«Ineffabile nostalgia». Le lettere di Cioran a suo fratello Aurel

La corrispondenza tra Cioran e suo fratello Aurel, pubblicata in edizione italiana presso Archinto (Ineffabile nostalgia. Lettere al fratello 1931-1985, trad. di M. Carloni e H.C. Cicortas, Milano, 2015, pp. 176, € 18), copre un arco temporale di oltre mezzo secolo, rivelandosi quanto mai decisiva per ripercorrere la parabola letteraria, ma soprattutto umana dello scrittore romeno trapiantato a Parigi.
Il volume raccoglie 237 lettere, su un corpus totale stimabile, a tutt’oggi, intorno alle 400 unità. La scelta dei curatori ha privilegiato i contenuti di particolare interesse letterario, filosofico e storico, utili all’esegesi dell’opera di Cioran, senza trascurare quei documenti che, apparentemente marginali, rivelano il lato privato, quotidiano e affettivo dell’autore. Alcune di queste lettere vengono pubblicate per la prima volta in questa edizione, non essendo state finora comprese nei vari testi che raccolgono la corrispondenza tra Emil Cioran e i familiari rimasti in Romania. Sono incluse nella raccolta anche alcune lettere politicamente «impegnate», scritte da Cioran negli anni Trenta e Quaranta, che, una volta estrapolate dal contesto storico e dall’evoluzione spirituale dell’autore, possono condurre a lapidari e fuorvianti (pre)giudizi ideologici.

I destini dei fratelli Cioran, uniti in gioventù dalla passione intellettuale e dal fervore politico, si separano sul finire degli anni Trenta. Confermando a guerra finita la scelta di restare in Francia, e di non tornare più in una Romania ormai sovietizzata, Cioran rinuncerà persino alla sua lingua madre, pur di tagliare con una parte «inattuale» di sé. Installandosi al «centro del mondo», pensa di liberarsi per sempre dall’onta di appartenere ad una «piccola cultura».
La seconda guerra mondiale, ma soprattutto la cortina di ferro che taglia l’Europa in due blocchi contrapposti, costringe i fratelli Cioran a quarant’anni di separazione forzata. L’uno, Emil, meteco a Parigi, nel cuore di quel «paradiso desolante» che è diventato ai suoi occhi l’Occidente; l’altro, Aurel, prigioniero in patria, in una Romania ridotta dal regime comunista a un grigio inferno «che non è più di nessuno». I due fratelli affidano alla sorte incerta e vulnerabile della lettera il desiderio di sentirsi uniti, nonostante la storia stessa cospiri contro di loro.
All’intenso scambio epistolare fa da corollario, da parte del più «fortunato» Emil, l’invio di vestiario, cibo, medicinali e quant’altro possa tornare utile a cei de-acasă, dimostrando nell’occasione una premura, una generosità, una tenerezza quasi materne, nei confronti dei lontani e sventurati parenti. Aurel, da parte sua, ricambia come può, ovvero con l’invio di oggetti della sua terra e, soprattutto, con le immagini dei paesaggi dell’infanzia: Rășinari, Sibiu, Șanta, arricchite dalle stravaganti storie dei personaggi che li animano. Grazie alle affezioni magiche del temps retrouvé, Cioran, riconciliatosi col fondo romeno della sua anima, è colto da un’«ineffabile nostalgia» per i luoghi incontaminati dell’infanzia, considerati una sorta di paradiso perduto, una metafora del suo sradicamento metafisico.

Nel dialogo a distanza con Aurel, ad emergere prepotentemente è proprio il lato romeno della personalità di Cioran, quel suo côté balcanique che è possibile leggere solo in filigrana nell’opera edita. Pur avendo adottato il francese, Cioran esalta l’incomparabile poeticità dell’idioma romeno, fortuna e sciagura ad un tempo, poiché, se da un lato ha partorito lirici di prim’ordine come Eminescu, dall’altro ha confinato per sempre il suo popolo «nell’intraducibile». 
La malinconia, la rassegnazione, lo scetticismo, il lamento di fronte a un destino sentito come irreparabile, queste ed altre tonalità affettive dell’anima romena, condannate da Cioran come tare culturali regressive ai tempi della Trasfigurazione della Romania, riemergono ora, nelle lettere a Relu, quali elementi essenziali di una saggezza primordiale, rurale che, beffandosi della storia, diventa preferibile alla fredda intelligenza parigina, poiché in grado di sopportare meglio le sventure della vita. Il 6 aprile 1972 scrive al fratello: «Più si è primitivi, più si è prossimi ad una saggezza originaria che le civiltà hanno perduto. Il borghese occidentale è un imbecille che pensa solo al denaro. Qualunque cioban [pastore] nostrano è più filosofo d’un intellettuale di qui». D’altronde, al di là del portato culturale, la malinconia dei fratelli Cioran risente anche di un’eredità familiare. Di quel male oscuro la madre Elvira aveva trasmesso loro «il gusto e il veleno». Il gusto, assaporato attraverso la musica sublime di Bach, unico antidoto al tormento dell’invano, autentico veleno che divora l’anima afflitta. Un giorno, poco prima di morire, la madre scrisse al figlio queste desolanti parole: «Qualsiasi cosa faccia l’uomo, la rimpiangerà sempre» – «Era il suo testamento. Vi riconosco la filosofia della nostra tribù», chiosa amaramente Cioran.

In seguito al soggiorno in Germania del 1933-35, Cioran è in piena esaltazione politica. Non il cammino interiore, bensì l’azione collettiva, guidata da un capo carismatico, diventa l’unica via di salvezza in grado di condurre a quella trasfigurazione della Romania, che rappresenta l’ultima speranza di riscatto per la tânara generație. Tuttavia, se per Emil la passione per il destino del proprio paese si rivela un’infatuazione di breve durata – pretesto, più che altro, per sciorinare provocazioni geopolitiche e sfogare il suo irrefrenabile lirismo, frutto al contempo d’un disperato complesso d’inferiorità culturale e d’insonnie devastanti – per Aurel significa un’adesione in prima persona alla Guardia di Ferro.
Quando nel secondo dopoguerra Cioran, dal suo isolamento parigino, pone in essere il personale «disormeggio» dalla storia – «Qualunque partecipazione ai tumulti temporali è tempo perso e vana dissipazione» – spingendo il fratello a fare altrettanto, è ormai troppo tardi. La mannaia del socialismo di stato romeno non tarda ad abbattersi anche sul suo capo. Nel 1948, dopo un processo farsa, Aurel Cioran è condannato a sette anni di carcere e a otto anni di lavori forzati per motivi politici. Stessa sorte tocca alla sorella maggiore Virginia – evidentemente, per entrambi, il fatto di chiamarsi Cioran non è secondario.

Negli anni Sessanta Aurel esce dal tunnel, fisicamente e psicologicamente provato, ma moralmente integro, tanto da rifiutare ripetutamente l’invito della Securitate a diventare un suo informatore. Si aggiunga a ciò, nel 1966, la perdita nel giro di un mese della madre Elvira e della sorella Virginia. Cioran lo sostiene a distanza, consigliandogli la lettura di Marco Aurelio – «non esiste consolatore migliore» – ed invitandolo al distacco dagli esseri e dalle vicende passate, insomma a non farsi cattivo sangue, prendendo le cose troppo seriamente.
Dopo quarant’anni di separazione, Emil e Aurel si rincontrano nell’aprile del 1981 a Parigi. A tal punto il tempo e la sofferenza hanno segnato i loro volti, che alla stazione stentano a riconoscersi: «Sei tu?» – chiede Cioran al fratello. Nel crepuscolo delle loro vite, per una curiosa ironia del destino, ognuno vorrebbe trovarsi al posto dell’altro. Emil, per sfuggire all’asfissiante «garage apocalittico» parigino, sogna un’esistenza anonima, immerso nella campagna transilvana; mentre Aurel, al pari dei suoi compatrioti, sente ancora il fascino ammaliante di Parigi e della libertà occidentale.
Quando nei primi anni Novanta il baratro dell’Alzheimer inghiotte progressivamente la mente lucida di Cioran, costringendolo al ricovero presso l’ospedale Broca, Aurel vorrà essere ancora accanto a lui. Impossibilitato a camminare, Cioran è costretto – lui infaticabile promeneur – sulla sedia a rotelle. Aurel lo accompagna nel parco dell’ospedale, rievocando insieme, in romeno o in francese, gli anni dell’infanzia. Simone Boué assicura di averli sentiti ridere, sghignazzare alla romena. Forse, ripensavano con sarcasmo a quel formidabile aforisma di Aurel, che Cioran volle includere in una sua raccolta: «La vecchiaia è l’autocritica della natura».


Massimo Carloni e Horia Corneliu Cicortaş

 

Lettere di Emil ad Aurel Cioran

Per gentile concessione dell’editore Archinto pubblichiamo alcune lettere contenute nel volume
Ineffabile nostalgia. Lettere al fratello 1931-1985, trad. M. Carloni e H. C. Cicortas, Milano, 2015, pp. 176.

 

Parigi, 19 aprile 1968

Mio caro Relu,
grazie per gli auguri di compleanno. [1] Ho raggiunto un’età ridicolmente avanzata. È degradante appartenere alla «vecchia» generazione. Meglio cambiare argomento. La tentazione d’esistere – il mio libro migliore, credo – è appena uscito in America, in una traduzione abbastanza buona ma, e ciò è assurdo, presso un editore di terz’ordine. [2] Insuccesso assicurato. – Il mio scritto su Valéry è stato rifiutato, poiché, a quanto pare, troppo aggressivo e ingiusto. [3] Riconosco di aver malmenato il caro grand’uomo, ma ho sempre sentito un forte impulso all’ingratitudine verso coloro che ho ammirato. Questa vicenda del rifiuto ha dato luogo a complicazioni sulle quali preferisco non insistere. – Cosa fai durante le vacanze di Pasqua? Penso alle Rusalii [4] d’un tempo, quando cantavamo tutti…

Con affetto
Luţ

[1] L’undici aprile 1968 Cioran compì 57 anni.
[2] E.M. Cioran, The Temptation to Exist, Quadrangle Books, Chicago 1968, translated from the French by Richard Howard & Introduction by Susan Sontag (ed. it. La tentazione di esistere, trad. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti, Adelphi, Milano 1984).
[3] La prefazione alle opere di Valéry verrà pubblicata nel 1970, presso l’editore l’Herne, col titolo Valéry face à ses idoles, e ricompresa in Exercices d’admiration, Gallimard, Paris 1986 (ed. it. Esercizi di ammirazione: saggi e ritratti, trad. di Mario Andrea Rigoni e Luigia Zilli, Adel phi, Milano 1988).
[4] Pentecoste.

 

Parigi, 7 giugno 1969

Mio caro Relu,
dalla tua ultima cartolina vedo che sei piuttosto depresso. Non lasciarti andare. Vivi vicino alle montagne, puoi andare in campagna a piedi! Per vedere un po’ di verde, io devo prendere il treno e percorrere almeno 50 km! Parigi s’estende come un’immensa balegă. [1] L’immagine è calzante, poiché qui tutto è viziato, l’aria e il resto. – Senti cosa ti dirà l’oculista; ciò che non ti serve, dallo a Nuţu. Insomma, fai come vuoi. Bisogna reagire alla malinconia, quest’infermità della nostra famiglia.

Cu drag,
Luţ

[1] Balegă: letamaio.


  [Parigi,] 3 dicembre 1973

Mio caro Relu,
mi sembra impossibile che siano passati tanti anni dalla morte dei nostri genitori. Il tempo esiste, dunque… Mi ricordo talmente bene del cimitero di Rășinari, che potrei indicarti l’ubicazione di tale o talaltra tomba. Com’era bello il giardino che avevamo proprio lì accanto!
Mi è dispiaciuto sapere che il paesaggio intorno alla proprietà dei Barcianu sia stato deturpato. Se esiste al mondo una casa in cui vorrei ritirarmi, è proprio quella! Che poesia! Un incanto che evoca l’universo di Turgheniev. Spero tu abbia ricevuto il libro, altrimenti, chiederò a Gallimard di sporgere reclamo. Non l’ho inviato a Milica, per via di alcune blasfemie.

Cu drag,
Luţ


Dieppe, 25 novembre 1979

Mio caro Relu,
i libri che ho scritto qui da circa trent’anni non hanno avuto, a dire il vero, alcun successo. Non me ne sono mai lamentato; al contrario, ho accettato molto bene la mia condizione di marginale. Ecco adesso questo libro, sicuramente meno buono degli altri, di cui tutti si sono messi a parlare. Fenomeno inesplicabile e… deprimente. Ho chiesto all’editore di bloccare ogni pubblicità e, t'assicuro, se fosse in mio potere, ritirerei questo povero Ecartèlement dal commercio. Quando penso che la maggior parte degli scrittori ama questo genere di clamore attorno alle loro produzioni (anzi, prodotti), ho voglia di non scrivere né pubblicare più niente. Giacché tutto mi disgusta, non vedo perché continuare un «mestiere» che non mi dice più nulla. Se non fossi così vecchio, ritornerei alla filosofia. Essa, perlomeno, ha la scusante d’essere inaccessibile ai giornalisti e alle casalinghe.

Cu drag,
Luţ














(n. 4, aprile 2015, anno V)