«Gli occhi di Beatrice» di Horia-Roman Patapievici. Una lettura di Geo Vasile

Horia-Roman Patapievici è una delle personalità più eclettiche della cultura romena dei nostri giorni. Scrittore, fisico, filosofo e saggista, è presente anche in Italia con il suo Gli occhi di Beatrice. Com'era davvero il mondo di Dante di cui l'italianista Geo Vasile propone una lettura. «Aggiungendo il suo non indifferente libro alla sterminata, mondiale biblioteca sull’opera di Dante – segnala il critico – il romeno Patapievici abolisce l’assurdo di un universo incentrato su Lucifero, proponendo una cosmologia elegante e coerente, più adeguata al pensiero dell’illustre poeta».


Horia-Roman Patapievici, una personalità eclettica


Fisico per studi e professione, Horia-Roman Patapievici (n. 1957, Bucarest), è stato tra il 1986 e il 1994 ricercatore scientifico, assistente universitario, direttore di studi (1994-1996). Un cambio radicale di destino che gli ha recato una massima visibilità avrà luogo non appena diventato membro del Consiglio nazionale per lo studio degli archivi della ex-Securitatea del regime Ceausescu (2000-2005). Nel 2005 viene nominato presidente dell’Istituto Culturale Romeno di Bucarest, un’occasione in più di notorietà nelle file dell’intellighenzia e della società civile romena. È al tempo stesso conduttore di una trasmissione televisiva (TVR-cultura) e direttore della rivista „Idei in Dialog”, nonché socio del Gruppo di Dialogo Sociale. Autore di un’opera già consolidata, non solo nel senso della prolificità, bensì nell’aver bruciato le tappe per la sintesi di concetti e stadi riuniti, estetico, etico e religioso dei quali parlava Kierkegaard, ha pubblicato tutti i suoi volumi presso l’editrice Humanitas.  Ecco qualche titolo: Ochii Beatricei. Cum arăta cu adevărat lumea lui Dante (2004, 120 p.), Zbor în bătaia săgeţii (2006, 328 p., in italiano si potrebbe tradurre con Volo alla portata della freccia), Omul recent (2006, 504 p., in italiano L’uomo recente). Quest’ultimo libro vuol essere un punto interrogativo e al tempo stesso un intervento critico sulla modernità e sulla sua pseudomorfosi, la postmodernità. Una radiografia da cui emerge il presentimento doloroso di parecchie perdite tipo riferimenti morali o la vie intérieure, a favore del progresso esteriore, paradossalmente colpevole della relativizzazione dei valori cristiani: un grave sintomo planetario al quale richiamava l’attenzione Giovanni Paolo II e poi il suo successore alla Santa Sede, Benedetto XVI.
Nel volume Despre idei şi blocaje (2007, 248 p.), Horia-Roman Patapievici si dimostra molto preoccupato dai nuovi costumi invadenti tra i due millenni in Romania. Diamo un solo esempio: esprimere e sostenere nuove teorie e idee a scapito dell’immaginario collettivo suscita antipatie a vita, confinando i veri professionisti a soccombere nella bolgia asfissiante dell’astio. L’onestà e la verità vanno soffocate dalle deiezioni del disfattismo, dell’indifferenza (la dantesca accidia) e delle malelingue. Rinomanze innegabili crollano sotto le calunnie dei diversi conciliaboli che manovrano i giochi a seconda degli ordini accolti, sia tramite tacita omissione, sia tramite negazione pubblica, scandalistica, così che questi nuovi concetti hanno un’unica sorte: la fossa comune delle „idee abortite”.


Il libro Gli occhi di Beatrice. Com’era davvero il mondo di Dante?


Per motivi facilmente indovinabili ci fermeremo maggiormente sul libro Ochii Beatricei. Cum arăta cu adevărat lumea lui Dante, tradotto in italiano dall’italianista Smaranda Bratu Elian con i tipi dell’Editrice Bruno Mondadori (Milano 2006, 100 p.) sotto il titolo Gli occhi di Beatrice. Com’era davvero il mondo di Dante?. Dunque, quando noi guardiamo il cielo stellato sopra di noi, dice l’autore, non vediamo il presente, bensì il passato dell’algebra stellare che contempliamo, cosicché ogni sguardo nel profondo del cielo è infatti uno sguardo lanciato nel passato; per quanto il nostro sguardo trapassi le lontananze del cielo, tanto sarebbe più vicino agli inizi dei tempi. La ragione ci obbliga a credere che il limite di visibilità del cielo dovrebbe corrispondere alle origini dell’universo. La cosmologia moderna che non respinge quest’affermazione ci fa pensare subito alla descrizione del mondo visibile fatta da Dante nella sua discesa-ascensione, dato che l’autore della Divina Commedia volgeva i passi costantemente verso Iddio, verso la sorgente e l’origine del mondo, verso la luce intramontabile del cristianesimo di ogni inizio.
Secondo la tesi di Horia-Roman Patapievici, l’universo delineato da Dante nella sua opera fondamentale ha anticipato il mondo di Einstein: una sfera a quattro dimensioni, una ipersfera, la cui superficie sarebbe uno spazio tridimensionale. Gli argomenti interdisciplinari di Horia-Roman Patapievici a sostegno della sua interpretazione riescono a convincere anche il comune lettore. Il mondo quadridimensionale di Dante è frutto poetico e profetico del tentativo di conciliare la cosmologia aristotelica alla visione cristiana: il visibile e l’invisibile, la materia e lo spirito, il corso inarrestabile del tempo e l’eternità. L’autore romeno prende in considerazione, malgrado il loro ingenuo immaginario i disegni che lungo i secoli hanno contornato una visuale dell’universo dantesco. Se ci riferiamo solo all’immagine lasciata da Michelangelo Cactani (1855), a prescindere dal cielo con le stelle fisse, conforme all’armoniosa cosmologia ellenica, appare una specie di inestetica „escrescenza” rappresentante l’Empireo e le gerarchie angeliche intorno a Dio.
Horia-Roman Patapievici non ammette che Dante fosse capace di tale deformazione, tanto più che lo stesso poeta non poteva mancare l’istante unico nella sua vita: immortalare la visione abbagliante di Dio. Lo fa valendosi degli occhi di Beatrice come di uno specchio, anche se l’immagine nello specchio viene rovesciata. Il mondo invisibile diventa così una copia rovesciata del mondo visibile: l’Empireo è dio-centrico, mentre la Terra è demono-centrica, i cori degli angeli girano intorno a Dio con una velocità sempre più grande, mentre i cieli rallentano i loro motori man mano che s’avvicinano alla Terra; l’invisibile sottosta a delle norme in opposizione con quelle del mondo visibile. E per spiegare queste simmetrie, all’autore non rimane altro che concepire l’universo visibile (avendo nel centro la Terra) e l’Empireo (avendo nel centro Dio) come due sfere che condividono la stessa superficie, cioè il „primo mobile”. Possiamo chiamarlo l’equivalente di un’ipersfera, oggetto della geometria di Riemann, adottato da Einstein per descrivere l’universo della relatività dello spazio e del tempo.


L'universo di Dante

Le tre cantiche, l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso, comprendendo trenta canti cadauna, totalizzando quindi 99 canti prefazionati da un canto introduttivo, sono colme di riferimenti storici e scientifici che hanno permesso, tra l’altro, a Giovangualberto Ceri di stabilire con precisione le date di nascita e di morte del più grande poeta della neolatinità: Dante nasce il 2 giugno 1265 e spira nell’esilio a Ravenna a 56 anni (i suoi contemporanei e concittadini fiorentini non gli hanno perdonato l’orientamento pro-guelfo e antipapale), ma anche di fissare l’inizio del viaggio immaginario e iniziatico della Divina nel mese di marzo 1301 e non più l’anno giubilare 1300.
Trattandosi tuttavia di un poema vastissimo, Horia-Roman Patapievici non dimentica, in virtù delle proprie premesse, di invitare il lettore ad apprezzare la bellezza ideatica e poetica del Paradiso, la cantica meno conosciuta della Divina, dato che l’uomo recente, secondo l’osservazione di Umberto Eco, non possiede più il codice teologico e cosmologico dell’uomo medievale tipo Baudolino, il personaggio del suo omonimo romanzo. Alla fine del suo viaggio in Paradiso, Dante si ritrova nell’Empireo, la residenza del Padre Celeste. Ha visto la quintessenza della bellezza e della santità in quel regno della beatitudine; gli manca solo la visione di Dio. Allora San Bernardo rivolge una preghiera alla Santa Vergine, per far sì che si conferisca al poeta anche questo dono della sublime visione che racchiude il mistero della Trinità nonché quello dell’Incarnazione:
„Vergine madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio, // tu sei colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che il tuo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura.// Nel ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore. // Qui se’ a noi meridiana face / di caritate, e giuso, intra i mortali,/ sei di speranza fontana vivace. // Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disianza vuol volar senz’ali. // La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fiate / liberamente al dimandar precorre. // In te misericordia, in te pietate, / in te magnificenza, in te s’aduna / quantunque in creatura è di bontate.// Or questi, che dall’infima lacuna / dell’universo infin qui ha vedute / le vite spiritali ad una ad una, // supplica a te, per grazia, di virtute / tanto, che possa con gli occhi levarsi / più alto verso l’ultima salute. (...) (Paradiso, XXXIII, 1-27).
Aggiungendo il suo non indifferente libro alla sterminata, mondiale biblioteca sull’opera di Dante, il romeno Horia-Roman Patapievici abolisce l’assurdo di un universo incentrato su Lucifero, così come si può dedurre dalla rappresentazione di Cactani, proponendo una cosmologia elegante e coerente, più adeguata al pensiero dell’illustre poeta in cui si avverte lo spirito scientifico precorritore di un Giordano Bruno, di un Leonardo o Galilei e al tempo stesso il pathos cristiano dello scienziato, filosofo e teologo Teilhard de Chardin. 


Geo Vasile
(n. 1, dicembre 2011, anno I)