Marius Oprea sfida la «tortura del silenzio» sulle vittime del comunismo

Il comunismo in Romania (e non solo) ha fatto tanti, troppi morti. Qualcuno se ne ricorda? Di più e peggio: sappiamo almeno dove poter andarli a piangere? Molto spesso no. Marius Oprea è un archeologo unico nel suo genere. Dissidente all’epoca di Ceaucescu e successivamente fondatore dell’Istituto per la ricerca sui crimini del comunismo, setaccia la Romania alla ricerca di storie mai dimenticate ma da decenni passate sotto silenzio, a testimonianza delle quali oggi resta poco. Restano le ossa di vittime assassinate dalla Securitate, la polizia politica rumena, e sepolte poco lontano dai villaggi come monito. Rimangono i resti dei vescovi e dei sacerdoti greco-ortodossi rinchiusi e martirizzati. Resta una storia della Romania quasi sconosciuta tutta da riscrivere. Dall’incontro di Oprea con Guido Barella – giornalista de Il Piccolo di Trieste – sono nate un’amicizia e una stretta frequentazione, ma anche l’occasione per raccontare una storia terribile che affonda le sue radici nella storia dell’Europa e della follia dei totalitarismi. La possiamo leggere nel libro di Guido Barella, La tortura del silenzio (San Paolo, Milano 2014), recentemente tradotto in romeno (Corint) e lanciato con grande diffusione nazionale dal quotidiano «Adevărul». Ne pubblichiamo alcuni stralci, premettendo quanto ha scritto di Marius Oprea il Nobel per la letteratura Herta Müller: «Conosco Marius Oprea per i suoi interventi contro i residui del totalitarismo in Romania. Ho deciso di sostenerlo pubblicamente affinché possa continuare, con i suoi collaboratori, le indagini sui crimini del comunismo».


Da Sibiu a Braşov ci sono appena centocinquanta chilometri. La strada si snoda nel cuore della Romania, al limite meridionale della Transilvania, ai piedi dei Carpazi, le montagne del conte Dracula. Marius Oprea sta tornando a casa. Da solo. Ha lasciato la moglie e il figlioletto – tre anni e il ciuccio ancora in bocca – all’ultimo controllo documenti dell’aeroporto. Li ha visti scomparire al varco del metal detector oltre il banco d’imbarco: quel volo per la Germania dovrà cambiare le loro vite.
L’aeroporto di Sibiu è un parallelepipedo lungo e basso, tutto cemento e vetrate, uguale a chissà quante altre centinaia di aeroporti in ogni parte del mondo, ad eccezione di alcuni improbabili inserti color carota che ornano le pareti all’interno. Una sezione più alta fa da torre di controllo.
Un pugno di aerei parte ogni giorno. Qualche volo interno per Bucarest (sarebbero meno di trecento chilometri ma in auto, senza autostrade, ci si mette un’eternità), e poi per la Germania, soprattutto, ma anche l’Austria e l’Italia. Quel giorno del 2007 sul pannello luminoso il volo per la Germania è annunciato in orario. Tra i passeggeri con il biglietto anche quella mamma e quel bimbo.
Marius li ha accompagnati da Braşov, dove vivono. Dove vivevano. Il lungo marciapiede di fronte all’aeroporto è pieno di persone, le aiuole fiorite là in mezzo e poi, ancora oltre, il parcheggio. Qua le partenze, più avanti gli arrivi. I taxi accostano, si scaricano i bagagli, gli autisti aspettano il pagamento e poi via, ripartono veloci. Il marciapiede è affollato. Uomini d’affari con il computer sotto braccio, emigranti che vanno e che tornano, famiglie che si dividono in lunghi abbracci tra battute, scherzi e qualche lacrima di arrivederci. Valigie, carrelli, l’ultima sigaretta perché si sa, fino all’arrivo non si potrà più fumare. L’ultima sigaretta anche per cercare di stemperare la tensione: per la famiglia Oprea il check-in apre le porte di un’altra vita sia per Marius che resta, sia per sua moglie e per il loro figlioletto che partono.
Marius e la moglie – le valigie sul carrello, il bambino in braccio a papà – ormai hanno deciso. Ne hanno parlato tanto, quasi ogni sera dopo il lavoro. Hanno scelto e così deve andare, in fondo non ci sono altre possibilità. Gli occhi, i loro occhi, li tradiscono. Solo per il bambino è tutto un gioco: viaggiare su un aereo, figurarsi, è un divertimento che più grande non c’è. Papà e mamma, però, sanno che non sarà soltanto un altro Paese nel quale far crescere il loro bimbo. Loro sanno che sarà un’altra vita da condurre lontani, separati.
Dopo il check-in l’ultimo sorriso attraverso il varco del controllo di polizia. Marius abbassa la testa e torna al parcheggio. La macchina, il ritorno a casa, a Braşov. Da solo. Gli occhi sulla strada, la testa e il cuore rimasti in aeroporto.
(…)

Da quando il comunismo è stato cancellato dalla rivoluzione del 1989, Marius Oprea si è scelto un mestiere molto particolare. Lui, che di formazione è archeologo, ha voluto continuare a scavare nel passato della Romania, ma in quello recente, per riportare alla luce i crimini della Securitate, le fosse comuni senza nemmeno una croce, tombe delle vittime della polizia segreta del regime che aveva il compito di mantenere in piedi quello Stato – per usare le parole della scrittrice romena premio Nobel Herta Müller – «che si chiamava dittatura e che era un’impalcatura fatta di desolazione e di angoscia». Un mestiere che è una missione scomoda anche se, in quel 2007, la Romania ha ufficialmente voltato pagina ormai da diciotto anni e la democrazia dovrebbe essere già matura. Dovrebbe, perché la sua missione gli ha procurato solo nemici, minacce e violenza, fino alla decisione di mettere la moglie e il figlio al riparo, lontano, in Germania. E mentre la macchina corre verso l’aeroporto di Sibiu, mangiando chilometri appena percorsi, il pensiero vola a quelle volte in cui la moglie è stata picchiata per convincerlo a lasciar perdere, a tornare a occuparsi della preistoria, la sua passione da universitario.
La donna e il bimbo sono stati bloccati dopo l’ultimo controllo. (…)

La donna e il bambino partiranno. L’aereo decollerà lasciando, oltre i finestrini, le montagne e i boschi che Marius ama tanto, nei quali riesce a trovare rifugio e pace quando non ce la fa più e ha bisogno di riposo. La nuova casa dei suoi cari sarà in Germania, e non sarà una soltanto. Ce ne saranno tante, almeno quattro nei primi anni e sempre in paesini diversi. Così come i cambi di identità, sempre sotto la protezione della polizia. Una lunga fuga da un passato che non è mai passato.
Sono trascorsi quasi vent’anni dalla rivoluzione che ha cancellato la dittatura comunista in Romania, eppure c’è una famiglia esule in Germania, nella stessa condizione in cui, esattamente vent’anni prima, nel 1987, con Ceauşescu ancora al potere, visse Herta Müller, la scrittrice romena di etnia tedesca che nel 2009 avrebbe vinto il premio Nobel per la letteratura. La Müller aveva dovuto lasciare «un Paese che il regime aveva fondato sul disprezzo degli esseri umani, programmando la paura e creando cimiteri», e quella moglie e quel bimbo fuggono, in fondo, per lo stesso motivo.
Anche se la dittatura non c’è più già da un pezzo.
Anche se siamo ormai in un altro secolo, anzi, in un altro millennio.
Anche se i manifesti affissi in città ricordano che Sibiu quell’anno, il 2007, è una delle capitali europee della cultura. Ma quell’ultimo episodio all’aeroporto dimostra che in fondo la «programmazione della paura» non è mai stata messa in archivio perché cos’è quella scena da film di James Bond se non un avvertimento, un modo fin troppo esplicito per dire «sappi che noi sappiamo, ti controlliamo e ti controlleremo sempre, anche se ve ne andate all’estero»?
«Quando nel 1991 ho iniziato a svolgere le ricerche sui delitti perpetrati dalla Securitate, ho cominciato a riflettere su cosa è successo a noi come popolo romeno, a noi come individui romeni. E adesso la missione, mia e degli amici che con me collaborano, è far sì che i resti delle vittime del regime possano avere almeno la benedizione da parte di un sacerdote e possano finalmente riposare in pace all’ombra di una croce», così Marius Oprea spiega la sua scelta di vita, lui che nel 1989, l’anno della rivoluzione romena, aveva appena venticinque anni e che ora ha i capelli precocemente imbiancati. Lui che parla con gli occhi anche se tace, e i suoi silenzi sono sempre carichi di tensione ed emozione. Lui che, serio e ostinato, dopo la prima laurea, nel 2002 ha conseguito anche un dottorato di ricerca proprio in storia della Securitate con una tesi intitolata Il ruolo e l’evoluzione della Securitate (1948-1964), «per essere legittimato nel lavoro che svolgo dai miei titoli di studio e diventare così un punto di riferimento a livello accademico».
In realtà, nonostante i titoli universitari, la sua ʻmissioneʼ in Romania resta scomoda, anche se viene svolta sotto la supervisione delle procure militari. Anche se la polizia è sempre presente quando Marius e la sua squadra di archeologi scavano nei punti indicati loro dalla memoria popolare e se il governo ha creato, nel 2005, l’Istituto per l’investigazione sui crimini del comunismo in Romania affidandolo proprio a lui.
Funzionava e funziona perfino troppo bene questa ʻmacchina di ricercaʼ, tanto che Marius Oprea sui giornali si è conquistato la fama di «cacciatore dei securisti», perché così erano e sono chiamati in Romania quanti hanno fatto parte della polizia segreta, la Securitate appunto, che nei lunghi anni della dittatura comunista, dalla fine della seconda guerra mondiale al 1989, tutto sapeva, tutto controllava, tutto ordinava, tenendo il Paese sospeso in una bolla di irrealtà, giacché in quella Romania nulla poteva essere così come davvero era. «Cacciatore di securisti»... In realtà la sua missione era ed è un’altra: scoprire, più che i «securisti», i crimini compiuti dalla Securitate e offrire ai morti una degna sepoltura, una tomba con una croce dove i parenti possano recitare una preghiera.
«In Romania», spiega Marius Oprea, «ancora oggi non c’è una vera volontà politica di indagare a fondo su questi crimini, perché non si vuole che quanto accaduto sia riconosciuto per quello che è: un martirio. Non si vuole ammettere che si ha a che fare con un olocausto, un crimine contro l’umanità. E non lo si vuole fare per un motivo molto semplice: in Romania c’è un oggettivo problema di continuità, i genitori di chi comanda oggi sono coloro che comandavano ieri. Per me però resta il fatto: un crimine contro coloro i quali difendevano la libertà e lottavano contro il comunismo in Romania non è affatto differente da quello commesso dal nazismo contro gli ebrei. Non è un problema di stella di Davide o di croce: le ossa sono tutte uguali. Sono ossa di uomini, sono ossa di martiri. E non è nemmeno un problema di numeri, più o meno grandi. I martiri non sono statistiche, i martiri sono persone: ogni singolo numero è un uomo e ogni uomo ha la sua storia. Non importa quante siano state le vittime, importa l’atto compiuto da parte della Securitate, ovvero da parte di un’istituzione dello Stato: un pezzo dello Stato che ha tradito i suoi cittadini. E io vivo con la coscienza che comunque non potrò mai fare giustizia per tutti».
Sì, funzionava e funziona la ʻmacchina di ricercaʼ avviata da Marius Oprea, con il quale collaborano colleghi archeologi per il lavoro sul campo, ma anche medici legali per le analisi dei resti che vengono dissotterrati e perfino generali dell’esercito oggi in pensione che scavano negli archivi, spulciando i documenti più segreti di Bucarest. Dava e dà fastidio tutto questo lavoro, anche se i «securisti» possono sonnecchiare tranquilli perché nessun procuratore, civile o militare che sia, li andrà mai a cercare: per la legge romena queste morti sono classificate come omicidi, ma come omicidi ʻcomuniʼ ormai prescritti, essendo passati più di venticinque anni. (…)

Al momento i resti riportati alla luce ai quali è stata offerta una cristiana sepoltura sono quelli di quasi cinquecento persone, una goccia nel mare se si pensa che Marius Oprea sta ora lavorando a un elenco nominale delle vittime del regime ed è già arrivato a quota 617.816. Secondo altri documenti – ancora in fase di analisi – si toccherebbe quota due milioni. Due milioni di persone perseguitate e morte per mano diretta o indiretta del regime.
Nonostante questo, Marius Oprea dà fastidio e «la programmazione della paura» continua ad essere praticata. La vita di Marius e della sua famiglia ne è la prova.


Marius Oprea, l'archeologo delle «vite dimenticate» Pietà e memoria: custodire il sacrificio dei morti per la libertà

 

Guido Barella e Marius Oprea Bucarest, marzo 2015: presentazione del libro in romeno





Guido Barella
(n. 4, aprile 2015, anno V)