«Il caso Kerenes», la Romania dei nostri giorni vince al Festival di Berlino

Vincitore 2013 dell'Orso d'Oro al Festival di Berlino, Il caso Kerenes esplora un complicato rapporto madre-figlio, mentre prospetta anche un'impietosa indagine della corruzione della società romena. Poziţia copilului, recita il titolo originale. Stando alla traduzione, «posizione», ovvero punto di vista, «del figlio». Un figlio, tale Barbu (Bogdan Dumitrache), da annoverare nella già cospicua casistica di giovani irrequieti di cui il cinema romeno, nella fattispecie quello attuale, è puntellato sino ad essere divenuta tematica tra le più assiduamente costanti. Ma a differenza dei figli «postdicembristi», questo Barbu, più che altro, sembrerebbe detenere parentela con quella classe sociale appena abbozzata in alcuni illustri precedenti cinematografici (si pensi al fidanzato benestante di una delle protagoniste in 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni), vagamente accennata senza essere indagata a fondo. E anziché un dolente segmento storico, a gravare sulle spalle del giovanotto è un rapporto d’odio, sfociante in un feroce conflitto, con la figura materna.

Il rancore lo attanaglia, lo avvelena al punto da compromettere la relazione con la famiglia che si è costruito (la compagna Carmen e la figlioletta di quest’ultima, avuta da precedente unione). Dai modi, dagli atteggiamenti e dalle parole che usa, si capisce che seri problemi personali serpeggiano in lui. L’incidente, deus ex machina dell’impianto narrativo del film, è provocato da una costante impazienza mescolata a un senso di rabbia, oppressiva quanto impotente, pronta a esplodere e ad innescare conflitti con chicchessia. A causa di un sorpasso – volutamente negato da terzi, si viene a sapere in seguito – Barbu accelera superando non di poco il limite consentito, finendo per investire mortalmente un ragazzino di quattordici anni, con ciò spezzando una giovinezza in divenire. Quella che l’uomo ha vissuto negli agi probabilmente senza rendersene conto, entro un clima familiare in cui non ha ricevuto quello di cui più aveva bisogno, contrariamente a una giovinezza certo meno dorata, ma circondata da un forse più tangibile calore domestico.

Barbu appartiene a quell’abbiente sfera sociale che, nell’epilogo e anche dopo, sarà pronta a ricominciare nella misura in cui a pagare le conseguenze di un tragico episodio è, ancora una volta, una classe meno privilegiata. La posizione del figlio, in sostanza, è la view di un tizio la cui dubbia moralità induce a rifiutare il legame – qualsiasi forma d’affetto, anzi – con i genitori, principali figure di riferimento. In particolare, a rifiutare il legame con la madre Cornelia (Luminiţa Gheorghiu), che insulta pesantemente dicendole che la generazione di cui lei, il padre (Florin Zamfirescu) e la zia (Nataşa Raab) fanno parte, dovrebbe già essere scomparsa. Non desidera niente da lei: rifiuta di leggere i libri che riceve in dono. Rifiuta il suo cibo, le sue medicine. Non accetta nemmeno di essere toccato (anche perché, si scopre, è misofobico). Nel sottofinale, però, un Barbu dall’aria poco convinta tende una mano a Cornelia concedendole in extremis un eventuale riavvicinamento, a condizione che la donna non lo cerchi ma sia lui a farlo. Conseguenze penose, che potrebbero rovinare l’esistenza del giovanotto, sono insabbiate dal parentado senza che quest’ultimo voglia prender parte alla macchinazione o miri a sventarla. Il punto di vista di Barbu, svelato nel corso di una riunione in famiglia, è privo di reale senso di responsabilità, proprio di un comportamento da figlio di papà viziato e codardo, timoroso delle circostanze che potrebbero scaturire.
Meschina figura incapace di qualunque posizione, Barbu, da tale agiata sfera, non riesce a separarsi del tutto. Dopo l’incidente, sia pure per poco torna all’ovile: qui riprende persino a farsi accudire dalla madre permettendole di massaggiargli la schiena, tumefatta dalle botte dei parenti del ragazzino. Prima di tornare, l’indomani mattina, alla solita aria triste e infastidita, ben lungi dal rinunciare agli agi e ai confort abituali – dalle sigarette alla Coca Cola – a loro volta simbolo d’una moderna comodità. È a Cornelia che l’uomo chiede di acquistare un medicinale contro la sinusite. Lei, però, gliene prende uno più costoso che non dà dipendenza, ma che non risponde a quello richiesto – per cui lui glielo getta addosso. Forse involontariamente, o forse no, è Barbu stesso a offrire un alibi alla madre: quell’alibi, per la donna prezioso e irrinunciabile, per continuare a ficcanasare nella vita del giovane. Alibi che le permetterebbe di gestirne l’esistenza e tutto ciò che comprende, dalla casa (l’appartamento dove Cornelia si reca di soppiatto per far incetta d’indumenti e di libri, regalati al figlio e da questi mai aperti) alla famiglia (l’ordine imposto a Carmen dalla «suocera» di smettere di fumare, affinché Barbu la prenda d’esempio).

Figure come Barbu si scoprono incapaci di trovare una soluzione alternativa per uscire dal passato e sfuggire alla trappola della potestà familiare, vuoi perché impossibilitati a studiare una strategia, vuoi perché la realtà, trascorsa sino a quel momento, simbolicamente li condanna, in tale morsa, a vedere l’unico plausibile rifugio, a esser figli di qualcuno. In certo qual modo, la cosa rimanda al Liviu descritto da Corneliu Porumboiu nel suo mediometraggio, ché entrambi i personaggi ambiscono a un’eguale via di fuga senza aver il coraggio di andare in fondo. La medesima invadenza materna – mischiata all’ansia di un totalitarismo corrotto ormai usuale – accentua una sensazione di claustrofobia tirata allo spasimo, di quasi insostenibile tensione, per tutti i personaggi. La stessa Cornelia avverte qualcosa d’indistinto nell’appartamento del figlio in cui s’è intrufolata e, non avendo il permesso per accedervi, teme d’essere scoperta.
Nella scena conclusiva, accompagnato dalla madre e dalla compagna Carmen (Ilinca Goia), l’uomo si reca al villaggio ove dimorano i genitori del ragazzino ucciso, allo scopo di parlare con loro e offrirsi di pagare i funerali. Ma Barbu preferisce non scendere dalla macchina. A parlare per lui è Cornelia, che, dopo aver ascoltato lo straziante sfogo dei padroni di casa, in lacrime li supplica di non costituirsi parte civile e perdonare l’unico figlio che ha. Una volta usciti, prima di allontanarsi, Barbu decide di scendere per incontrare il padre della vittima. L’intero fotogramma è ripreso dall’interno della vettura, sì che lo sguardo della m.d.p. collimi con quello di Cornelia e di Carmen, oltreché dello spettatore, mentre in quinta a sinistra, in profondità di campo, il giovane è colto col capo chino nell’atto di stringere, titubante, la mano al padre del ragazzino. Il gesto è permeato di ambiguità giacché la famiglia, inizialmente controvoglia, acconsente ai 10.000 € offerti da Cornelia come indennizzo. La stessa ambiguità, intesa quale paravento di convenienza o reale facciata, si rivela il principale escamotage mediante il quale interpretare una vicenda, dall’inizio alla fine, sospesa sul filo della dicotomia.

Una famiglia è stata distrutta. Un’altra famiglia, quella che ne ha causato il lutto, ritroverà magari la serenità. Non si esclude una possibile redenzione. La fine di qualcuno privo di colpa è il principio di qualcun altro non esente da colpe, che, avendo danaro e potere alla portata, riesce a farla franca. Nell’uno e nell’altro caso a pagare, o a soccombere, sono i figli: meravigliose creature – parafrasando il brano della Nannini incluso nella colonna sonora – condannate a vivere un’esistenza di cui non sempre, e non tutti, sono responsabili. E se, pur di salvarli, c’è chi si affida alla corruzione quale soluzione vantaggiosa, c’è anche chi, non disponendo d’una simile risorsa, i figli li seppellisce. Il confronto tra classi è dietro l’angolo: ma ai benestanti è offerta per primi la possibilità di parlare ed essere interrogati, togliendola a chi ne dovrebbe disporre come lecito (i parenti della vittima, cui i poliziotti si rivolgono in tono seccato e sprezzante).
Il Barbu de Il caso Kerenes – questo il titolo italiano del film – è uno studente di chimica sui trent’anni, mantenuto dai genitori. O così, almeno, apprende lo spettatore dalle parole di Cornelia. In verità, sebbene guidi un’automobile di marca e nonostante il ceto quale appartiene, è presentato in maniera trasandata e veste abiti di poco prezzo. Un’anima divisa in due. Un’anima solitaria, come prima di lui Maria e Ion, i rispettivi protagonisti dei precedenti lavori di Călin Peter Netzer. A proposito di Medalia de onoare – pellicola peraltro inedita in Italia – il terzo lungometraggio del regista trova, nella rottura di un figlio con la figura genitoriale, il principale accostamento, se non il proprio denominatore comune. Il pensionato di Medalia viveva la solitudine quale realtà quotidiana prima che un inatteso colpo di scena, la medaglia del titolo, lo riaccostasse a familiari e conoscenti, da par loro pronti a riservargli quel rispetto e quella stima di cui, all’inizio, sembravano difettare. Pure, nelle ultime battute de Il caso Kerenes, Barbu tenta un riavvicinamento a Cornelia, seppur dettato da egoistiche condizioni e non esattamente carico d’entusiasmo. Ma se il povero Ion tornava più solo di prima, una volta realizzato di non esser lui a conseguire la prestigiosa onorificenza, Cornelia non incontra la solitudine, per quanto il rapporto con l’unico figlio – è facile supporre – si risolverà in poche apparizioni del giovane, che comunque avranno luogo secondo le condizioni da quest’ultimo imposte. Probabilmente, tale legame non sarà meno travagliato di quanto, nell’incipit, si evince dalle prime battute della protagonista, intenta, sigaretta tra le dita, a raccontare alla cognata e allo spettatore le burrascose interazioni di Barbu con lei, cariche d’insulti, minacce, dinieghi.

I giovani postdicembristi perseverano nella propria ribellione verso i padri, non avendo un loro avvenire: un percorso da intraprendere che loro si sono scelti. Una loro meta. Ma ne Il caso Kerenes non si tratta più (solo) di formulare un discorso inerente quel ch’è conseguito dopo il celebre 21/12/89. Né di figure che hanno vissuto, o così sembra, la rivoluzione, o di figli che non vogliono (più) saper nulla di quelle storie. E se a firmare la sceneggiatura è il novelist Răzvan Rădulescu, nome peraltro fondamentale per la «nuova ondata» romena e non nuovo ad apologhi che vertono sul conflitto genitori-figli (Niki e Flo di Lucian Pintilie, scritto insieme a Cristi Puiu), il film di Netzer preferisce puntare il dito su quella fetta di Paese che la rivoluzione, quasi di sicuro, non l’hai mai affrontata, tantomeno l’avrebbe voluta. Una generazione che, nonostante il comunismo e quel ch’è seguito dopo, non ha mai smarrito i propri privilegi e mutato tenore di vita. Ne Il caso Kerenes, lo spettatore assiste a una nuova radiografia sullo status sociale che da un po’ di tempo, in Romania, pare aver messo le radici. Lo stile, ormai inconfondibile, è scandito da una m.d.p. tesa a scrutare, in un susseguirsi incalzante e nervoso, una realtà nei cui interni – un commissariato, il tavolino di un caffè in un centro commerciale, l’abitacolo di un’auto, un lussuoso appartamento – ci si affretta a camuffare e a manipolare, togliendo di mezzo eventuali prove compromettenti e comprando all’istante, con tutto il denaro di cui gli scaltri e i potenti dispongono.

La condizione femminile

Sorta di atipico noir, uno tra quei generi cinematografici a lungo boicottati dal regime, il film è soprattutto il ritratto di una donna: Cornelia. Già all’attivo con un’opera al femminile di dieci anni prima (Maria, premiato a Locarno), il regista Netzer chiude un dittico circolare aggiungendo un tassello a un mosaico, assai ghiotto, della cinematografia romena. Non sono pochi i casi in cui il Paese ha mostrato di cogliere, con occhio lucidissimo, la condizione femminile prima e dopo il 21 dicembre: da Balanţa a Stare de fapt, da Italiencele a Ryna, fino a 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni e Francesca, il cinema romeno ha elargito quadri viepiù esaustivi nel tratteggio di tale figura, entro la condizione sociale in cui essa si trova a vivere e ad affrontare i dilemmi cui lo status, quasi ogni volta, la mette a dura prova. Tematica, peraltro, non definitivamente sviluppata né del tutto chiarita, che meriterebbe un capitolo a parte.
Ryna o Francesca, per fare qualche esempio, sono personaggi incastrati da una condizione retriva che relega la donna al ruolo di agnello sacrificale, si tratti di vittima o di oggetto di piacere, come la storia della Romania insegna. Figure appartenenti alla casistica sociale meno abbiente, i cui eventuali buoni propositi di offrire aiuto al prossimo finiscono per soccombere alla prepotenza del Sistema. Di tale estrazione, va da sé, non fa parte Cornelia: colta, raffinata, sempre elegante, laureata in architettura e, di professione, scenografa teatrale. Ama i ristoranti di lusso e le feste sontuose, dove si lascia andare all’euforia delle danze. Soprattutto, come Maria, Cornelia è una madre – anche se con un figlio solo, a dispetto dei sette nell’opera precedente di Netzer. I primi minuti de Il caso Kerenes presentano una donna animata dalla smania di riallacciare col figlio, disperata nel non riuscire nell’intento quasi non si rendesse conto (e in realtà ignorando di accettare) che il giovane la detesta. Il ruolo maschile è ridotto a poca cosa: il marito di Cornelia è un anziano medico di fama, la cui potestà – gli fa notare Barbu in un acceso confronto a quattro – è azzerata dalla moglie.
In apparenza una vittima del figlio, Cornelia è una dramatis persona che sa quel che vuole, e come ottenerlo, mediante prestigio sociale e danaro: fattori attraverso i quali godere d’un motore d’azione volto a renderla influente e potente. In quell’aspetto, tanto algido e difficilmente perscrutabile, non è azzardato individuare una somiglianza con Elena Ceauşescu [1]. Una vera e propria rete spionistica, che riecheggia quella messa in atto dal regime per circa quarant’anni, è ordita dalla protagonista allo scopo di carpire informazioni sul figlio a lei ignote, fornite da un’addetta alle pulizie pagata all’uopo. Cornelia la premia con un paio di scarpe che, risponde l’altra, recano una misura più piccola rispetto al suo piede. «Tienile per tua figlia», ribatte la padrona di casa che – a mo’ d’ideale circolarità narrativa – identica risposta riutilizza con la madre del ragazzino ucciso, offrendole denaro per gli studi dell’altro figlio.

Si accennava come la dicotomia, pattern ricorrente in una folta casistica di titoli romeni recenti, nella pellicola di Netzer funga da chiave di lettura predominante. Se poi la medesima ambiguità è elemento dicotomico, Cornelia, si è capito, è il personaggio ambiguo per antonomasia: sempre nell’excipit, nel sorprenderla in lacrime lo spettatore non può far a meno di domandarsi se stia simulando, nell’estremo tentativo di salvare il figlio, o se davvero colpita dalla sofferenza degli ospiti. Pure, si fa luce un’impressione di commozione personale, all’inizio apparente, che poco a poco si trasla in reale dolenza: la donna ricorda l’infanzia del proprio bambino, così ricca di quelle delicatezze e di quegli affetti nei suoi confronti che si fatica a credere possano essere avvenute – in perfetta sintonia con la famigerata «Età dell’oro», di fatto mai esistita, che di aureo ha solo il nome.
È per amore di madre che Cornelia si allea perfino con chi ritiene responsabile del freddo atteggiamento del figlio, e prima di allora snobba e umilia in continuazione. Se dapprincipio Cornelia cerca in Carmen un’alleata per convincere Barbu a recarsi dai genitori della vittima, man mano che il dialogo si dipana a cuore aperto, il rapporto con la «nuora» si fa amichevole e complice. Sicché la prima, durante la visita al villaggio, decide di presentare la seconda come sua amica. Non meno bifronte è il personaggio di Carmen: da un lato mette al corrente la «suocera» circa la comune decisione di separarsi, e dall’altro punta a rimanere nell’appartamento, corredato d’ogni confort, del quale la stessa Cornelia paga l’affitto. Adduce la figlioletta come pretesto, affermando di voler restare per il bene di quest’ultima (è molto affezionata al patrigno, le sentiamo dire). Sin da piccoli, e magari proprio perché imberbi e innocenti, i figli sono immolati sull’ara del grado sociale dietro il paravento dell’affetto materno, senza colpa né possibilità di ribellione. Non sfugge che Carmen, convivendo con Barbu, abbia mutato la propria estrazione: salvo che questa, durante la visita alla famiglia del ragazzino ucciso, risulta utile a Cornelia (pochi istanti prima, la giovane le suggerisce di esprimersi con una formula religiosa, anziché con un saluto convenzionale).
Nel succitato momento di confronto, alla richiesta della «suocera», Carmen racconta della propria vita sessuale con Barbu – non esattamente idilliaca e, anzi, irta di fobie – senza tralasciare i più intimi particolari. Il compagno, apprendiamo dal resoconto della ragazza, ora rifiuta quel figlio dapprima tanto agognato, la cui ossessività ha indotto l’uomo a farla sottoporre a una serie di esami clinici, incluso l’HIV. La qual cosa non concerne soltanto le ipocondrie e le paranoie del personaggio, ma rimanda ad un problema a causa del quale la Romania dei giorni nostri paga tuttora lo scotto [2], testimoniato dal fotogramma che immortala Barbu, in ospedale, nell’atto di testare l’eventuale tasso alcolico nel sangue. Il giovane pretende dal medico di turno un ago nuovo, e addirittura, offrendosi di pagare la differenza, chiede che lo si scarti di fronte a lui.
Non meno evidenti sono gli indizi atti a porre in discussione la corruzione stagnante nell’unità sanitaria. La zia di Barbu, anche lei medico come il fratello, riceve una telefonata nel corso della quale consiglia all’interlocutore di recarsi all’ospedale, e qui, a suo nome, rivolgersi a un certo medico e allungargli una busta contenente denaro a propria discrezione. Anche di fronte a un increscioso errore operatorio, i dottori sono pronti a minimizzare, a scusarsi tra loro e inventare alibi puerili (come accade durante la festa di compleanno di Cornelia, in cui si discute dell’accaduto in sala operatoria ad opera di un collega). Non si dimentichi come il marcio che attanaglia alla radice gli ambienti ospedalieri, da alcuni anni è topos seguito dal cinema romeno: partendo dall’esordio di Porumboiu (Pe aripile vinului) per proseguire col Puiu di La morte del signor Lăzărescu – ove un anziano malato terminale faceva le spese dell’indifferenza dello staff ospedaliero – e concludere col recente Oltre le colline di Mungiu [3].

Il futuro dell’attuale Romania è – forse sarà sempre? – comprato dal Potere, messo a tacere dalla corruzione. A far da contrappunto è l’arroganza, palese strumento di sopraffazione tramite il quale, forte dell’autorità materna di cui si sente inorgoglita, Cornelia si serve per ricondurre chi è nel suo raggio d’azione a un ordine, ben sapendo come riportarcelo e facendo leva sulle fragilità, i deboli caratteri, le inesperienze di chi più giovane di lei. Non si spiegherebbe altrimenti il ruolo, dirompente anche per gli ufficiali di polizia, assunto dalla donna quando interferisce nel loro operato, affinché il figlio non esca ulteriormente compromesso. L’innata indole prevaricatrice, cui danaro e conoscenze altolocate fungono da comodo supporto, le consente di ribaltare la situazione e scalzare gli agenti (uno di loro non si fa scrupolo di domandarle un favore, circa un problema edilizio in cui è coinvolto un parente). Persino l’inflessibile poliziotta (Cerasela Iosifescu), che poche ore prima incalzava Barbu a raccontare la verità, consiglia a Cornelia, in tono più mite, di accollarsi le spese per il funerale del ragazzino. A ulteriore riprova che attraverso le conoscenze (e la moneta) giuste, quasi sempre la società romena trova un’uscita in tutte le ramificazioni sociali.
Che poi la Romania sia un facile bersaglio per ogni compravendita, adibita a tastare il terreno e ad ammorbidirlo, aveva documentato l’oltranzista Stato di polizia di 4 mesi – ove tutti, profittatori e albergatori in un sol colpo, erano immanicati – e di Poliţist, adjectiv di Porumboiu. In quest’ultimo caso, l’onestà con la quale condurre un’indagine nulla poteva contro lo spettro, duro a morire, d’un Sistema fanatico e rigoroso che imponeva l’arresto, indipendentemente dall’età o dal grado sociale. Nella pellicola di Porumboiu l’ordine costituito, impersonato dal capitano Anghelache, trovava in Vlad Ivanov quella maschera rude e imperturbabile di chi, senza troppi scrupoli e consapevole d’una poco cristallina deontologia professionale, non aveva niente da perdere. Identica maschera, si ripresenta ne Il caso Kerenes in veste di torvo e luciferino testimone (e reale innescatore) dell’incidente: stretto parente dell’altro personaggio cui Ivanov aveva prestato il volto, l’abietto abortista di 4 mesi. Cornelia cerca di venire a patti col misterioso individuo: ma quando crede di averlo in pugno, lo scopre più astuto e sibillino di lei. Dopo aver spiegato la reale dinamica dei fatti, l’uomo propone alla donna di accordarsi per la cifra di 80/100.000 €, e dopo un contorto dialogo, che sembra volgersi a sfavore di Barbu, all’improvviso decide di cambiare la testimonianza per 80.000. La strategia del ragno è accuratamente predisposta, la morsa è dietro l’angolo. Anche una vecchia volpe quale Cornelia – tanto veloce nell’occultare indizi, come il cellulare del figlio dall’automobile di quest’ultimo, in presenza di un perito meccanico – comprende troppo tardi di essere una mosca in una gigantesca ragnatela, dove c’è chi si rivela più subdolo.

De
naro e potere. Prevaricazione e tracotanza. Le analogie che accostano la Romania all’Italia appaiono molto più vicine di quanto si è disposti a credere. Si potrebbe, d’altra parte, collocare l’ambientazione de Il caso Kerenes in una qualsiasi altra capitale d’Europa, dati gli evidenti segni della globalizzazione – dalle costose vetture agli appartamenti arredati con stile ed eleganza, dalle ville sontuose ai prodotti d’importazione (persino la piccola vittima dell’incidente possiede un telefonino). Sino ad arrivare alla verità psicologica di ciascun personaggio: si prendano Barbu e Carmen, accostabili, per la paura di (non saper) vivere, a numerose tipologie di giovani disadattati europei confusi e/o senza meta. Europee paiono essere le figure femminili, incapaci di accettare che i propri rampolli sappiano costruirsi un avvenire e, altresì, desiderose di chiuderli nel proprio alveo.
Benché l’ambientazione differisca da quella offerta dal cinema romeno degli ultimi tempi, abituale è invece lo stile, sempre ellittico, scandito da una m.d.p. concitata e costantemente instabile e contrassegnato da una fotografia dai colori scabri e dimessi. Negli interni di cui il film è costellato, specialmente nella prima parte, è facile individuare l’aura sinistra già dipinta nei menzionati 4 mesi e Poliţist, adjectiv (le claustrofobiche mura del commissariato, ad esempio). Eccezion fatta per le poche canzoni presenti, dal mero contorno extradiegetico, è sufficiente l’assenza di una colonna musicale, scritta all’uopo, a trasmettere l’idea d’una tesa mestizia, che si risolve in inamovibile stabilità e diviene annullamento. Per una generazione, come per il futuro di un Paese – perlomeno in termini cinematografici.


Francesco Saverio Marzaduri
(n. 9, setttembre 2013, anno III)

NOTE

1. In analoga misura, Barbu detiene una similarità col figlio di Elena: il Nicu più volte al centro d’incidenti d’auto, spesso mortali, mancato tre anni dopo la madre a causa d’una cirrosi.
2. Al termine degli anni Ottanta, la maggior parte dei giovani contrasse l’infezione a causa di errate trasfusioni di sangue, perlopiù eseguite in ospedale. Nel 1987, in misura viepiù diffusa, il Paese fece circolare la notizia dell’inesistenza dell’AIDS, cui seguì una tra le più gravi epidemie dell’Occidente. Gli effetti del celebre Decreto del ’66, che proibiva l’utilizzo d’ogni forma di contraccettivo, fecero il resto. Nello stesso ’87, inoltre, è ambientato lo j’accuse della Romania verso l’aborto, il più volte citato 4 mesi.
3. Tutti titoli, includendo anche 4 mesi, nei cui casting era presente la Gheorghiu.