, donde l’improbo compito di reindirizzare – e alla svelta – un sistema di trasporto che nello stato unitario romeno del 1919 sembrava fosse stato messo a punto da una mente insana piuttosto che da esperti di comunicazioni terrestri. Preoccupazioni ancora più grandi procurava alle diverse regioni la perdita dei tradizionali mercati: pensiamo a quelli russi per i prodotti agricoli della Bessarabia, o a quelli austroungarici per le imprese industriali e agricole della Transilvania, della Bucovina  e del Banato. Allo stesso tempo si innescò la concorrenza inevitabile tra prodotti simili, provenienti dalle nuove province e dal Vecchio Regno con la presumibile sequela di dispute, tensioni, recriminazioni.
Problemi enormi come si può facilmente immaginare che avrebbero creato difficoltà anche a strutture statali ben più robuste e collaudate della nuova Romania. Eppure non furono queste le uniche complicazioni che resero la vita difficile ai politici di Bucarest e alle classi dirigenti romene delle nuove province. Non è più possibile ignorare che le ostilità in Europa orientale non terminarono con la resa delle Potenze centrali e dei loro alleati né, tantomeno, con la firma dei Trattati di pace. Un grandissimo numero di territori continuarono a soffrire eventi bellici anche anni dopo la fine ufficiale della guerra. Oggi si parlerebbe di guerre a bassa intensità, allora si trattava in concreto di conflitti armati che sia pur disconosciuti dalla maggioranza dell’opinione pubblica europea, nonché volutamente occultati dalle autorità agli occhi delle popolazioni locali, furono fonti di enormi tensioni e in qualche modo marchiarono con le stimmate della violenza e del disordine i primi decisivi anni dei nuovi Stati dell’Europa orientale; un discorso che non vale solo per la Romania, ma anche per la Polonia, la Jugoslavia e i Paesi baltici.
Alcune regioni romene furono tra i territori maggiormente martoriati da queste piccole, sanguinose guerre. In particolare ebbe a soffrirne la più complessa e spinosa tra tutte le nuove province: la Bessarabia. Durante tutti gli anni Venti soprattutto i distretti orientali della regione furono quotidianamente interessati da episodi bellici più o meno gravi dovuti alla costante infiltrazione di bande russe e ucraine (in un primo momento sia bianche che rosse poi solo rosse), che costrinsero le autorità romene a mantenere numerosi e costosi reparti delle forze armate con altissimi livelli di vigilanza. Nel settembre del 1924 una grossa formazione bolscevica occupò per tre giorni la località bessarabena di Tatar-Bunar proclamandovi la nascita della Repubblica Sovietica di Moldavia. Di fatto, fino alla scoppio della Seconda guerra mondiale, nei distretti più orientali della Bessarabia restò in vigore la legge marziale in modo permanente, comportando – è facile desumere – per le popolazioni civili quel corollario di soprusi, abusi e vessazioni o anche semplici disagi.       

La stagione di riforme della Grande Romania           

Eppure nonostante tutte queste avversità almeno i primi anni di vita della Grande Romania furono segnati anche da un’importante stagione di riforme.  Alla fine del dicembre 1918 fu promulgata la legge di riforma elettorale che estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini romeni maggiorenni e di sesso maschile senza distinzione di razza e religione. Un diritto di voto assolutamente segreto, a differenza di quel che accadeva, per esempio, nelle vicine campagne dell’Ungheria a partire dal 1920. In un colpo il numero degli elettori passò dai circa centomila del periodo prebellico ai 3,5 milioni del 1926 destinati a diventare 4,5 in occasione delle elezioni del 1937. Si trattò di una riforma di chiara ispirazione liberale tendente ad avvicinare la Romania alle democrazie borghesi occidentali il cui modello politico, in un modo o nell’altro, era stato tra i principali punti di riferimento di una parte importante della classe dirigente romena. Le conseguenze impresse al quadro politico di Bucarest da questa riforma furono davvero di notevole portata: basterà accennare alla fine definitiva di uno dei due partiti storici romeni, quello conservatore, alla parziale trasformazione dell’altro partito storico del Regat, quello liberale (diventato Partito Nazional-liberale) e all’ingresso sull’arena politica di nuove forze che rappresentavano gli interessi non solo delle classi e dei circoli politici del Vecchio regno ma anche delle nuove province. Era il caso soprattutto di una formazione politica quale il Partito nazional-contadino, destinato a ricoprire nel corso degli anni un ruolo di grande importanza, sia pur non scevro da contraddizioni ed errori che ne limitarono la capacità di incidere sulla modernizzazione della società e della classe politica del Paese danubiano. Tuttavia, dalla fine degli anni Venti il mondo politico romeno e la società romena tout-court furono interessati anche dall’insorgere prepotente di agguerrite formazioni di estrema destra. Tra tutte vale la pena ricordare la Legione dell’Arcangelo Michele o Guardia di Ferro guidata da un nazionalista tanto carismatico quanto esaltato e xenofobo, come Corneliu Zelea Codreanu. Nel giro di poco tempo la Legione fu capace di attrarre nella sua orbita migliaia di giovani che frustrati dalle difficoltà di inserirsi decentemente nel tessuto sociale e accesi dal suo messaggio antioccidentalista, antimodernista e teso a celebrare le radici ortodosse e contadine del popolo romeno immisero nella società una dose considerevole di violenza e tensione che non fece altro che rendere più instabile il quadro politico generale della Romania di quel periodo. Nel corso di tutti gli anni interbellici molto più marginale fu, invece, il ruolo giocato dal Partito comunista romeno, un organismo fondamentalmente avulso alla realtà del Paese, ma tuttavia capace di attrarre qualche migliaio di membri e simpatizzanti e, in definitiva, rivelatosi un docile strumento nelle mani del Komintern nelle sue macchinazioni antiromene. Indubbiamente gli spazi di manovra che in questi anni le formazioni di estrema destra e, in minor misura, di estrema sinistra riuscirono a ricavarsi erano anche il frutto della cocente insoddisfazione di una parte dell’opinione pubblica che assisteva impotente all’uso spregiudicato e personalistico del potere e delle leggi da parte delle forze al governo pronte a calpestare la stessa legge fondamentale pur di assicurarsi un vantaggio sul proprio avversario.     
L’altra trasformazione messa in cantiere alla fine della guerra fu la riforma agraria. Si trattò di un vasto e ambizioso progetto di cambiamento delle strutture di proprietà, economiche e sociali delle campagne romene. Pensiamo che alcune regioni del Sud dell’Italia dovettero attendere gli anni Cinquanta del Secondo dopoguerra per vedere un provvedimento efficace in tal senso. Senza scendere nei particolari possiamo dire che nel volgere di pochi anni la legge di riforma agraria nonostante la lentezza, le difficoltà burocratiche e politiche sortì l’effetto di spazzare via dalle campagne romene la grande proprietà latifondista che fu sostituita da un’estesa rete di piccole e medie proprietà. Se fino all’applicazione della riforma agraria poco meno di seimila grandi proprietari terrieri possedevano quasi il 48% del terreno arabile, dopo la riforma le terre arabili in loro possesso si ridussero a un 10% del totale mentre le piccole e medie proprietà contadine erano cresciute di percentuali che a seconda del territorio andavano dal 52% all’89% del totale delle terre arabili. Fuor di dubbio alla base di tale provvedimento c’era anche la volontà di spezzare la forza di resistenza delle classi alte appartenenti alle etnie minoritarie in particolare quelle ungheresi e russe (si pensi al rigore con la quale la legge fu applicata in Transilvania, Bucovina e Bessarabia), ma non c’è dubbio che nonostante i tanti difetti (mancanza di adeguati finanziamenti, scarsità di una rete di banche di credito agricolo, insufficiente modernizzazione delle attrezzature tecniche ecc.) pochi Paesi dell’Europa orientale furono capaci di attendere a una così vasta e radicale opera di trasformazione delle proprie campagne che forse per la prima volta, non senza contraddizioni e storture, si aprirono ad un primo processo di reale modernizzazione dei processi produttivi e ad un timidissimo miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che le abitavano.
Eppure, nonostante questi sforzi caratterizzati dalla crescita della produzione industriale e dallo sfruttamento intensivo delle risorse naturali (petrolio, cereali, legnami ecc.), malgrado le città romene – a cominciare da una sfavillante e affascinante Bucarest – si sforzassero di tenere il passo con le innovazioni dei grandi centri abitati occidentali, nonostante l’apertura di migliaia di nuove scuole elementari, nuovi istituti di formazione superiore, innumerevoli circoli culturali, nuove università e, infine, sebbene fossero stati allacciati stabili rapporti di alleanza politica e militare con la Francia (saldati anche da un florido intercambio culturale) e con il più evoluto di tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale (cioè la Cecoslovacchia), la nuova Romania continuava ad apparire un organismo fragile, arretrato, dilaniato da contraddizioni e da una quasi irrimediabile frattura fra le classi alte e il resto della popolazione costretta nonostante tutto a vivere in condizioni di perenne difficoltà quando non di vera e propria indigenza. A questi problemi a partire dal 1933 – proprio quando si intravvedeva l’uscita dalla gravissima crisi economica generata dalla crisi del 1929 – si unì il pericolo rappresentato dal revisionismo sempre più accesso e inconciliabile dei paesi vicini.

L’esperienza politica della Grande Romania

Indubbiamente qualcosa nel nuovo organismo statale romeno non aveva funzionato a dovere. Se la propaganda bolscevica aveva facile gioco nel presentare all’opinione pubblica occidentale progressista la Romania come «il Paese dei boiari affamatori dei contadini», se la propaganda revisionista ungherese e bulgara riusciva a inondare la Società delle Nazioni e gli organi di stampa internazionali di accuse e reclami circa i soprusi sofferti dalle rispettive minoranze (ingiustizie a volte reali altre inventate, ricordiamo che la Costituzione romena del 1923 aveva recepito in toto il Trattato per la protezione delle minoranze voluto dalla Società delle Nazioni), ciò era indice di debolezza, insicurezza ma anche di una struttura statale che forse non era del tutto attrezzata per affrontare le ardue sfide di un mondo che dopo la Prima guerra mondiale era decisamente cambiato. 
Le classi dirigenti che attesero al compito di unificare al Vecchio regno le regioni abitate da genti romene erano legate a schemi politici propri del nazionalismo esclusivista del XIX secolo: ne risultò che il nuovo organismo statale non seppe e forse neppure cercò mai di trasformarsi in una sintesi efficace delle tradizioni, delle culture, in una parola delle genti così composite che confluirono nel nuovo Stato e dunque nonostante qualche sforzo – anche sincero – profuso per cercare di offrire a tutti i cittadini le stesse garanzie legislative, la Grande Romania non seppe né poté mai diventare il Paese di tutti i suoi abitanti. Di certo l’impresa era ardua né, va detto, si poteva contare sulla collaborazione aperta e leale delle popolazioni allogene.  Di certo lo Stato romeno ci mise del suo: l’incapacità di combattere una pratica amministrativa in cui la corruzione era preponderante, il mantenimento di un apparato amministrativo quasi completamente sottoposto ai desiderata della politica, dove, per esempio, continuava a imperversare la nefasta pratica di inviare nelle province più disagiate i peggiori funzionari civili e militari confinati là per punizione, la costruzione di un sistema scolastico ed educativo fondato quasi esclusivamente sull’assioma del romenismo, il mantenimento di una rigida struttura verticistica e centralizzata dell’apparato burocratico che sembrava fatto apposta per non saper rispondere alle esigenze delle nuove regioni, fece pensare e a molti, compresi tanti romeni di Transilvania, della Bucovina e della Bessarabia, che il nuovo Stato fosse solo l’allargamento del vecchio Regat che portava nei nuovi territori vecchie tare inconciliabili con uno sviluppo moderno della società.
Eppure a condannare al fallimento l’esperimento della Grande Romania non furono queste deficienze strutturali per quanto gravi esse potessero essere, sono convinto, infatti, che sia pur tra mille storture e lacune gli anni Venti e Trenta abbiano rappresentato per la Romania in particolare, per il resto dei Paesi del Sud-est dell’Europa più in generale, la prima vera occasione per modernizzare le proprie strutture sociali, economiche e politiche e culturali, fu una sfida che almeno una parte di quelle classi dirigenti, soprattutto all’inizio, raccolsero e cercarono di sviluppare conseguentemente. L’ostacolo insormontabile contro il quale questi esperimenti fracassarono fu piuttosto rappresentato dalla tenaglia del duplice espansionismo nazista e bolscevico, furono questi due elementi a decretare la fine a Oriente dell’Europa di Versailles. Anche se qualcuno in Romania intuì da subito la portata distruttiva di questa duplice minaccia il Paese si trovò privo di difese non solo a causa dell’oggettiva debolezza rispetto al colosso tedesco e a quello sovietico, ma ancor di più perché quelle classi dirigenti (così come quelle ben più collaudate dell’Occidente) erano legate ad un modello politico improvvisamente rivelatosi antiquato e inadeguato rispetto alle nuove sfide e dunque semplicemente si ritrovarono senza gli strumenti né materiali né mentali per affrontare una sfida decisiva e capitale come quella in cui la Germania e l’Urss le coinvolsero. Tuttavia l’esperienza politica della Grande Romania con la sua carica di innovazioni e di reale seppur confuso cammino verso la modernizzazione, poteva dirsi in qualche modo conclusa già qualche anno prima della Seconda guerra mondiale, precisamente nel 1938, allorquando l’incapacità delle forze politiche borghesi di affrontare uno dei momenti più delicati del primo dopoguerra, offrì il destro al monarca Carol II di effettuare un colpo di stato che gli diede il controllo dello Stato e seppellì le libertà democratiche. Allora nessuno forse immaginò che quell’episodio segnava il canto del cigno della democrazia romena, alla dittatura monarchica di Carol sarebbe seguita quella militare di Ion Antonescu e, quindi, la lunghissima parentesi dell’esperienza totalitaria comunista e si sarebbe dovuto attendere le tragiche giornate del dicembre del 1989 per poter vedere risorgere in Romania le istituzioni democratiche.


Alberto Basciani
(n. 1, gennaio 2013, anno III)


* Testo rivisto e ampliato della conferenza del 3 dicembre 2012 promossa dall’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia.