«Cecilia sono io». Geo Vasile su Stabat Mater di Tiziano Scarpa

Romanziere, drammaturgo e poeta, Tiziano Scarpa (nato a Venezia, 1963) ha pubblicato parecchi romanzi e volumi di racconti presso importanti case editrici, Einaudi, Feltrinelli, Rizzoli, Mondadori: Occhi sulla graticola (1996), Venezia è un pesce (2000), Cos’è questo fracasso (2000), Cosa voglio da te (2003), Kamikaze d’Occidente (2003), Corpo (2004), Groppi d’amore nella scuraglia (2005), L’inseguitore (2008), Stabat Mater (2008), romanzo che ha vinto nell’estate del 2009 due premi d’altissima risonanza nazionale e internazionale: Supermondello e Strega. Tiziano Scarpa è inoltre autore di ragguardevoli radiodrammi e testi teatrali. Nel 2008 è uscita anche una sua antologia di poesie: Discorso di una guida turistica davanti al tramonto e recentemente un altro romanzo, Le cose fondamentali, 2010.



Stabat Mater
e la Venezia del XVIII secolo

Il volume al quale mi riferisco, cioè Stabat Mater, la cui edizione in lingua romena (Ed. Ex Ponto, Constanta, 2010, 167 p.) ho avuto l’onore di presentare nell'ambito di una serata culturale dedicata a Tiziano Scarpa dall’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, riesce ad essere sull’onda dei più letti libri in questo momento, almeno in Europa: le biografie romanzate (documenti più fiction) di alcuni personaggi tipo Marilyn Monroe, Maria Callas, il marchese de Sade, Petrarca ecc. In questo caso si tratta di Antonio Lucio Vivaldi (Venezia 1678 – Vienna 1741), soprannominato il Prete Rosso a causa dei suoi capelli color rame, autore dei celeberrimi concerti conosciuti sotto il nome “le quattro stagioni”, ma anche di lavori di musica sacra, tra i quali un “Gloria in excelsis Deo” e uno “Stabat Mater”, donde il titolo del libro.
Quindi, Stabat Mater è un romanzo storico-psicologico, collocato nella Venezia del XVIII secolo. La parte della protagonista spetta ad un’allieva di don Antonio Vivaldi, personificazione della solitudine, della malinconia, della non-comunicazione, di un tumulto psichico senza posa; i suoi sogni sono deliranti incubi ad occhi aperti nel nero veleno del mare e del buio. La morte può essere, in modo allegorico, la sua stessa collega Maddalena del letto di sopra, diventata ormai la sua confidente, equanime, mite, comprensiva e tuttavia raccapricciante per un effetto horror e nel contempo umano: ricorda a causa degli immaginari neri serpenti attorcigliati nei capelli la Medusa del Caravaggio. Cecilia, bambina abbandonata, suona il violino nell’orchestra dell’orfanotrofio Pietà (divenuto nel XX secolo ospedale e maternità, dove, guarda caso, nacque l’autore Tiziano Scarpa). L’adolescente Cecilia (nome affatto accidentale, dato che santa Cecilia  viene venerata quale patrona della musica) incarna un anonimo essere invisibile dietro le sbarre metalliche che proteggevano i due balconi sospesi della chiesa interna all’orfanotrofio, destinate a occultare agli occhi dei parrocchiani i corpi e i volti delle ragazze-musiciste. Di notte, però, Cecilia lascia il letto per scrivere delle lettere a sua madre che, naturalmente, non aveva mai conosciuta.  


Il diario notturno e la memoria

Il libro si offre quale epico epistolario-diario, quasi monologo di un io narrativo estremamente sensibile. La faglia identitaria, come direbbe Le Clézio, che Cecilia avverte tanto più acutamente nella sua condizione d’orfana, a cui si aggiungono i rigori della convivenza del convento, generano nella sua psiche una sorta d’autismo e alienazione, per non parlare dell’ossessione della morte (vedere i dialoghi con Maddalena) e al tempo stesso la forza di sfidare il proprio statuto tramite immaginazione, raccoglimento e un’insolita indipendenza del pensiero. Cecilia rappresenta l’insonne bisogno di trovare la sua identità, di conquistare l’autosufficienza da tutti i punti di vista. Nata col violino tra le mani, per dir così, allevata ed educata dalle suore nello spirito della musica, diventata ormai una violinista di spicco nel gruppo delle ragazze scelte per esibirsi sui balconi della chiesa, la nostra eroina ha la forza di rendersi conto del loro statuto: “Noi siamo sepolte vive in una delicata bara di musica”. 
La musica, amica e nemica di Cecilia, è mezzo d’espressione e nel contempo reclusione dentro e dietro la quale si nasconde. Tramite il suo diario notturno Cecilia dialoga tanto con sua madre quanto con il suo sentimento della non-esistenza (“appuntamento notturno con la mia nullità”). Attraverso il diario, cioè la memoria, si salva dal nulla. I due argomenti, rifatti nei più minuti dettagli dall’autore del romanzo, vengono inseguiti a pari passo, meticolosamente. La scrittura diventa per Cecilia un’ossessione liberatrice, ma anche vindicatrice, la ricerca della madre ignota sarà in fin dei conti un semplice pretesto, un esercizio mentale intento a dimostrare e nel contempo esorcizzare la propria inesistenza. La nostra eroina è una ipersensitiva, una campionessa d’inenarrabili sogni penosi e al tempo stesso, malgrado la sua inesperienza e naturale ingenuità, una impietosa coscienza analitica, introspettiva, retrospettiva e prospettiva.
Nello spirito notturno di Cecilia, che si manifesta spesso quale travaglio mentale di cui fanno parte anche le allucinazioni, un ruolo speciale tocca all’ossessione della maternità e del parto decaduto nei suoi sogni ad un atto di defecazione dell’escremento (il rigetto del feto accoppiato al serpente suggerendo il biblico abbinamento tra donna, serpente e morte). Sempre lei non esita a commemorare le generazioni di nascituri abortiti e annegati come cuccioli di gatto nei canali della laguna.
Episodi raccapriccianti coesistono con casi e personaggi della vita diurna: le colleghe, le suore, le rare passeggiate in barca delle ragazze, il volto coperto da maschere, i due maestri compositori e professori, don Giulio e don Antonio Vivaldi. Il confronto di questo contenuto traumatico dell’altra vita di Cecilia, quella onirica, con l’orizzonte della propria coscienza, è la condizione stessa della sua guarigione.

Cecilia, la vita della mente e dell'anima

Il romanzo di Cecilia, una forma sistematica di delirio autoscopico, è infatti la vita della sua mente, questo santuario in cui l’esistenza acquista un valore, in cui tornano a galla i desideri e le paure dell’eroina, in cui lei dà libera espressione alle proprie ansietà e chimere, simultaneamente allo svolgersi della vita quotidiana, con la sua inevitabile socievolezza e routine. La fuga dell’eroina dall’orfanotrofio altro non è che l’epilogo dell’aver portato nella luce chiara della coscienza le fobie e i conflitti a  cui è sfuggita, convincendosi della loro vanità. In altre parole, Cecilia, personalità scissa come dicono gli psicologi, riesce a metabolizzare le tenebre e le allucinazioni del subconscio (il secondo io!), trasformandole nella luce del proprio futuro.    
Tiziano Scarpa esplora in Cecilia la forza del personaggio di generare un vortice di immagini simboliche, l’ordine sensorio e quello concettuale essendo integrati nello stesso flusso epico. Il sillogismo tradizionale suscettibile di diventare un pensiero a forma di cerchio cede il posto al ragionamento attraverso immagini. Immagini a grappoli si costituiscono secondo il principio della somiglianza e della contiguità per Cecilia e le sue colleghe musiciste, ciò che in traduzione retorica significa metafora e metonimia. Il montaggio, il “correlativo oggettivo” nella poesia o il flusso della coscienza nella narrazione sono elementi di linguaggi estetici anticipati dalla psicologia tipo Wilhelm Wundt – Alfred Binet.
Malgrado la propria volontà di stare in disparte e di osservare il regolamento dell’orfanotrofio, Cecilia riesce a imporsi al lettore quale personalità peculiare non solo per il suo ingegno artistico di violinista e musicista apprezzata dallo stesso Vivaldi, bensì per il suo carattere da cui deriva una vera Weltanschauung, una vera filosofia sulla vita e sul mondo. Da ritenere è la sua arringa da femminista avant la lettre.
Molte volte, per i suoi ragionamenti addirittura paradossali sul linguaggio, sulla scrittura, sulla fantasia, sul rapporto tra musica e parole, tra interprete e opera musicale, tra musica e natura (la preferenza barocca per mimesis e l’artificio), tra strumenti e voci, tra arte e compositore (autore), siamo disposti a credere che dietro la maschera di Cecilia si nasconde Tiziano Scarpa stesso. Ecco un esempio di ciò che genericamente chiamiamo arte poetica: “Vorrei riuscire a scrivere con la stessa corrispondenza perfetta che c’è fra una nota scritta e una nota suonata”.
Un’altra confidente di Cecilia, è, naturalmente, la Santa Vergine Maria, più precisamente l’icona dipinta dell’altare della Chiesa interna all’orfanotrofio. Alla Vergine dedica lei la musica silenziosa della propria anima, il tumulto di cui si ciba il suo pensiero, per essere poi trasfigurato in melopea. Anche le missive del diario a sua “Signora Madre”, se rilette, ben s’adeguano ad essere trasferite in recitativi per clavicemballo, rielaborati in arie e mottetti. Fosse mai stata questa, ci domandiamo, l’ambizione stilistica di Tiziano Scarpa, di offrirci un libro-partizione di versetti in cui l’immaginario poetico vada a pari passo col flusso della coscienza?

L’incontro con il maestro Vivaldi

Decisivo per l’evoluzione del personaggio Cecilia sarà l’arrivo all’Ospedale della Pietà del maestro compositore Vivaldi. Musicista già esercitata, la nostra eroina sente già la novità dei brani musicali del nuovo professore, compreso quel profumo di donna oppure, serbando le proporzioni, l’alchimia della preparazione delle fragranze, professata dal protagonista assassino-suicida del libro Il profumo di Süskind: ”Don Antonio ha scritto un concerto dove si sente schiumare la nostra indole di donne, presentata in tre fasi, prima la gaiezza, poi il languore, poi di nuovo l’euforia. Quest’uomo tira fuori dai nostri corpi suoni femminili, offre alle orecchie intasate di peli dei vecchi maschi la versione sonora delle donne, la nostra traduzione in suoni, così come la vogliono sentire i maschi”, così gli appunti da vera cronista di questa speciale allieva.
Cecilia osserva oltre le frasi musicali maestosamente inquietanti, anche quel fervore, un pò più scollata nelle parti più allegre e una sconsolata afflizione nella parte mediana di adagio. Ciò la fa avvertire che: “Questa musica è fatta di donna, spargiamo nell’aria il nostro profumo speziato, è questo che vuole don Antonio?”. Le parole di Cecilia fanno sorgere in mente le parole di Lamartine, secondo il quale la musica è la più materiale delle arti: “la musique, le moins intellectuel et le plus sensuel de tous les arts”, giacché immateriale è soltanto il pensiero e nella musica non c’è ne di cosciente. 
Di là dalla sua malefica vocazione, Grenouille, il personaggio del romanziere tedesco, vanta una scoperta, unica e sensazionale, e cioè il profumo biologico di alcuni esseri umani, di solito giovani ragazze, raccolto sul loro corpo subito dopo che venivano uccise, allo scopo di ottenere la “bellezza pura”. È una sorta di caccia all’assoluto che può essere attribuita anche a don Antonio, creatore, secondo la convinzione di Cecilia, di una prodigiosa banca di motivi musicali, di campi gravitazionali sonori e di fragranze melodiche femminili adatti ad ammaliare gli ascoltatori, svegliando in loro non solo sentimenti sublimi bensì “il complesso organico”,  per utilizzare una celebre metafora del nostro poeta George Bacovia.
Maturando, Cecilia si permette severe osservazioni critiche all’indirizzo del prodigioso, prolifico, adulato musicista della città di Venezia e dell’Europa, come per esempio: “È un furbo, un impostore. Contamina la purezza della musica con giochetti da bambini”. Anche se la violinista vive grazie ai concerti di don Antonio emozioni e situazioni inedite e insolite, liberandosi dalla condizione di servitù in cui aveva vissuto fino ad allora, Cecilia non esita a polemizzare con il maestro che, a sua volta, non perde l’occasione di trasmettere a mo d’aforisma all’allieva preferita un suo credo artistico: ”Dobbiamo usare la nostra complicazione per tirarne ingegnosamente fuori la semplicità”.


Un'immagine autentica del compositore veneziano

Tiziano Scarpa ci offre la foto non ritoccata del compositore veneziano, evitando la agiografia, ma anche ciò che avrebbe potuto diventare un melodramma tipo telenovella. Ne è prova l’epilogo del libro e il rifiuto del baratto proposto dallo stesso maestro Vivaldi: la di lei celebrità come violonista e solista in cambio della sua permanenza (“prigionia”) nell’orchestra della chiesa, negandosi ad ogni eventuale domanda di matrimonio da parte di qualche erede di ricconi oppure anziani vedovi, secondo le usanze dell’orfanotrofio: “Tu suonerai la mia musica ancora per tanti anni, da dietro la grata, ma se ci sarà qualcuno che ti chiederà in sposa, tu rifiuterai. Altrimenti non ti farò mai eseguire nulla in pubblico”.
Cecilia, cui la vita le aveva mostrato il suo “volto da Medusa”, con le parole della scrittrice Marisa Madieri, sceglie la terza via. Quella di abbandonare l’Ospedale della Pietà travestita da uomo: s’imbarca su una nave per andare incontro al destino, per prendere la sorte nelle proprie mani. Questo non prima di esibirsi sconvolta da un accesso di quasi pazzia in un concerto di addio, un requiem al capezzale della vita vissuta fino a quel momento, assediata dai fantasmi della morte, della solitudine, delle tenebre, celebrando infatti la vita, la luce, la libertà di un’immaginaria Itaca verso la quale avrà la forza di fare il passo decisivo.
Tiziano Scarpa s’immedesima nel ruolo di Cecilia, così come Flaubert aveva fatto nel caso di madame Bovary, guidandola verso l’inesorabile fato. Ecco perché Tiziano Scarpa può dire tranquillo, sapendo riprodurre a memoria non solo i componimenti di don Antonio, ma anzitutto l’anima della protagonista: “Cecilia sono io” e nel contempo “un autre que soi”. ll realismo psicologico dell’autore in Stabat Mater significa un continuo piegarsi ai corsi e ricorsi psichici dell’eroina, una descrizione epica del flusso della coscienza, dei meandri della sua vita interiore. Un altro merito del romanziere è il fatto di esser riuscito a rendere il naturale omaggio al compositore e al suo concittadino, malgrado i numerosi anacronismi soprattutto nei riguardi della vita e dell’opera di Vivaldi che l’autore stesso riconosce nel capitolo Nota. La fiction aveva pieni diritti di far coinvolgere il lettore; a  nome di questi l’autore chiede l’indulgenza degli storici e dei biografi del compositore veneziano, rabbonendoli per una amorosa, succinta e selettiva bibliografia e discografia.


Geo Vasile
(n. 1, gennaio 2012, anno II)