Keith Hitchins, «Romania. Storia e cultura». Dalla civiltà dacia alla transizione post-comunista

È recentemente uscita, presso Beit editrice di Trieste, l'edizione italiana del volume Romania. Storia e cultura di Keith Hitchins (traduzione di Piero Budinich). Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la postfazione di Alberto Basciani, che traccia un articolato quadro di sintesi.

La comunità degli studiosi e dei lettori interessata alle vicende storiche dei popoli del Sud-est dell’Europa non può che salutare con grande soddisfazione la pubblicazione di questo libro di Keith Hitchins dedicato alla storia della Romania dai tempi della civiltà dacia fino alla transizione post-comunista. Il volume in questione arricchisce senz’altro il panorama storiografico italiano e allo stesso  tempo aiuta a inquadrare, in una visione più generale, la storia dei popoli danubiano-balcanici. Quest’opera, infatti, contribuisce a completare un ricco mosaico di cui la Storia della Bulgaria di Richard J. Crampton e la Storia della Serbia di Stevan K. Pavlowitch (sempre grazie all’impegno di Beit) hanno  costituito  negli anni passati delle importanti tessere: tali opere sono state rilevanti acquisizioni per il pubblico italiano oltre che le prime traduzioni in lingua italiana di questi fondamentali storici dei Balcani.
Il volume di Hitchins rappresenta la sintesi e rielaborazione di due suoi precedenti lavori The Romanians 1774-1866 e Rumania 1866-1947 (quest’ultimo più volte aggiornato nelle diverse edizioni pubblicate in Romania dopo il 1990). The Romanians e Rumania sono molto di più che delle accurate e puntuali sintesi: esse costituiscono vere e proprie opere di riferimento. Volumi ricchi di riflessioni critiche, spunti, dati e osservazioni, essi sono costruiti con un’affascinante ordito storiografico nel quale la narrazione di Hitchins, segnata dal rigoroso rispetto della scansione cronologica, si dipana con tratto sicuro tra questioni politiche, sociali, economiche  e intellettuali. Queste qualità hanno fatto delle opere del docente dell’Università dell’Illinois degli strumenti indispensabili per comprendere e collocare nella giusta luce l’affascinante e tortuoso percorso storico compiuto dal popolo romeno dall’antichità fino ai nostri  giorni. Da quelle pagine emergono vividi gli ostacoli affrontati dai romeni per cercare di affermare la propria esistenza nel bacino danubiano-carpatico quale entità etnica distinta. Problemi enfatizzati dai complicati e spesso conflittuali rapporti intessuti con i magiari, con i tedeschi, con gli slavi e gli ottomani. Fu così che mentre in Transilvania la popolazione romena fu soggiogata da quelle economicamente e politicamente più potenti, nelle terre di Valacchia e Moldavia, scansato il pericolo di una dominazione diretta da parte dei turchi, ben presto i due Principati dovettero difendersi dalle mire (neppure troppo velate) dei grandi imperi multinazionali degli Asburgo e dei Romanov. Né le difficoltà furono superate con la nascita dello Stato unitario che già all’indomani della sua fondazione (i Principati si unirono nel 1859 e la Romania divenne formalmente indipendente nel 1877), dovette affrontare le enormi sfide imposte dal processo di state-building e di ricerca di legittimazione nel contesto politico internazionale. Neppure la Grande Romania (România Mare), sorta dopo la Prima guerra  mondiale, fu in grado di mettere definitivamente in sicurezza tali acquisizioni come dimostrarono le tante difficoltà politiche e sociali interne e soprattutto i gravi problemi di politica estera culminati nell’umiliante smembramento territoriale subito nel 1940 e nelle tragiche vicende della Seconda guerra mondiale. Infine come sottacere la lunga, terribile, umiliante parentesi rappresentata dall’esperienza della dittatura comunista e dall'interminabile transizione verso la democrazia  compiuta e un più efficiente ed equanime modello di sviluppo economico.
La lunga esperienza accademica e la non comune familiarità con le fonti edite e inedite hanno permesso a Keith Hitchins  di estrarre l’essenziale dai due volumi sopracitati e condensarlo sapientemente in quella che gli anglosassoni chiamano una «concise history» (certamente  pensata  per un pubblico occidentale) in cui il lettore potrà trovare le necessarie coordinate per districarsi agevolmente e con pieno profitto attraverso le grandi tappe della storia romena. Nomi, date, riferimenti e passaggi presenti nello scritto sono quelli essenziali per comprendere l’evoluzione della storia dei romeni nei secoli. Dal tratto di penna di Hitchins emerge così l’affascinante percorso storico di un popolo che a un certo punto della propria evoluzione, una volta arrestatasi la grande marea ottomana, parve quasi dividere i propri destini.
Una parte di esso, quello vivente in Transilvania e nelle regioni Nord occidentali e Nord orientali (Banato e Bucovina), finito sotto il dominio degli Asburgo, sembrò lasciarsi alle spalle il mondo danubiano-balcanico e prendere il bivio per l’Occidente. Ciò significò il contatto dei suoi intellettuali con l’illuminismo e la tradizione educativa e universitaria centroeuropea, gli stretti rapporti intrecciati con il cattolicesimo (che da qualche anno vengono scavati a fondo dagli storici dell’Università di Cluj) ma, allo stesso tempo,  anche  la difficile lotta in qualità  di componente etnica più umile e sottomessa  (sia pur di gran lunga maggioritaria nei numeri), per affermare la propria specificità e rivendicare  i propri  diritti.  Sulla comunità romena di Transilvania, infatti, incombevano la forza economica e il dominio politico esercitati dalla fiera nobiltà magiara e seclera animate da un nazionalismo esclusivista e la non certo benevola attitudine mostrata dalle potenti e orgogliose comunità germaniche  colà installate da secoli.
L’altra parte della romenità, quella insediata nei due Principati danubiani di Valacchia e Moldavia, venne risucchiata invece verso Oriente e plasmata nella sua civiltà (e finanche nei suoi costumi quotidiani e nei molti prestiti linguistici), dalle secolari lotte e dagli innumerevoli contatti con i turchi, dalla spiritualità e dalle liturgie proprie  dell’ortodossia bizantina, dal dominio politico ed economico esercitato senza troppi scrupoli dai principi fanarioti greci, né si possono dimenticare gli influssi portati dall’affacciarsi sempre più deciso nella regione della potenza russa. Non a caso nella primavera del 1812 i russi conquistarono e annessero all’impero degli zar la Bessarabia, la parte più orientale della Moldavia. Sono pagine centrali nella ricostruzione offerta da Hitchins perché, come è stato più volte notato da diversi studiosi, proprio l’ambivalente rapporto con l’Occidente e l’Oriente rappresenta uno degli aspetti basilari per comprendere l’evoluzione della Romania e dei romeni anche in epoca contemporanea, e nel volume in questione tale contraddizione (ma se vogliamo utile confronto  e arricchimento culturale)  emerge con tutta la sua forza. Questa parte del racconto dunque rappresenta la spina dorsale di tutto il volume dello storico americano da cui scaturisce quella linfa benefica e chiarificatrice di cui si giova ogni pagina del volume. Di fatto quell’ambivalenza tra due mondi e due civiltà così differenti continuò ad accompagnare l’evoluzione del popolo romeno nel corso di tutto il lungo Ottocento, dalle lotte per l’affermazione nazionale fino all’esperienza traumatica, ma infine vincente, della Prima guerra  mondiale  al termine  della quale sorse lo Stato nazionale romeno unificato e comprendente tutte le sue regioni storiche:  la Grande Romania il paese più esteso, popoloso e ricco di risorse naturali di tutto il Sud-est dell’Europa.

I molteplici risvolti della questione culturale


Uno dei punti di forza del testo qui presentato sta proprio nella capacità dell’autore di offrire al lettore tutti i necessari riferimenti storici e, allo stesso tempo, di connetterli con i grandi dibattiti culturali e politici che accompagnarono l’evoluzione delle terre romene tra il XVII e il XX secolo. Nella ricostruzione di Hitchins la cultura e le idee politiche sono molto di più che una mera enunciazione delle correnti culturali e di pensiero che attraversarono e proliferarono in quei territori, o un rosario – per quanto illustre e completo – di nomi di autori e delle loro opere. La novità del volume è rappresentata dal fatto che nelle sue pagine la questione culturale diventa vero e proprio tessuto connettivo della narrazione storica e del divenire del popolo romeno. Così l’influsso del mondo greco e della Chiesa di Costantinopoli esercitato sui Principati non viene inquadrato solo nella prospettiva dello sfruttamento attuato dagli avidi principi fanarioti nei confronti delle ricche pianure romene e sulle masse oppresse e misere dei contadini, ma diventa anche la chiave per comprendere un tortuoso percorso di crescita intellettuale che dalle corti e dai monasteri sparsi in quei territori avrebbe forgiato una nuova cultura romena più consapevole delle proprie radici, più decisa a intrecciare  rapporti e relazioni con il resto dell’Europa civilizzata e quindi pronta a tradursi in un potente strumento di acquisizione di consapevolezza politica e di graduale riscatto nazionale. Sull’altro versante dei Carpazi tra le ubertose valli e le prospere, cosmopolite città transilvane un percorso diverso ma diretto verso lo stesso obiettivo fu compiuto dalle locali comunità romene. Il fallimento delle sanguinose sollevazioni (pensiamo all’ultima grande jacquerie del 1784 che vide protagonisti Horea, Cloşca e Crişan) lasciò definitivamente il passo a un’altra strategia che aveva nel complesso percorso di avvicinamento e unione con la Chiesa di Roma uno dei suoi punti  centrali.  Il vincolo stabilito con il papato e sostanziato attraverso l’apertura di parrocchie, scuole, seminari, nonché  inviando i giovani più brillanti e promettenti in Italia, segnò la svolta decisiva nello sviluppo della comunità  romena di Transilvania e della sua lunga ardua rincorsa verso l’acquisizione di nuovi diritti etnici e nazionali. Questi fattori, assieme alla decisiva riscoperta della romanità e delle vestigia dell’impero romano, contribuirono ad avvicinare i territori romeni all’Occidente, diedero a quelle popolazioni e alle loro classi dirigenti un nuovo senso di comunità che pur con tutte le difficoltà del caso travalicava le frontiere politiche e alla lunga e le si saldò in un progetto politico volto al raggiungimento di un obiettivo comune: l’unione di tutte le terre considerate romene.
Nel corso del lungo risorgimento romeno, così come nel complesso ingresso di quei mondi nella modernizzazione, la questione culturale venne di nuovo a intrecciarsi e a confondersi con il dibattito politico. Furono proprio gli intellettuali e politici eredi della tradizione rivoluzionaria quarantottesca, spessissimo educatisi in scuole e università occidentali, a porre per primi e in maniera tutto sommato convincente il grande quesito su dove e come dovesse incamminarsi il progresso della Romania. Fu questa la fondamentale questione posta al centro del dibattito pubblico romeno dagli uomini riuniti attorno all’associazione Junimea («Gioventù»). Il grande tema che animò le discussioni tra gli intellettuali e i politici romeni nei decenni precedenti l’unificazione del 1918 fu proprio centrato su quale dovesse essere la natura dello sviluppo romeno. Se esso, cioè, dovesse ricalcare i modelli politici, economici e sociali importati dall’Occidente oppure dovesse seguire vie autonome che tenessero in debito conto la peculiare evoluzione di quei territori e di quelle genti, non solo influenzate dai ripetuti e stretti contatti con il mondo turco-bizantino, ma pure profondamente legate a una  civiltà contadina antica e insieme arretrata e sfruttata da qualche centinaio di boiardi proprietari di enormi estensioni di terreno. Molti argomentavano che proprio questa civiltà contadina costituisse l’essenza più intima e vera del popolo romeno che su tali basi avrebbe dovuto costituire il proprio futuro. Eppure, poteva succedere che mentre l’opinione pubblica più colta di Bucarest si infervorasse su tali questioni, vasti territori  agricoli della Moldavia nel corso del 1907 fossero interessati dall’insorgere di una violenta ribellione contadina che dopo qualche mese fu repressa a cannonate dall’esercito che riportò l’ordine e ricondusse quelle genti  sfruttate,  misere e in larga parte analfabete, alla vecchia situazione di indigenza e sottomissione.

Le contraddizioni della Romania contemporanea

Questa fondamentale contraddizione non fu mai superata neppure dalla Romania contemporanea. Insomma i dibattiti che animavano la vita dei caffè, che si riflettevano in accese polemiche giornalistiche e politiche, fino a coinvolgere i più ovattati – ma non meno battaglieri – ambienti accademici, furono superati dagli avvenimenti e di colpo quelle infuocate diatribe apparvero come inutili esercizi retorici di una classe colta distante però dalle vere esigenze immediate della parte più debole e arretrata della popolazione. L’incalzare degli eventi interni assieme alle mutevoli situazioni internazionali paiono incidere in profondità sull’evoluzione della Romania tanto da costringere le sue classi politiche ad adattarvisi con sorprendente rapidità in attesa dell’occasione più propizia per rafforzare la propria posizione. Bucarest così poliedrica, colta, ma anche città corrotta, capace di alternare a eleganti boulevard sui quali si affacciavano hotel, caffè e negozi raffinati, squallide mehalla attraversate da un’umanità torbida e variopinta,  diventò ben presto, più che qualsiasi altro luogo del paese, l’emblema della moderna nazione romena. Unica città balcanica a conoscere l’insorgere di una vera rivoluzione nel 1848, in seguito luogo di rifugio di tanti rivoluzionari del Sud-est dell’Europa che vi organizzavano la lotta contro il turco e vi stampavano straordinari (anche se poco fortunati) giornali bilingui, in seguito, nell’agosto del 1913 la capitale romena divenne il teatro della firma del più ambizioso trattato di pace mai firmato dagli stati del Sud-est dell’Europa – senza apparenti tutele da parte della Grandi potenze – che solo un anno dopo si dimostrò essere poco più di una tregua.
Con la Prima guerra mondiale e soprattutto con le sue conseguenze tutto sembrò cambiare sia per il paese che per la sua capitale. Dalle rovine belliche parve emerge un paese del tutto nuovo. In virtù di un’estesa riforma agraria che eliminò quasi completamente il latifondo e di una riforma elettorale che estese il suffragio all’intera popolazione maschile la nuova  Romania apparve  come un paese che cercava di andare oltre il ruolo di erede naturale del piccolo Regat (regno) danubiano prebellico. Il nuovo e più esteso stato cercava di presentarsi con una veste del tutto differente rispetto al passato: modernizzato nelle sue strutture socio-economiche e politiche e desideroso di giocare un ruolo nuovo e attivo nell’inedita Europa ridisegnata a Versailles. Non solo salda Termopile d’Europa contro il pericolo bolscevico ma anche attore dinamico e propositivo e nelle istituzioni sovranazionali che in quegli anni furono fondate a cominciare dalla Società delle Nazioni o la Commissione Internazionale per il Danubio. Il mondo intellettuale romeno ancora una volta venne coinvolto in pieno nel grande  intenso  dibattito  che si accese nel paese sulle linee guida che dovevano  segnare  la strada  della Grande Romania. I canoni della civiltà occidentale uscita vincitrice dallo scontro titanico contro l’imperialismo militarista delle Potenze centrali, con il liberismo economico, la democrazia parlamentare, il progresso scientifico capace di riflettersi anche in vantaggi concreti per le grandi masse popolari, divennero agli occhi degli europeisti romeni (tra tutti il critico Eugen Lovinescu e il sociologo Ştefan Zeletin) il modello cui la nuova Romania avrebbe dovuto aspirare. Insomma la guerra, pur con il suo tremendo tributo di sangue e distruzioni imposto al paese, aveva fatto sì che i romeni riaffermassero l’appartenenza a quel mondo i cui principi più nobili e avanzati avrebbero dovuto continuare a rappresentare la stella polare dell’agire della nuova classe dirigente romena. Pareva essere l’occasione propizia per allontanare definitivamente le ombre di un passato fosco in cui i caratteri orientali (almeno nella loro accezione più negativa) troppe volte erano parsi prevalere sui lumi della ragione  e del progresso. In queste categorie negative rientravano, ad esempio, lo iato tra classi dirigenti e paese reale così come i guasti provocati da una burocrazia sovradimensionata, inefficiente, corrotta, autoreferenziale e completamente asservita al potere  politico. Un vasto programma di costruzioni scolastiche, un ambizioso progetto di industrializzazione – che poggiava anche sul tentativo di riportare in mani romene la principale risorsa energetica romena, il petrolio – sembrarono rappresentare la base necessaria per imprimere un profondo cambiamento del paese che  tra l’altro con le nuove  vaste frontiere aveva perso la sua omogeneità etnica e confessionale e si era arricchito  di consistenti  nuclei  di minoranze nazionali: magiari, tedeschi, russi, bulgari, ebrei, ucraini ecc. Eppure proprio questo stravolgimento del tessuto etnico, viepiù enfatizzato dalle recriminazioni di maggiori diritti e garanzie civili, politici e culturali immediatamente avanzate da questi gruppi, rappresentò per importanti settori della società civile e del mondo intellettuale romeno uno stimolo decisivo per rifiutare  il modello di modernizzazione plasmato su quello occidentale e per ripiegare sulla ricerca di una via romena. L’esaltazione della tradizione, della spiritualità ortodossa, del mondo contadino celebrati dagli scritti di pensatori quali Nichifor Crainic o Nae Ionescu, divennero alcuni dei capisaldi di un pensiero  tradizionalista che però dietro il rifiuto dell’Occidente, del progresso scientifico e tecnologico pareva nascondere anche la sorda avversione nei confronti dell’altro. Interessante notare che sia pur in forme e obiettivi del tutto diversi queste correnti intellettuali furono capaci di intercettare sia il ribellismo eversivo,  xenofobo  e razzista  della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu che le esplosive energie di alcuni giovani e promettenti intellettuali quali Mircea Eliade o Emil Cioran (neppure essi del tutto scevri da simpatie per il movimento legionario), che proprio alle conferenze del circolo Criterion di Bucarest avrebbero trovato uno dei primi luoghi di confronto e discussione.
Eppure a testimoniare la notevole ricchezza e varietà del dibattito intellettuale in corso in quegli anni in Romania vale la pena aggiungere che l’attenzione per le istanze delle campagne non sfociò soltanto in teorie conservatrici ed esclusiviste. La constatazione dell’importanza decisiva del mondo agricolo nell’economia romena portò economisti, quali ad esempio Virgil Madgearu, a immaginare un paese che con politiche economiche mirate a favorire lo sviluppo di una robusta, moderna e tecnologicamente avanzata agricoltura potesse compiere un sostanziale balzo in avanti superando la povertà di un tempo e i nuovi problemi accresciuti dalla coesistenza  di regioni così diverse e poco omogenee tra di esse. Si trattava di progetti concreti volti a costruire una Romania nuova che non fosse soltanto un mero appiattimento sul modello economico occidentale ma neppure un astratto ripiegare sulla vana (e forse ipocrita) contemplazione di un mondo bucolico tanto arcaico quanto poco reale. Non fu certo solo un caso che Madgearu fosse destinato a cadere vittima di un attentato ordito e realizzato proprio dai militanti della Guardia di ferro. La Seconda guerra mondiale colse alla sprovvista un paese dilaniato da lotte interne, impreparato militarmente, diplomaticamente isolato e dunque schiacciato tra la potenza nazista e quella sovietica. Certo non poteva essere la dittatura personale di un personaggio equivoco come re Carlo II a cambiare i destini della Romania che di fatto nel corso del 1940, senza sparare un solo colpo fu costretta  a cedere consistenti porzioni del suo territorio all’Urss, all’Ungheria e alla Bulgaria. Fu l’annus horribilis che segnò la fine della Grande Romania e l’inizio dell’esperienza della dittatura militare di Ion Antonescu che trascinò il paese in guerra a fianco della Germania nella speranza di recuperare i territori persi e assicurarsi un posto d’onore al momento dell’auspica vittoria tedesca e della divisione del bottino.
Dopo Stalingrado le vicende presero però una piega ben diversa ma non c’è dubbio che la guerra mondiale per la Romania non ha significato soltanto l’avventura militare a fianco dell’Asse ma anche un lungo viaggio attraverso l’inferno della Shoah. Come se i demoni evocati dalle forze più xenofobe e reazionarie si fossero improvvisamente concretizzati in azioni terribili, la guerra per i romeni e le loro istituzioni divenne anche una vasta operazione di sterminio delle  comunità  ebraiche  e rom viventi e/o deportate in Bessarabia, Transnistria e negli altri territori occupati dalle armate di Bucarest. La ricostruzione offerta da Hitchins è puntuale, anche se le cifre degli ebrei e degli zingari uccisi e deportati  non  coincidono  del tutto  con quelle espresse da altre fonti come, ad esempio, il cosiddetto rapporto Wiesel sull’Olocausto in Romania. Dalle pagine del libro emerge il dramma vissuto da queste comunità sacrificate a volte attraverso pogrom bestiali in altre attraverso operazioni ben pianificate, dalle istituzioni civili e militari  di un paese debole a sua volta, incapace di risolvere per via pacifica le proprie contraddizioni interne e internazionali e vittima predestinata dei grandi totalitarismi del novecento. La liberazione dal nazifascismo significò infatti per la Romania cadere poco dopo sotto il tallone della dittatura comunista imposta dalla soverchiante superiorità militare sovietica e dai nuovi equilibri internazionali determinati dagli esiti della guerra.
Se il conservatorismo nelle sue varie accezioni aveva rappresentato una presenza costante del dibattito politico e intellettuale romeno non si può certo dire la stessa cosa delle teorie socialiste e marxiste. Approdate in Romania solo alla fine del XIX secolo esse non furono mai in grado di dar luogo a un forte partito politico né a troppo influenti correnti di pensiero. Dopo la Grande guerra da una costola del partito socialdemocratico nacque il partito comunista romeno – presto caduto sotto il completo controllo del Comintern – che per le sue peculiari caratteristiche contribuì piuttosto a indebolire il movimento socialista. Una serie di fattori quali la repressione delle autorità, la sudditanza nei confronti di Mosca, la particolare struttura sociale del paese ecc. fecero del Partito comunista romeno più una setta di iniziati che un vero movimento politico di massa. Dopo la presa del potere questi pochi eletti (molti dei quali avevano trascorso lunghi anni in Urss o nelle carceri) si incaricarono  di costruire il socialismo in terra romena a immagine e somiglianza di quello realizzato nell’Unione sovietica. Per il paese furono anni di ferro: un intero sistema di valori che sia pur con molte contraddizioni aveva avuto l’Occidente (in tal senso non vanno sminuiti i molteplici contatti anche con il mondo germanico), quale punto principale di riferimento fu smantellato e con esso fu tolta di mezzo la proprietà privata, compresa quella della terra, che fu riorganizzata sul modello collettivistico sovietico. Un prezzo particolarmente duro fu pagato dal mondo intellettuale che giustamente i comunisti avevano individuato essere come uno dei tramiti più importanti e solidi tra il mondo romeno e la civiltà occidentale. La chiusura di giornali, riviste, circoli letterari, una censura oppressiva, il più rigido controllo esercitato sulle facoltà universitarie, la fine di ogni scambio con le istituzioni culturali del resto d’Europa, l’imposizione dei canoni del Realismo socialista ecc. si saldarono con l’incarceramento di centinaia  di intellettuali  molti dei quali uscirono dalle prigioni e dai campi di lavoro solo cadaveri.
Forse dei tanti aspetti nefasti rappresentati dal comunismo romeno quello della chiusura con l’esterno segnato dall’interruzione di ogni relazione con qualsiasi altro spazio culturale che non fosse quello con gli altri Paesi in varia misura assoggettati al dominio di Mosca, ha rappresentato uno dei traumi maggiori procurati dell’esperienza comunista alla civiltà romena. Allo stesso tempo il potere non ignorò mai l’importanza della cultura quale strumento atto a facilitare la sua legittimazione presso la popolazione e, dopo il 1953, anche per garantirsi  maggiori spazi di autonomia  nei confronti  della potenza  dominante sovietica. Si trattava di aperture del tutto strumentali che non implicarono mai una vera discussione sul potere, sulle sue strutture di comando né tanto  meno sugli indirizzi di sviluppo  economico e culturale impressi al paese. Anzi negli anni più bui del regime di Nicolae Ceauşescu il controllo asfissiante esercitato sulla società aveva quale risvolto nelle politiche culturali una umiliante provincializzazione della cultura  romena  impostata sui canoni dei festival e dei concorsi di Cântarea României. Di pari passo la storiografia, se possibile ancora più assoggettata al dominio politico, era utilizzata esclusivamente quale strumento per inventare e legittimare presso la popolazione e gli studenti la vulgata di una storia gloriosa del comunismo romeno assurto, attraverso ricostruzioni del tutto destituite di fondatezza, a bastione dell’indipendenza del popolo  romeno. Un nazionalismo esclusivista condito con elementi della dottrina socialista ed esaltato da un culto della personalità farsesco, divennero gli elementi predominanti di un paese davvero ridotto a uno sterminato «Gulag dello spirito». Erano questi alcuni degli aspetti più appariscenti di un regime che aveva portato l’economia nazionale al collasso, umiliato e degradato un intero popolo e ormai si ritrovava sempre più isolato a livello internazionale. Alla fine degli anni ottanta la dittatura comunista romena poteva ancora sopravvivere solo in virtù del rigido controllo esercitato su ogni aspetto della stessa vita quotidiana dalla polizia politica del regime, (la famigerata Securitatea), che costringeva a un angolo gli sparuti oppositori e dagli interessi, anche materiali, che legavano a doppio e triplo filo gli alti dirigenti del partito  e i membri  della nomenclatura con il capo supremo. Per questo motivo penso si possa affermare che più di qualsiasi altro popolo dell’Europa centro-orientale per i romeni la fine sanguinosa di quel regime, la difficile rinascita democratica, e l’improbo lavoro di ricostruzione di un tessuto economico, sociale, morale e finanche mentale, hanno significato per prima cosa riprendere immediatamente le fila di quel dialogo con il resto della civiltà occidentale che pur logorato anche negli anni della Seconda guerra mondiale era in qualche modo sopravvissuto per poi spezzarsi in maniera  netta dopo il 1945.
In tal senso il volume di Hitchins forse rappresenta qualcosa in più di una pur eccellente opera di storia, le sue pagine così dense di fatti e riflessioni, caratterizzate da una narrazione dai toni pacati ma allo stesso tempo incisivi sono anche una sorta di doveroso omaggio intellettuale alle complesse vicende di un popolo che nel corso della sua storia contemporanea pare abbia dovuto rivendicare e quasi gridare con forza e disperazione la sua piena appartenenza all’Europa e alla sua più nobile tradizione culturale  e civile pur, naturalmente, con le sue peculiarità e con i suoi tratti distintivi.



Alberto Basciani
(n. 7-8, luglio-agosto 2015, anno V)