«Nespus dor, ineffabile nostalgia». Della corrispondenza di Emil Coran con il fratello Aurel

Un dialogo dell’anima con se stessa. La conversazione di un unico essere – sdoppiato – in due vite possibili. Questo è il contenuto che custodiscono le lettere di Emil Cioran al fratello Aurel (1931-1985), raccolte nel libro dal titolo Ineffabile nostalgia, a cura di Massimo Carloni e Horia Corneliu Cicortaş (Archinto, Milano 2015).   
Il libro è il memoriale di un’esistenza spezzata in due, che la scrittura raccoglie: senza poter del tutto unificare. È la parabola di due destini, quelli dei fratelli Cioran, uniti da una stessa radice che, molto presto, la vita ha reciso – tra Romania e Francia –, creando due storie da un’unica storia.

Nelle lettere Emil Cioran racconta questa separazione, la vive e la sente profondamente rinnovarsi su se stesso, ogni giorno. La scrittura prova a tener insieme il dolore di ricordi spezzati, a tal punto fatti propri da risultare quasi incondivisibili. Da tale difficoltà nel condividere scaturisce la valenza universale di una scrittura intima: sempre personale, ma altrettanto vera per chi legge e vi ritrova l’uomo e il suo destino mortale. Ciò che è di Cioran è di ognuno, o può esserlo, se si sceglie di riflettere sulla condizione aperta dall’esistenza. Sono lettere private e, allo stesso tempo, nella loro intimità, parlano ad ognuno, perché evocano la forza della memoria in quanto tale, il potere degli affetti, la magia dei luoghi, l’esser stati e il desiderio dell’oltre che ha in sé ogni domandare. 

Nelle righe di ogni giorno, c’è l’infanzia nella vecchiaia, il dolore di una leggerezza persa per sempre. C’è il ricordo, a costruire un presente di attesa, di chi vorrebbe far ritorno ma non può. Ci sono anni di vita attraversati da una lontananza incolmabile, fatta di scelte e di desideri, prima ancora che di spazio. Ci sono immagini improvvise, nitide e, tuttavia, perse per sempre, in un dialogo tra morti e vivi che confonde i confini, annullando il loro senso.
Si parla ad altri per parlare principalmente a se stessi, per chiarire con la propria anima il non detto di una vita: c’è incontro tra vita e morte nella forza fragile di una scrittura in frammenti, di una forma che non contiene più. Tutto sembra poter tornare, senza che si possa realmente far ritorno. Un esilio metafisico è il luogo dal quale giunge la voce, come un’eco: del pianto, del riso, del cinismo, dell’amarezza, della malattia, della salute. Gli affetti sono costanti, – presenti assenti – modulano lo scorrere dei giorni, dando corpo al vuoto. Un abisso insuperabile è di fronte e dentro, nel cuore di una sensibilità che non conosce davvero indifferenza, anche quando la esprime – disperatamente.
Dell’attaccamento alla vanità d’essere parlano le abitudini, diffuse nei giorni: al tempo stesso meccaniche e familiari nella loro gelida estraneità. Dell’essere cercati, senza essere conosciuti, del parlare senza saper star vicino, della superficie priva di spessore sono testimonianza i molti che scrivono, i molti che vogliono, invitano, premiano e criticano. Contro tutto ciò, la fuga verso un altrove irraggiungibile. Tentata e ritentata, nella follia di gesti folli, forse creatori.
Il silenzio dell’anima di Cioran produce, così, nelle lettere, una scrittura d’ascolto, rubata, solo per brevi tratti, al tempo dell’inessenziale, a ciò che allontana e che, per questo, si dovrebbe allontanare. La verità è seduta accanto, mentre lo scorrere delle illusioni continua a far teatro alla vista. Ascoltare, ascoltarla, è forse ancora possibile, se l’anima impara con fatica a non disperdersi, raccogliendo le forze che l’età e la vita ancora concedono.

La scrittura può registrare quanto accade, farsene portavoce, rendere immortale ciò che è perituro, custodire l’eternità dell’inessenziale, affinché non vada dispersa, affinché non vada confusa fino a generare le ragioni di nuovi inganni.
Il presente è costellato di luoghi della memoria, così vivi da poter essere percorsi nell’immaginazione, così lontani nella realtà. Sono soprattutto i luoghi dell’infanzia, quelli in cui qualcosa si è interrotto, quelli che si attraversano ancora, tante volte, senza poterci mai tornare. La felicità capita solo dopo: quella che il tempo restituisce quando non c’è più. Luoghi leggeri, fatti di sogni: luoghi che la vecchiaia sa che non potranno appartenerle mai. Luoghi di tempo, che forse neanche si è vissuto, più profondi dei pensieri, più forti degli affetti. Sono le immagini che impediscono la dispersione dell’anima e fanno da raccordo tra il presente che viviamo e l’essere che non siamo più e mai saremo ancora. Senza stanchezza il cuore indugia dentro strade sospese nel tempo, intravedendo il destino che non ha mai avuto. La volontà ripercorre passi bambini, cercando nel presente nuovi inizi, che si negano.
La storia personale e quella importante dei fatti accaduti non hanno soluzione di continuità: nessun evento è dato, se non come vissuto. Grande e piccolo, generale e personale, seguono un solo destino, la cui forza e il cui senso sono preclusi alla coscienza che li cerca. Ogni lettera custodisce e perde, è frammento e richiamo alla totalità, è individuale e collettiva, rivolta ad uno perché parli a tutti. La scrittura raccoglie la cenere di un universo personale in costante trasformazione: mescola i piani, lavora negli affetti, svuota e riempie, recide e dà vita.

Nespus dor
, ineffabile, indicibile nostalgia, è ciò che prova e sempre proverà chi cambia lingua e lascia il suo paese, o chi, pur restando, vive davvero nella ricerca di sé e sente nel profondo la condizione radicale dell’esistenza, come esilio dalla perfezione. La condizione dello spaesamento, dell’assenza di radici, del non sentirsi a casa anche in ciò che vi è di più familiare. Questo è il proprio dell’essere umano, questo è il tema sotteso da ascoltare, che attraversa, come un basso continuo, ogni lettera di Cioran al fratello, legandola alle altre: trama variegata di un unico tessuto esistenziale.
Francia e Romania, i luoghi della divisione fisica di Emil e Aurel, finiscono così per diventare stati dell’anima, condizioni di separazione, scelte radicali, ferite diverse per chi porta in sé lo stesso sangue. Non serve cercare di sanare la distanza, sognare e realizzare un ricongiungimento.
Il tempo ha reso straniera l’anima a se stessa, approfondendo il solco scavato nella terra della propria interiorità. Ha reso sconosciuto un fratello e familiare ciò che è estraneo. Il tempo ha insegnato a essere nella trasformazione, a perdere identità, a non possedere nulla, nemmeno se stessi. Eppure di questi infiniti piccoli frammenti qualcosa rimane. Nella scrittura – controluce – si rivela un’immagine: qualcosa di ciò che la vita è stata e non sa più, qualcosa che lega indissolubilmente, entro una sola trama, i frammenti che la realtà ha spezzato, impedendone la deriva.

Un’origine è intravista, come cammino e meta, come luogo che non esiste e che, per questo, catalizza su di sé il desiderio del ritorno, raccordando tutte le strade, percorse e da percorrere. Per quel che resta. Ogni cosa è illuminata da questo riflesso, presente in ogni lettera, come traccia di scrittura. Ogni cosa è custodita e persa nella memoria che opera, trasformando l’universo interiore, donando ad esso nuove forme a partire dalle sue ceneri continue.
Il pensiero sa ciò che l’esistenza non potrà mai essere: la vede nel suo insieme, prima ancora che realmente si concluda, la sente come unica, personale e totale, passata e non ancora finita. Il pensiero registra, attraverso la scrittura, il desiderio di senso, la volontà di conferire totalità a partire dai ricordi di ciò che si è amato e che dà continuità alla trama di un’esistenza ferita dalla perenne estraneità a se stessa. Nell’origine, sentita e mai raggiunta, nessun frammento è solo. Di questa unità, e della sua luce possibile e mai reale, il pensiero di Emil Cioran scrive, raccontando – anche per noi – una vita di esperienze e d’attesa. «Penso alla neve che ricopriva tutto».




Draga Rocchi
(n. 1, gennaio 2016, anno VI)