Cesare Pavese, «un greco del nostro tempo»

L’opera di Cesare Pavese, col passar degli anni, ha assunto i tratti di uno splendido palinsesto che invita i suoi interpreti a raschiarlo per scoprire significati nuovi, nuove sfaccettature, lati nascosti e finora poco analizzati dalla critica o addirittura inosservati. Il fatto è strano perché i suoi scritti non sono affatto «seducenti» come le meravigliose parabole di Italo Calvino oppure gli esperimenti postmoderni di Alessandro Baricco e non possono competere in ciò che riguarda le vendite con gli ultimi romanzi spaghetti di Umberto Eco o con la paraletteratura di un rozzo imbrattacarte come Camilleri. Stando alle preferenze delle case editrici italiane di oggi, possiamo supporre senza tema di smentita che Pavese, in questa nostra bizzarra epoca, avrebbe incontrato terribili difficoltà nell’affermarsi come scrittore e saggista. Il suo decollo intellettuale sarebbe stato molto problematico e riscuotere consensi una cosa  meramente impossibile.


Un «Osservatorio permanente sugli studi pavesiani»

Per fortuna, non c’è Paese al mondo in cui non si facesse vivo proprio al momento giusto uno degli adepti segreti di Don Chisciotte. Succede questo soprattutto quando in un Paese s’instaura un clima di marasma culturale. Ovviamente, Italia annovera parecchi seguaci della filosofia loca ma generosa del Cavaliere della Mancha e uno di essi è proprio il poeta e critico letterario Antonio Catalfamo, cultore di Letteratura Italiana all’Università di Cassino. A partire dal 2001, con una tenacia da vero umanista, il professore Catalfamo coordina  l’«Osservatorio permanente sugli studi pavesiani nel mondo», costituito per sua iniziativa e avente sede nella casa in cui nacque Pavese a Santo Stefano Belbo. L’Osservatorio opera all’interno del CE.PA.M. (Centro Pavesiano Museo casa natale) e grazie ai suoi collaboratori – docenti universitari e critici provenienti da vari Paesi – riesce a monitorare il panorama letterario internazionale al fine di scoprire e pubblicare nuovi studi focalizzati sull’opera di Cesare Pavese. Le rassegne di saggi si succedettero a cadenza annuale e di recente è apparso il dodicesimo volume, Cesare Pavese, un greco del nostro tempo [1], sempre a cura di Antonio Catalfamo, come i precedenti undici.


Un greco del nostro tempo

In questo volume il discorso gira intorno alla ‘grecità’ di Pavese, il cui interesse per quella civiltà, per la letteratura, la filosofia e la religione degli antichi greci è vivo in varie pagine del Mestiere di vivere e in una parte del suo epistolario. C’è in Pavese la volontà e la voluttà del nosce te ipsum, dello scoprir e scolpir se stesso in vista di una severa autocostruzione, un po’ all’antica, sulla scia della complessa areté,  ripresa  nella nozione latina della virtus. Alla maturità, in opere come I dialoghi con Leucò ossia La luna e i falò, lo scrittore nato nelle Langhe piemontesi allargherà il quadro dei suoi interessi in un tentativo mitopoietico che struttura forse i suoi migliori testi.
Quest’apertura verso la religione e la letteratura della Grecia Antica trova espressione persino nella sua fruttuosa attività di consigliere dell’editore Einaudi come ce lo dimostra Antonio Catalfamo nel suo saggio intitolato Cesare Pavese, le varie dimensioni del mito [2]. Pavese riuscì a convincere Einaudi a pubblicare nel secondo dopoguerra nuove traduzioni dei due grandi poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, scegliendo come traduttrice Rosa Calzecchi Onesti, una ex-allieva di Mario Untersteiner, noto professore di letteratura greca e studioso delle religioni. Questi aveva recensito favorevolmente – fu, sembra, il solo a farlo a quel momento – I dialoghi con Leucò. Pavese fece varie suggestioni alla giovane traduttrice seguendo da vicino il suo lavoro e dando periodiche occhiate di controllo soprattutto nel caso dell’Iliade, il poema apparso per primo. Risultò in tal modo una traduzione piuttosto letterale, molto ʻpavesianaʼ e con tutto ciò, paradossalmente, più fedele per rapporto alle precedenti imprese allo spirito del testo classico. Né poteva essere diverso l’esito perché lo scopo di Pavese era, come giustamente osserva Catalfamo, quello di ristabilire l’autenticità dell’opera omerica sottoposta lungo i secoli a non pochi travisamenti di stampo neoclassico. La trasposizione delle imprese di Achille e dei suoi compagni in un retoricume ampolloso e artificioso pare abbia raggiunto l’apice nel ventennio fascista.


Pavese, Omero e oltre

La traduzione dell’Iliade firmata dalla Calzecchi Onesti esce per i tipi dell’editore Einaudi nel 1950 con una prefazione dello stesso Pavese in cui A. Catalfamo individua due versanti, uno metodologico, l’altro antropologico e collegato alla nozione di specificità culturale. Ovviamente, Pavese butta in aria i canoni traduttivi esistenti a quei tempi e riesce a imporre un’ottica del tutto nuova basata sull’acribia filologica e il rispetto, diciamo, dell’anima del testo originale. Pavese afferma nella prefazione che «qualunque traduzione è una messa in scena che adatta un testo perlomeno a un nuovo clima verbale e lo colloca in un gioco di riflessi e di richiami, di sopraggiunte oscurità e insospettate possibilità d’echi, che è sempre un travestimento. Ma sappiamo bene altresì che altro è accontentarsi della generica suggestione di un testo e tradurla secondo un secolare schema oratorio, altro accostarsi alla lettera viva armati di una sensibile e attenta filologia, come di una bilancetta, che dovrà scrupolosamente dosare l’oro della poesia». Egli è convinto che i poemi omerici sono stati fraintesi da vari traduttori che fallirono nel trasporre in italiano il loro «irriproducibile accento – quell’arcaico impasto di rigidezza quasi ieratica e d’immediata suscettibilità alle cose, quell’incontro di un’ingenuità quasi stupefatta (il pascoliano fanciullino) con una virile e quasi ironica esperienza dei “vizi” e del “valore” umani»[3].


Le dimensioni del mito nell’opera di Pavese

Un altro aspetto da notare è reperibile nel saggio di Antonio Catalfamo che ruota intorno alle dimensioni del mito nel’opera pavesiana: il modo originale in cui Pavese rappresenta la dicotomia mythos-logos. Lettore attento di un libro sottile di Untersteiner, Fisiologia del mito, Pavese, crede Catalfamo, sembra accettare la visuale di questo studioso secondo il quale il mito greco si sarebbe evoluto nei secoli da posizioni magico-religiose a posizioni razionali. Infatti, nel caso della filosofia creativa di Pavese, si potrebbe parlare di un ampliamento della coscienza mitica che poi felicemente si apre a esperienze razionali. Non a caso il nostro studioso scopre nel Mestiere di vivere (pagina dell’11 dicembre 1947) questa riflessione imbevuta di ‘fisiologia’ untersteineriana: «Il fascino dei miti greci nasce dal fatto che posizioni inizialmente magiche, totemiche, matriarcali, iniziatiche vennero – per la strenua elaborazione del pensiero cosciente avvenuta nei secoli X-VIII a. C. – reinterpretate, tormentate, contaminate, innestate, secondo ragione, e così ci sono giunte ricche di tutta questa chiarezza e tensione spirituale ma tuttora variegate di antichi simbolici sensi selvaggi» [4].
Sta qui tutta la ‘teologia’ pavesiana che trasfonde sangue concettuale e forza lirica ai Dialoghi con Leucò. Antonio Catalfamo ha individuato nel corpo di questa affascinante opera un gruppo di sette componimenti  (tra cui L’isola, il cui protagonista è Odisseo che rifiuta la possibilità di un vivere eterno offertogli da Calipso, Le Muse e Gli dèi), tutti «dominati dal contrasto fra il “mondo degli dèi”, cioè dell’immortalità e dell’eterna felicità, e il “mondo degli uomini”, cioè della vita finita e della sofferenza. Pavese preferisce all’esistenza immobile e vuota degli dèi la vita sofferta, ma pugnace, degli uomini. Assistiamo ad una vera e propria esaltazione della dignità e della nobiltà dell’uomo, che, pur essendo consapevole del suo destino di morte e della sua soccombenza inevitabile di fronte alle leggi di natura, continua a lottare» [5].


Impegno e distacco intellettuale

Dopo tante e tante letture trascendentali dei Dialoghi, Catalfamo riesce a proporci un tema piuttosto poco messo in rilievo dalla critica e cioè l’impegno per gli altri. Non che avessimo a che fare con un’opera apertamente militante, però, osserva il saggista, non si può tralasciare affatto quest’accentuazione pavesiana del «rapporto solidale con gli altri uomini, che attendono le nostre parole e i nostri atti fraterni» [6]. Nel dialogo Gli uomini, per esempio, Giove, il padre degli dèi, vuol lasciare l’Olimpo per andare a farsi, «uomo tra gli uomini» poiché «soltanto vivendo con loro e per loro si gusta il sapore del mondo» [6].
Ridurre a chiarezza il mito e farlo intelligibile agli umani è un ruolo che spetta al poeta. Non a caso, sottolinea Catalfamo, il fatto che Pavese esalta come Foscolo la forza rivelatrice della poesia, porta aperta verso l’eternità, come si vede ne Le Muse, dove «Esiodo insiste sulla funzione demiurgica della parola, che traduce il mito in “logos”, illuminando l’esistenza umana e portando conforto e consolazione» [7].
Le rassegne di studi pavesiani che appaiono ormai da più di un decennio sotto la stretta coordinazione di Antonio Catalfamo, visto lo spirito di tolleranza metodologica e di pluralità di prospettive in cui vengono costruite dal loro curatore, diventano spesso spazio di un originale agone accademico da cui non di rado nascono fertili polemiche  implicite. Come tale, mi si permetta, come se fossi in un’agora virtuale, di esprimere come al solito qualche punto di vista discorde riguardante la sua decodificazione   dell’opera pavesiana e nella fattispecie dei Dialoghi con Leucò. In fin dei conti, quest’ottica dell’impegno che si possa evincere in qualche misura da certi testi apparsi su «L’Unità» non si confà del tutto alla figura intellettuale di Pavese, scrittore poco canonico il quale risente il bisogno di rifugiarsi in uno spazio culturale precristiano o pagano che dir si voglia da dove torna poi con le braccia cariche di bottino ʻselvaggioʼ, con lo spirito ricco di sensi mitici e slanci archetipici. L’addomesticar poi questa sfuggente preda sottoponendola al controllo di una facoltà che potremmo chiamare ragione creativa mi pare di essere una tappa ulteriore, ma prima e seconda fase del processo s’integrano vicendevolmente. Credo (anzi, spero!) che Pavese non voglia essere un intellettuale organico e si trovi piuttosto alla ricerca di una sorta di pienezza gnostica, raggiungibile solo da esseri umani che possiedono un’acuta coscienza del sacro, molto viva mi pare nelle sue migliori poesie e nei suoi capolavori narrativi tra cui certamente La luna e i falò. Per questo forse la sua opera si configura più come lacerante mitopoiesi e non tanto come sfruttamento a lume di ragione di archetipi e miti. Perfino nel jet set, nel mondo chic – ho cercato di spiegar questi aspetti in un mio saggio che fa parte di questa «Dodicesima rassegna» [8] – Pavese scopre impulsi tribali e forme rituali di ostracismo per quanto laicizzati fossero.


«Un mistico di tuttte le religioni»

Un appoggio inaspettato alle mie ipotesi ho trovato in una breve e commovente evocazione compilata dall’accademico Franco Ferrarotti per quest’ultima spettacolare Rassegna numero dodici. Conobbe Pavese durante la guerra, legarono amicizia e il ritratto che gli fa a distanza di anni contiene in sintesi tutta la complessità di quello spirito libero, inafferrabile: «In Pavese, posso dirlo ora con una chiarezza che all’epoca mi era negata, non c’è mai stato nulla di veramente marxistico, in termini filosofici o politico-partitici; non ha mai creduto nei poteri organizzativi automatici della storia. A suo modo, era un uomo profondamente religioso ossia, oserei dire, un mistico di tutte le religioni, vale a dire di nessuna, ma senza alcuna boria di “libero pensatore”, ma ben al contrario, come agevolmente si vede specialmente in Dialoghi con Leucò e in La luna e i falò, preso e affascinato dal mistero dell’universo» [9].
È chiaro che un pensatore come quello rievocato da Ferrarotti non poteva assumere un ruolo di docile intellettuale pronto a suonare il piffero della propaganda di partito e di trasformare la sua opera in veicolo di non so quale ideologia. Ha intuito correttamente Jacqueline Spaccini [10] un fatto capitale: Pavese non voleva e non poteva rinunciare al suo status di intellettuale appartato e un po’ scontroso per  ʻandare verso il popoloʼ come si diceva allora in certi ambienti. Il suo rapporto con gli altri fu sempre mediato dalla cultura. Vi trovò strumenti adatti alla lettura dell’effigie dei suoi contemporanei e, utilizzandoli in modo originalissimo, si sforzò di decrittare il messaggio in cifra che il mondo non cessava di trasmettergli. Dobbiamo forse ringraziare il Cielo per il fatto che Pavese rifiutò di divenire uno scrittore megafono pronto a vagheggiare in mezzo ad un indefinibile popolo una torbida riscossa. Ha scelto di militare a modo suo scrivendo, tra l’altro, versi fragili pieni di segreta speranza come sono i seguenti, che riporto alla chiusura di queste sparse considerazioni:

                        «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
                        questa morte che ci accompagna
                        dal mattino alla sera, insonne,
                        sorda, come un vecchio rimorso
                        o un vizio assurdo».


Hanibal Stănciulescu
(n. 9, settembre 2012, anno II)

NOTE

1. Cesare Pavese, un greco del nostro tempo, Dodicesima rassegna di saggi internazionali di critica pavesiana, a cura di A. Catalfamo, I Quaderni del CE.PA.M., Santo Stefano Belbo, 2012.
2. A. Catalfamo, Cesare Pavese, le varie dimensioni del mito Dialoghi con Leucò e oltre in Cesare Pavese, un greco..., cit., pp. 15-57.
3. In A. Catalfamo, op. cit., p. 47.
4. In op. cit., p. 30.
5. Ivi, p. 41.
6. In op. cit., p. 42.
7. Ivi, p. 43.
8. H. Stănciulescu, Tribalismo sofferto e sconfitta esistenziale nella trilogia La bella estate, in Cesare Pavese, un greco..., cit., pp. 123-133.
9. Franco Ferrarotti, Con Cesare Pavese al santuario di Crea, in C.P., un greco del nostro tempo, cit., pp. 59-64.
10. J. Spaccini, Le ragioni di Pavese. Lo scrittore e la letteratura engagée, in C.P., un greco..., cit. pp. 143-156.