Luigi Geninazzi: vi racconto l’Est comunista e la sua fine

«Bucarest, maggio 1987. Sono sconvolto dallo spettacolo straziante di un popolo affamato e terrorizzato. Manca il cibo nella Romania di Nicolae Ceauşescu, il dittatore che si fa chiamare “il Titano dei Balcani”, forse perché ha imposto a 23 milioni di cittadini uno sforzo immane di austerità e disciplina che s’accompagna alla mancanza di libertà. Tutto è razionato, anche i prodotti di base come pane, burro, olio, farina e zucchero, che comunque sono spesso introvabili. Perfino le patate si vendono a pezzi singoli, le uova sono un lusso, e il latte in polvere, quando c’è, viene distribuito solo in farmacia dietro presentazione di ricetta medica». A firmare la testimonianza in presa diretta della vita impossibile nella Romania degli anni Ottanta è Luigi Geninazzi, giornalista, scrittore ed esperto di politica internazionale, che ha appena pubblicato, presso le Edizioni Lindau di Torino, il volume L'Atlantide rossa. La fine del comunismo in Europa (prefazione di Lech Walesa, pagine 288, euro 19, corredato di inserto fotografico). Profondo conoscitore dell’Est Europa già durante gli anni del comunismo, legato da amicizia ad alcuni dei grandi protagonisti che portarono all’abbattimento del Muro, Geninazzi fotografa con incisiva efficacia le condizioni di vita dei Paesi dell’Est durante il regime, per ricostruire poi le fasi salienti del processo che in Polonia, Germania Orientale, Cecoslovacchia, Romania e negli altri stati ha portato alla fine del comunismo. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo l’introduzione al volume e l’inserto fotografico che lo accompagna.


C’era una volta l’Europa dell’Est, un mondo grigio di ristrettezze e restrizioni che sopravviveva a fatica sotto il trionfalismo ingannevole delle dittature rosse. Un mondo che nell’immaginario collettivo è scomparso in una notte con il crollo del Muro di Berlino il 9 novembre del 1989, in modo improvviso come la mitica Atlantide. L’opinione più diffusa è che la cortina di ferro si sia afflosciata di colpo come fosse di cartapesta e che la caduta dei regimi totalitari nell’altra metà d’Europa sia giunta in modo del tutto imprevisto. Il comunismo sembra sia morto d’infarto e tutti, a cominciare dai parenti più stretti, hanno celebrato con esibito sollievo e qualche malcelata preoccupazione i suoi funerali.

Ma, a dire il vero, il Muro non è crollato. L’espressione, anche se ormai entrata nel lessico abituale, ha una forza evocativa che non corrisponde alla realtà. Il Muro non è crollato, è stato abbattuto. Non in una notte ma nel corso di lunghi anni. Non è caduto, l’ha buttato giù gente cocciuta e coraggiosa che ha sfidato un potere illiberale e repressivo a mani nude. La fine del comunismo in Europa è stato un evento drammatico e contorto, maturato dentro le sofferenze e i sacrifici di milioni di persone, preparato dalla resistenza ostinata di uomini e donne che contro ogni ragionevole speranza hanno lottato con il cuore sgombro dall’odio per affermare il diritto alla verità e alla libertà. Questo libro vuole essere un omaggio a loro, ai protagonisti famosi ma anche ai tanti eroi sconosciuti di quella che è stata giustamente definita «la rivoluzione non violenta più riuscita della storia».

L’Atlantide rossa, sparita e pressoché cancellata dalla nostra memoria, non era affatto una landa desolata. O, per meglio dire, era un mondo segnato dalla penuria materiale che sotto la cappa oppressiva del potere nascondeva tesori di umanità autentica, maestri saggi dotati di grande fascino intellettuale e gente semplice istintivamente lontana dalle doppiezze del regime, credenti la cui fede cristiana alla fine è riuscita davvero a spostare le montagne e laici d’assoluta integrità morale alla ricerca del bene e del vero. Per non parlare della capacità d’ironia di fronte alle avversità, anche quelle più dure e ingiuste provocate dai governanti. Al fianco di queste persone, seguendo da vicino le loro imprese apparentemente disperate, ho vissuto l’eccitazione di chi sta in prima linea sul difficile crinale tra totalitarismo e libertà. Lo confesso, provo un po’ di nostalgia per gli anni ’80 che ho trascorso per la maggior parte all’Est, un’esperienza umana e professionale straordinaria che mi ha appassionato alla realtà giustificando il vecchio detto secondo cui «l’inviato è il mestiere più bello che uno possa fare».

Sono stati «Dieci anni che hanno sconvolto il mondo», se mi è consentito parafrasare John Reed, l’inviato più famoso del XX secolo, cronista eccezionale della rivoluzione bolscevica del 1917. Come allora sono ricomparsi proletari in azione e popoli in subbuglio. Ma a differenza dell’epopea descritta dal giornalista americano che fu amico di Lenin e Trotskji, questa volta la classe operaia non è andata all’assalto del Palazzo d’Inverno con le armi in pugno. Tutto all’opposto: non ha mosso un dito per attaccare, preferendo incrociare le braccia in attesa che il sedicente «governo degli operai e dei contadini» scendesse a negoziare con i diretti interessati e riconoscesse i loro fondamentali diritti. Fu la prima breccia nel Muro che iniziò a sgretolarsi sul litorale baltico già nel 1980 con la nascita di Solidarność, il sindacato libero polacco. Nella storia irrompe quel che potremmo chiamare «il fattore W». Come Wałęsa, come Wojtyła, l’uno il fondatore, l’altro il difensore di un nuovo movimento operaio che ben presto sarebbe diventato un movimento di popolo la cui voglia di libertà finirà per contagiare le altre nazioni dell’Europa sovietizzata. Stando lì, sul terreno, si capiva subito che era in corso una rivoluzione, diversa però da tutte quelle che avevamo conosciuto. Chi manifestava contro il regime non si muoveva in forza di un’ideologia, non il liberalismo e neppure il nazionalismo, tanto meno il socialismo sia pure dal volto umano. Si trattava di un movimento di natura etica, per dirla con Józef Tischner, considerato da tutti come il teorico di Solidarność. Il che significa che la lotta per la giustizia sociale e la libertà è già un valore in sé, a prescindere dal risultato, in quanto si fonda sull’esperienza umana della solidarietà. È ciò che ha permesso alla gente di tenere la testa alta di fronte a un potere ottuso e spesso brutale senza nutrire sentimenti di odio e di vendetta e senza cadere nella violenza.

Raccontare tutto questo è stato faticoso ed esaltante: a poco servivano le agenzie che davano scarse notizie, ancor meno le tv della propaganda governativa, Internet non esisteva e occorreva sempre essere sul posto, ma bastava avere gli occhi per vedere e le orecchie per ascoltare, senza nascondere la propria ammirazione e meraviglia. In fondo quel che si richiede a un inviato (insieme con il rispetto della grammatica e della sintassi) è la capacità di stupirsi, altrimenti la narrazione perde forza o scade a puro artificio retorico. «Solo lo stupore conosce», diceva Gregorio di Nissa, una frase che mi sono sentito ripetere tante volte da don Luigi Giussani e che ho scoperto in quegli anni, potrebbe essere il motto che più s’addice al mestiere di giornalista.

Più di una volta lo stupore si è incrociato con interrogativi, perplessità e scoramenti. Il cammino verso la libertà non è stato una marcia trionfale ma un arrancare faticoso su una strada piena di ostacoli e trabocchetti, un percorso a zigzag con illusorie fughe in avanti e drammatici arretramenti, un movimento nient’affatto lineare compiuto in ordine sparso e con ritmi diversi nei vari Paesi dell’Europa comunista. È quel che descrivo nella prima parte del libro e forse al lettore apparirà come un girovagare senza meta, dai cantieri di Danzica al Caffè Slavia di Praga, dagli incontri in Vaticano con Giovanni Paolo II a quelli con un pastore luterano pacifista a Berlino Est. Un filo conduttore in realtà esiste e diventerà evidente nel 1989, l’anno del cambiamento epocale cui è dedicata la seconda parte. Nel giro di pochi mesi un’incredibile accelerazione spazza via uomini di marmo e dittature di cemento armato. Dalla Polonia all’Ungheria, dalla Germania orientale alla Bulgaria, dalla Cecoslovacchia alla Romania, con un impressionante «effetto domino» cadono uno dopo l’altro i vari tasselli dell’impero sovietico. Una sequenza mozzafiato che neppure il più geniale autore di fantapolitica avrebbe mai potuto immaginare. L’Europa centro-orientale esce finalmente dal cono d’ombra in cui l’aveva ricacciata mezzo secolo di Guerra Fredda. La Mitteleuropa, «sequestrata e vampirizzata dall’Urss», secondo la famosa definizione di Milan Kundera, riacquista sangue e vigore e ritrova il suo posto nella storia.

Quella del 1989 è una rivoluzione pacifica dove, è stato detto, «non si è rotto neanche un vetro», a eccezione della sanguinosa rivolta in Romania (che fu in realtà un colpo di stato travestito da sommossa popolare). C’è chi, come lo storico François Furet, vi ha visto il compimento della Rivoluzione francese di due secoli prima e chi, come lo storico e militante di Solidarność Bronisław Geremek, l’ha definita «l’esatto contrario del 1789, una rivoluzione contro l’idea giacobina e i suoi metodi violenti sfociati nel Terrore». Lo studioso e giornalista inglese Timothy Garton Ash, profondo conoscitore dell’Est Europa cui ha dedicato vari saggi, ha inventato il termine «refolution», a indicare una miscela di rivoluzione e riformismo che ha caratterizzato i movimenti dell’89. Mentre lo storico Krzysztof Pomian nega decisamente che si possa parlare di rivoluzione perché tutto è successo nel quadro di «una transizione negoziata», a conferma che quando un regime totalitario si apre al dialogo non diventa un po’ più democratico: semplicemente si scava la fossa per la sepoltura. Ma probabilmente la definizione più azzeccata è quella del dissidente divenuto presidente della Cecoslovacchia Václav Havel che, da laico, non ha esitato a parlare di «miracolo». Al di là di questo fugace dibattito va segnalato che mancano ancora studi storici degni di nota sulla fine del comunismo in Europa. Rari i libri sull’argomento, al confronto con l’immensa mole di saggi e scritti sui totalitarismi della prima metà del secolo scorso. Anche per questo, in mancanza di meglio, ho pensato che fosse utile e doveroso raccontare cos’è stato e come si è sviluppato quello straordinario movimento dal basso che poco meno di venticinque anni fa ha rovesciato la piramide di un potere assoluto e dispotico cambiando faccia all’Europa e al mondo.

Ripensare al 1989 è tutt’altro che un esercizio rievocativo nella situazione attuale dove ogni giorno, a livello planetario, siamo confrontati a movimenti di protesta dal basso, espressione di una società civile che non si riconosce più nei partiti e nelle istituzioni tradizionali. Il riferimento è venuto spontaneo davanti alle «primavere arabe» del 2011, un atto liberatorio collettivo che ha spezzato le catene della «mente prigioniera» (per dirla con le parole del grande scrittore polacco e premio Nobel per la letteratura Czesław Miłosz) provocando la caduta dei regimi autoritari in Tunisia e in Egitto. Purtroppo, come ho potuto constatare di persona, i giovani di piazza Tahrir non hanno saputo prendere esempio da quanto successo nell’Est Europa illudendosi che la rivoluzione, generata nello spazio virtuale del web, avesse trovato i suoi leader nei blogger e potesse sopravvivere grazie ai social network. Internet è un formidabile strumento di comunicazione ma non è sufficiente per creare un soggetto politico. «Abbiamo innaffiato il deserto ma non siamo stati capaci di far crescere la pianta», è la sconsolata ammissione che ho raccolto qualche mese più tardi da coloro che avevano contribuito alla caduta di Mubarak senza però riuscire a ottenere un governo liberal-democratico. Eppure la leggenda postmoderna secondo cui Internet è sinonimo di democrazia sembra resistere, anche in casa nostra. Chi oggi vive di antipolitica farebbe bene a leggere quel che ha scritto a questo proposito Václav Havel nel suo Il potere dei senza potere, uno dei testi che ha ispirato la Rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia: «Il cambiamento delle strutture deve partire dall’uomo, dal suo rapporto con sestesso e con gli altri». Per l’intellettuale boemo l’unica grande risorsa contro il potere è un io che ha scelto di vivere nella verità. Non basta indignarsi per quel che sta fuori, occorre guardare dentro di noi per scoprire «l’impensato della politica», come spiegava nel 2005 l’allora cardinale di Parigi, Jean-Marie Lustiger, parlando di Solidarność, «un movimento che ha saputo far emergere la realtà dell’esperienza umana nella sua dimensione integrale, sempre ignorata dall’ideologia marxista». E continuava: «Quel che mi lascia un gusto amaro in bocca è il fatto che, nell’era della globalizzazione, esiste lo stesso pericolo di misconoscere il reale della condizione umana e della sua dignità a beneficio delle nuove ideologie dominanti». La riscoperta della propria dignità è la condizione fondamentale per una rivoluzione non violenta. Non solo nelle azioni ma anche nelle parole. L’estremismo verbale, l’insulto, l’attacco volgare, alla lunga generano odio e spirito di vendetta. «Noi non abbiamo bisogno di nemici per sentirci più grandi e più forti: il nostro movimento parla con tutti e non è contro nessuno», scriveva padre Tischner nella sua Etica della solidarietà, un vademecum indispensabile per chiunque voglia mettere in atto una rivoluzione non violenta. L’io cosciente della propria forza morale non teme il dialogo. Chi ha a cuore la dignità e la verità è disposto a negoziare su tutto il resto, anche con il peggior nemico. Così nel 1989 si è messo fine al comunismo. Un metodo che può valere anche per le nostre imperfette democrazie.



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Luigi Geninazzi
(n. 10, ottobre 2013, anno III)



Luigi Geninazzi, giornalista e scrittore, è esperto di politica internazionale. Per il settimanale «Il Sabato» e per il quotidiano «Avvenire» ha seguito le vicende nelle aree più calde del mondo, con una particolare attenzione all'Europa dell'Est. Ha ricevuto il Premiolino nel 1980 e il premio «Europa per il giornalismo» nel 1990. Per i suoi articoli su Solidarnosc gli è stata conferita nel 1995 la Croce di Grand'Ufficiale della Repubblica di Polonia, uno dei più alti riconoscimenti assegnati dal governo di Varsavia a un cittadino straniero.