«Vivere contro l’evidenza». Ora in italiano l'intervista di Christian Bussy a Emil Cioran

Il volumetto E.M. Cioran. Vivere contro l’evidenza, intervista con Christian Bussy, pubblicato da La scuola di Pitagora editrice, a cura di Antonio Di Gennaro e nella traduzione di Massimo Carloni, presenta per la prima volta al pubblico italiano l’intervista integrale di Emil Cioran realizzata a Parigi il 19 febbraio 1973 da Christian Bussy per l’emittente televisiva belga RTBF, di cui un estratto apparve, con il titolo Le friand du pire, sulla rivista francese «Nouvel Observateur» (22-28 marzo 1990, n. 1324). Il pensatore di Răşinari, trapiantato a Parigi nel 1937 e notoriamente refrattario alla luce delle telecamere e ai microfoni radiofonici, si è in realtà concesso non poche volte alle domande dei giornalisti. Una parte di queste conversazion è stata pubblicata, come è noto, nel volume Entretiens (Gallimard, 1995), ma innumerevoli altre testimonianze, tracce preziose dell’uomo e del pensatore Cioran, stanno venendo alla luce grazie all’encomiabile lavoro del curatore del libro, Antonio Di Gennaro, che sta recuperando con pazienza e dedizione questo materiale inedito, destinato molto probabilmente a rimanere sul fondo del cassetto di quanti, durante gli anni, ebbero la fortuna di essersi intrattenuti in conversazione con il Privatdenker più corrosivo del XX secolo.

L’intervista esordisce con una domanda chiave: «Perché ha lasciato la Romania?». Ponendo tale domanda, il giornalista porta Cioran a rivelare la cifra dell’intera sua esistenza e della sua Weltanschauung tragica (ma non pessimista, come spiegherà più avanti lo stesso pensatore romeno-parigino). L’apolide metafisico sceglie di non avere un destino e dichiara come la Romania sia stata «una tappa della mia vita, nulla più» (p. 15). Queste parole sembrano confermare quanto va sostenendo il teologo italiano Bruno Forte: «L’esilio non è la lontananza dalla patria, ma è l’assenza di nostalgia dalla patria o, fuor di metafora, la mancanza di speranza» (Delle cose ultime e penultime, p.29). Certamente la mancanza di speranza che prorompe dalla «ferocia intellettuale» (p. 33) della lucidità portata fino alle sue ultime conseguenze, rende Cioran «il più grande scettico al servizio di un mondo in declino», secondo la definizione del suo amico, l’intellettuale romeno Petre Ţuţea.

Non avere un destino significa «vivere contro l’evidenza», quando «ogni momento, diventa una sorta d’eroismo» (p. 35). È quello che Cioran ha provato a fare per tutta la sua vita ed è ciò che confessa con frasi come questa, dall’humour inconfondibile e irresistibile: «il mio progetto di vita era stabilito, avrei vissuto da studente sino alla morte, con tutti i vantaggi materiali che ciò comporta» (p. 17). Forse una forma sui generis dell’areté dei greci, in linea con il pensiero neopagano di Salvatore Natoli: «virtù è la capacità di darsi forma, di mantenerla nonostante l’offesa, di trasformare l’offesa in arte» (Delle cose ultime e penultime, p. 75). Cioran fa del vizio della vita, dell’inconveniente di essere nato, di questa grande offesa e stravaganza che è l’ex-sistere, virtù di resistenza, l’ars vivendi di un dionisiaco con la voluttà della negazione. Si vive contro l’evidenza: della miseria interiore, della debolezza umana, della solitudine in Dio, dell’assenza di un senso e lo si fa accettando l’ineluttabile. Forse è proprio qui che risiede la straordinaria forza della terapia della quale tanti lettori di Cioran hanno fatto esperienza: «Ho constatato le cose senza indicare i rimedi. Se parlo di rimedi, è proprio per dimostrare che sono pressoché inutilizzabili e che non vi è un rimedio essenziale» (p. 22). I libri del filosofo romeno sono dunque altrettanto atti di resistenza contro l’evidenza dell’assurdità della vita. Cioran dichiara di scrivere per «tracollo» e non per «necessità»… «Ma in ogni caso, non certo per scrivere un libro. Il libro capita, è frutto del caso» (p. 18). Lo scrivere è una forma di preghiera, quella di un ateo credente: «Per me l’incontro con Dio, forse, è nell’atto di scrivere. È come una solitudine che ne incontra un’altra». Scrivere, per Cioran, significa anche profanare dei tabù – come quello del suicidio – logorandone la tremenda verità che il cristianesimo avrebbe cercato di rimuovere. Afferma Cioran: «Il cristianesimo ha commesso un errore psicologico colossale escludendo il suicidio, e intendo l’idea del suicidio (…). Sono riuscito a superare tutti i momenti difficili della mia vita grazie all’idea di questa scappatoia e credo veramente che si possa sopportare tutto a condizione di vivere con l’idea del suicidio» (p. 29).

Cioran in questa intervista si sofferma sul concetto di r-esistenza che esprime attraverso un suo sguardo contemplativo benché radicalmente disincantato sull’irreparabile. Rifiuta di essere inquadrato con termini quali «nichilista», «ribelle», «disperato» e anzi ritiene che: «le mie negazioni somigliano a degli schiaffi, quindi sono affermazioni» (p. 20). Sono altresì delle affermazioni di un parossistico vitalismo, come nei personaggi di Dostoevskij che lo hanno tanto affascinato sin dalla gioventù. La «passione dell’estremo» propria degli individui che «varcano un limite», «non per una mancanza, ma per una sorta di pienezza pericolosa» è ciò che caratterizza la grande avventura della vita: «In fondo, ogni essere è qui per distruggersi» (p. 31). Sono questi i veri eroi metafisici che Cioran ha da sempre anteposto ai filosofi e agli accademici di professione, i famosi falliti che però sapevano vivere consumando la propria esistenza. «Non sono depressi, perché sono come semi-dèi, persino delle divinità» (p. 32). Non diversamente si era espresso Bataille: «Gli uomini nella maggior parte dei casi sono deboli. Ma se avranno forza a sufficienza, immediatamente vorranno rovinarsi. Chiunque ne abbia la forza e i mezzi, si abbandona a dissipazioni continue e si espone incessantemente al pericolo» (L’erotismo, p.83). Se Cioran ci dovesse indicare un modello da seguire nella vita, sarebbe certamente quello del maestro della noia e del disgusto – Meister des Überdrusses, di colui che ha superato l’ossessione della morte e che pur arrivando alla conclusione che «il dramma non è morire, ma nascere» (p. 34), riesce ancora a cogliere il lato straordinario, miracoloso di ogni respiro.



Amelia Natalia Bulboacă
(n. 11, novembre 2014, anno IV)