«Vedute»: tradotte in italiano le poesie romene di Benjamin Fondane-Fundoianu

Segnaliamo l’uscita del volume Benjamin Fondane Fundoianu, Vedute, a cura di Giovanni Rotiroti e Irma Carannante, Traduzione e note di Irma Carannante, Novi Ligure (AL), Edizioni Joker, 2014. Si tratta di una raccolta di poesie romene, tradotte integralmente per la prima volta in italiano, scritte tra il 1917 e il 1923. La poesia di Fondane si inscrive nell’ambito della letteratura esistenziale europea di matrice ebraica. Paul Celan, il più importante poeta del secondo novecento tedesco, e Emil Cioran, l’ultimo dei grandi pensatori moralisti del novecento francese, si sono ispirati al suo magistero poetico e filosofico. La conoscenza in Italia di questa opera è fondamentale per chiunque intenda affrontare lo studio della letteratura europea della prima metà del secolo scorso e anche della seconda dopo «la cesura di Auschwitz».

Poeta visionario, pensatore esistenziale, saggista, drammaturgo, cineasta, Benjamin Fundoianu-Fondane è uno dei più grandi scrittori europei della prima metà del XX secolo. Nato in Romania nel 1898, arrivò a Parigi nel 1923. Da allora in poi scrisse la sua opera solo in francese prima di essere orrendamente ucciso nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau nel 1944. I suoi poemi si presentano per molti tratti come una commistione di pittura e poesia; sono aperti allo scambio, disposti ad accogliere l’alterità più inquietante di cui sono profondamente intrisi. Anche quando accennano alla noia profonda e alla crudeltà della malinconia «moldava», queste poesie non corrono il rischio di chiudersi in sé stesse, perché il loro «soggetto» è fatto di immagini e di parola, e soprattutto perché questo «soggetto» parla quando vede, e risponde anche quando resta in silenzio.

Il «soggetto» di Privelişti testimonia l’essere vedente, in cui si vede e si ascolta anche quando la struttura del mondo appare sorda e muta di fronte al reale desertico del disastro. L’evento misterioso e il sogno proveniente dalla memoria nostalgica delle forme plastiche, dei toni sentimentali, dell’intensità dei colori dell’imbrunire, il richiamo all’abisso e alle speranze, la sovrapposizione delle immagini e la possibilità di incastrarle le une nelle altre, di farle vivere simultaneamente pur nella catastrofe ambientale del paesaggio, dopo la distruzione prodotta dalla guerra – il tutto è racchiuso nella cifra iconica di un passato irredimibile, e perciò degno di essere salvato dalla poesia come possibilità di reintegrazione di ciò che è stato infranto.

Le Vedute di Fundoianu si lasciano guardare ed ascoltare a partire da certe tonalità emotive fondamentali e si allontanano programmaticamente dalla tradizione del genere paesaggistico romeno di impronta bucolica. In tal senso, si è trattato per Fundoianu di liberare l’orizzonte del paesaggio natio a partire dal quale ciò che è stato distrutto nel disastro possa infine apparire nella sua originale e primigenia grandezza. Imparare a leggere nel paesaggio i segni lasciati dalla noia profonda, dalla tristezza moldava, e anche dall’eros derivato dalla frequentazione assidua del Cantico dei Cantici,significa per il poeta liberare l’originalità di un domandare e di un interrogare ciò che è degno di essere posto in questione. La lezione dell’Ecclesiaste e di Giobbe si trova sempre come sfumata sullo sfondo di questi componimenti. Le Vedute di Fundoianu, solo all’apparenza agresti o bucoliche, fanno emergere, per lo più, uno stato di angoscia senza nome, di calamità, di desolazione, di noia e tristezza profonda. Il poeta canta biblicamente la solitudine e lo spaesamento all’interno della cornice di questo paesaggio fatto di terra nera, boschi, bisonti o bufali moldavi e luci al crepuscolo.

La voce «ebraica» di Fundoianu è un richiamo alla memoria e alla devozione per un paesaggio completamente interiorizzato. Il raccoglimento e il ricordo mantengono il potere orfico e dionisiaco di evocare per magia il mondo dei «morti», di ridare vita a «scorci», «dettagli», «profili» calati in una natura completamente allucinata e miracolosa. In tal luogo, la poesia del ricordo, velato dal lutto, diventa preghiera ed invocazione, richiesta di pace e di riscatto. In questo movimento di rammemorazione e di cordoglio del poeta, un altro tratto profondamente «ebraico» è l’allocuzione al «tu» rivolto all’assente. Alcuni di questi componimenti, che spesso invitano apertamente a guardare, conferma il loro carattere dialogico e il loro situarsi in uno sguardo crepuscolare di rêverie, di fantasie, segnato dall’ombra di una catastrofe incombente o da sempre avvenuta. La memoria è guidata dalla convinzione che solo nello spazio del poema il grido strozzato di dolore possa ricevere rispetto, pace e attenzione. Quest’evento inconoscibile, che si produce in uno spazio misterioso del paesaggio, spinge il poeta alla lotta interiore, all’impegno per la testimonianza, a serbare il contatto con ciò che richiede di essere visto, a non trascurare le cose, ma a vederle come sono, a non domandare altro se non il vederle.



Giovanni Rotiroti
(n. 3, marzo 2014, anno IV)