Matteo Veronesi, «Elegia a Nichita». Con una nota di Daniela Bisagno

Tutto diveniva lontano
come il cuore prima della morte.
Tutto m'era più prossimo
dell'iride ferita dalla luce.
(...)

Ma l'abisso della terra è ricolmo di morti

e non c'è spazio non c'è spazio non c'è spazio
per le domande.

Nichita Stanescu, La curva della luce

I

Eccomi anch'io, come te –
fratello
perduto negli abissi delle fronde
nel gorgo frastornato della luce –
giunto al mio colmo –
al mio culmine
da cui non resta più che aria e rovina

Ebbro anch'io della pienezza immobile
che si apre al cavo nulla
ai mille occhi del vuoto

E acquieto anch'io nel sacro
antico nettare il furioso fuoco
del mio domandare –
se pure dietro la svolta delle ore
sorga il gelido spettro del risveglio


II

Me stesso di me stesso ho colmato –
e me stesso del mondo, e di me il mondo –
tutto in tutti, pietra nel deserto
vento sottile nel pianto delle anime

Sorti dalle mie sature iridi
erbe ed alberi ed acque e voli e canti –
e gli antri delle ninfe
e sordi abissi d'Averno
in cui tremare e svanire
e la danza ardente delle sfere
in cui mi sono specchiato nel cielo della mente –
petali opachi del seme morituro
sorrisi miti e tristi
di ventilabri e di veli
a mitigare il nodo acre del tempo

(ed ora tutto è nulla, tutto
a un filo dalla notte, all'orlo tremulo
della pienezza prossima a disciogliersi?)


III

Presi, lo sguardo e l'anima
tra due infiniti –
tenebre
e luce, corpo e pura aria –
materia e fuoco, limite e vertigine –
cuore chiuso nell'urna del silenzio
e pianto effuso come antico incenso

E allora duri, cieco, nella sua
sottile ottusità quest'alto rogo
che si fa immagine e pensiero e suono e senso –
e fuga misurata, sorvegliato furore
e canto senza voce
e desolato amore


IV

E tu resti ancora nella tua Prahova sperduta
tutta raccolta e cinta intorno al breve cerchio
delle tue stanze nude e miti
in cui l'Europa venne a visitarti
da te attesa nella tua ebbra pazienza

E così mi vieni incontro, ombra o fiamma, fantasma
o giullare, demone
o salvezza –
tu come un punto, un'esile
traccia  in quelle radure senza fine
che abbracciano le strade e che nemmeno
sa percorrere l'occhio –
misurare
la laguna di vuoto e nulla che divide
il cammino dal limite
verde e buio, inviolato, delle selve  

Forse loro, sul crinale
dove bruca la capra
che al pastore profetò la morte –
alte sulla pietra che per l'eterno rinchiude
eternamente viva
la sposa del Maestro* –
forse loro ti hanno riavuto, loro figlio
nato dalle tue sillabe, e così da te la tua voce
come le foglie dal grembo dei millenni

Matteo Veronesi



In questi versi, la lezione dei classici, soprattutto latini, è un dato che emerge con evidenza tangibile, e si impone come un primo elemento di originalità. Innanzitutto a livello lessicale, nella scelta di lessemi pregiati, di eleganti iuncturae, che rinviano a un repertorio consacrato dalla tradizione greco-latina: «furioso fuoco», «gorgo», «sacro antico nettare»; di immagini di chiara estrazione mitologico-letteraria: gli «antri delle ninfe», i «sordi abissi d’Averno», «la danza ardente delle sfere», l’«alto rogo».
Per non parlare di quello sfoggio di aggettivi che crea, talvolta, specie a un orecchio poco esercitato, effetti di ridondanza, ma che risponde alla predilezione classica per la parola e l’immagine «opulente», per un periodare armonioso e fastoso, come dimostra il ricorso frequente al polisindeto («Sorti dalle mie sature iridi/ erbe ed alberi ed acque e voli e canti –/ e gli antri delle ninfe/ e sordi abissi d’Averno/ in cui tremare e svanire/ e la danza ardente delle sfere/ in cui mi sono specchiato nel cielo della mente – »; «E allora duri, cieco, nella sua/ sottile ottusità quest’alto rogo/ che si fa immagine e pensiero e suono e senso/ e fuga misurata, sorvegliato furore/ e canto senza voce/ e desolato amore»), l’impiego accorto di figure retoriche quali l’allitterazione (fra cui spicca quella, sofisticatissima, «ventilabri e veli»), l’anafora, la similitudine; per gli effetti stranianti dell’ossimoro («sorvegliato furore»; «fuga misurata»; «canto senza voce», «sottile ottusità», «ebbra pazienza») e delle antitesi («materia e fuoco», «limite e vertigine», «corpo e pura aria») di cui, fra gli altri, fece un uso magistrale il Petrarca.
Si avverte, insomma, la regia di un io poetico estremamente vigile, che esercita uno strenuo controllo sul linguaggio; che procede a colpi di labor limae, al modo dei nostri classici, appunto, con un gusto di ascendenza oraziana per il ricorso alla callida iunctura.
Il che ci offre la misura di una poesia – nella quale fra l’altro mi sembra di avvertire, talvolta, gli echi di un certo Pascoli, italiano e latino, specie nella ricorrenza di termini quali «tremare», «svanire», «tremulo», «pianto», «vuoto», «nulla» – la cui originalità è direttamente proporzionale al ripristino dell’antico, da non intendersi come movimento regressivo o involutivo, in vista di un’improbabile restaurazione, bensì come ripresa, per molti versi salutare (antico sempre nuovo, chioserebbe il già citato Pascoli), e che nel panorama italiano contemporaneo ha qualche precedente – con tutte le distinzioni, le cautele e le proporzioni del caso – nell’opera di Giancarlo Pontiggia, o dell’ultimo Pavese di Verra la morte e avrà i tuoi occhi.  
Soprattutto la poesia pavesiana (ma sarebbe più giusto chiamarla «lirica»), dalla struttura esilissima, in cui prevale lo stile nominale e dove i nomi sembrano attinti, pressocché interamente, dal repertorio di quegli stessi testi greci – Omero, i Lirici, Esiodo – che lo scrittore aveva studiato e tradotto, o si accingeva a tradurre, proprio in quel torno d’anni. Tant’è che la maggior parte di queste liriche si potrebbero agevolmente traslare in greco solo attingendo a quella sorta di glossario approntato da Pavese in vista della traduzione della Teogonia esiodea e del libro XVIII (se non sbaglio) dell’Iliade.

Un secondo, ma non secondario, aspetto che mi ha impressionato di questa lirica è la ricorrenza di immagini da ascriversi a un contesto psichico e letterario nettamente melanconico, come comproverebbe anche la ripresa di metafore allusive a uno smarrimento da intendersi quale caduta in un abisso (altro termine chiave), che dapprincipio assume dantescamente figura di selva («gli abissi delle fronde»), poi di «gorgo» (un altro lessema prediletto del Pavese di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi), di «antro» e infine di virgiliano Averno, equivalente latino dell’Ade greco.
Già i versi di Nichita Stanescu, scelti come esergo della poesia – «Ma l’abisso della terra è ricolmo di morti/ e non c’è spazio non c’è spazio non c’è/ spazio/ per le domande» – introducono a questa dimensione melanconica in cui si enuncia, nello stile dell’ossimoro, una pienezza (di morti) che è al contempo una penuria (di spazio).
La presenza così massiccia della morte annichilisce il linguaggio e chiama in causa una mutezza, in cui Walter Benjamin vede un attributo della natura e del lutto. La natura è in lutto perché muta, e viceversa, il suo mutismo sarebbe, secondo il filosofo, l’esito fatale di un lutto che la opprime. Senza considerare che, in ogni lutto, si ravvisa un’inclinazione all’assenza di linguaggio che va ben oltre la mera inabilità alla comunicazione. Potremmo anche dire che qui, in questi versi, la natura si mostra silenziosa, disseminata di segni luttuosi, perché è lo sguardo saturnino dell’io poetico a intriderla della sua tristitia.
Una tristitia che neppure la luce è in grado di irradiare, giacché il suo «gorgo frastornato» – vuoto o nulla – non è più luminoso del buio. Non si pone come un lumen naturale che illumini la notte della tristezza, ma come elemento ostile e ostico, al pari dello spazio in cui si muove (o arranca) l’io poetante, tanto da bloccare e inibire ogni ulteriore tentativo da parte dello sguardo di passarvi attraverso.
Perché è evidente che questo sguardo appartiene – per dirla con Starobinski – al rimuginatore. A colui il quale non si accontenta di rimanere alla superficie, ma si addentra in profondità abissali, nel gorgo, quasi sinonimo di pozzo (penso al baudelairiano «pozzo di Verità», o al «pozzo della mia malinconia» di Charles D’Orléans in cui «l’acqua di speranza» si intorbidava per diventare nera come l’«inchiostro del calamaio»).
Tutta la saggezza melanconica è figlia della profondità, dove lo sguardo rivolto verso il basso contraddistingue l’uomo saturnino che trapana il fondo con i suoi occhi. Dà luogo a una riflessione e autoriflessione che, nella misura in cui riesce a toccare l’acme della sua ricerca («giunto al mio colmo –/ al mio culmine»; «me stesso di me stesso ho colmato»), perviene a quel sapere che è del pari consapevolezza del male (e del dolore), riconducibile all’esperienza malinconica nella sua polarità di esaltazione e abbattimento.
Immagini quali «furioso fuoco», «antico nettare», «danza ardente delle sfere», «pienezza», «ebbra pazienza» sembrano generate sotto l’impulso del primo di questi due stati estremi. Per converso, «rovina», «cavo nulla», «gelido spettro», «pianto effuso», «canto senza voce», «desolato amore», solo per citarne alcune, sembrano dettate da quella sensazione di abbattimento e prostrazione tipica del secondo stato o virtualità (l’abbattimento) dell’esperienza affettiva melanconica, la quale appare spesso dominata – come ci insegna Starobinski – da un sentimento di pesantezza, «inseparabile dalla rappresentazione di uno spazio ostile, che blocca o impedisce ogni tentativo di movimento, e che diventa in tal modo il complemento della pesantezza interna».
L’io poetico, che parla – come diceva Charles Péguy – «nello spirito della tristezza», mentre da un lato denuncia il mutismo (la pesantezza) delle cose, dall’altro non può non segnalare anche la grevità del soggetto che vuole nominarle. La sua pienezza, «immobile» non altrimenti da quella della «pietra nel deserto», allude a una sterilità senza rimedio, nella quale fa capolino l’idea di una sazietà nefasta all’origine della pesanteur interna di cui accenna Starobinski.
Il che ci autorizzerebbe a cogliere nella rosa di termini quali «saturo» («sature iridi»), «colmo», «pienezza», «immobilità», alcuni sinonimi di «noia» (lo Spleen baudelairiano), la quale è a sua volta, nella poesia di Baudelaire, la parola-schermo dietro cui si asconde quell’altra parola impronunciabile: malinconia. Non mancano neppure lo specchio (specchiarsi «nel cielo della mente») e il «gelido spettro», immagini o emblemi che confermano, senza possibilità di equivoci, la matrice melanconica di questa poesia.
Anzi, più che emblemi sarebbe forse il caso di chiamarle allegorie, di cui il Lutto è, come dice Benjamin, il padre e, insieme, il contenuto intrinseco. Quel «cavo nulla», quel mostruoso «vuoto dai molteplici occhi», quel «gelido spettro», nunzio infernale di un risveglio che restituisce il soggetto a una dimensione diurna avvertita come ostile, sono immagini nelle quali è percepibile l’aura dell’allegoria, figura in cui l’aspirazione ad appropriarsi dell’inappropriabile, a dar corpo ai propri fantasmi, costitutiva anche del simbolo, è all’opera in maniera forse ancor più drammatica e imperiosa.
L’io poetante si aggira, a fatica, in uno spazio disseminato di rovine, lo sguardo gravato da una pesanteur («sature iridi») che intorbidisce la sua visionarietà, permettendogli di cogliere solo le reliquie, membra disiecta di un insieme ormai affatto sgretolato, dissolto. Come dimostrerebbe, fra l’altro, l’assiduo ricorso al polisindeto, che accosta semplicemente, invece di unire, questi frammenti sperduti – quali ambigue spoglie emblematiche o schegge di un Tutto di cui sono andati smarriti per sempre il senso e la dimensione originari: «Sorti dalle mie sature iridi/ erbe ed alberi ed acque e voli e canti –/ e gli antri delle ninfe/ e sordi abissi d’Averno/ in cui tremare e svanire/ e la danza ardente delle sfere/ in cui mi sono specchiato nel cielo della mente – »; «E allora duri, cieco, nella sua/ sottile ottusità quest’alto rogo/ che si fa immagine e pensiero e suono e senso/ e fuga misurata, sorvegliato furore/ e canto senza voce/ e desolato amore».
Senza dimenticare che l’uso di questa figura retorica produce, al contrario dell’asindeto, un effetto di rallentamento e dilatazione. E ciò finisce per accrescere quel senso (penoso) di lentezza e grevità che sono alcune fra le caratteristiche più costantemente attribuite al personaggio melanconico. 

La poesia si conclude con l’evocazione e l’apostrofe a Nichita Stanescu dedicatario dei versi: più che alter ego del poeta, sorta di Virgilio dantesco che gli viene incontro in forma di «ombra o fiamma», «fantasma o giullare», «demone o salvezza». Il ricorso al polisindeto, oltre a creare, in questo caso, un effetto di sovrabbondanza, in virtù dell’accumulo di immagini, produce, insieme, grazie all’uso delle disgiuntive («o…o»), un effetto straniante che allontana la figura del poeta nell’istante in cui cerca di avvicinarla. Come se il vicino non potesse darsi se non nelle forme di un lontano, la pienezza se non nei modi di una mancanza, il presente se non nelle forme di una perdita, giacché lo sguardo del poeta, come quello di eros è sempre occhio del desiderio della nostalgia, perché ha perduto qualcosa, perché deve perdere le cose.
Non per nulla, la figura di Stanescu, evocata sullo sfondo di una «Prahova sperduta», è un’icona che si dissemina, simile a un corpo riflesso sulla superficie di una molteplicità di specchi. Quasi l’«ombra», il «fantasma», il «demone», la «fiamma» (tutte immagini dotate, fra l’altro, di una forte valenza allegorica) non fossero altro che membra disiecta, emblemi di un corpo (e di un «io») sperduto, di cui si può dire solo disseminandolo, cioè riducendolo a spoglie o, nel linguaggio alchimistico, sottoponendolo ad Aufösung (dissoluzione).
«Il gioco del gioire è quello di una perdita» scriveva Michel de Certeau, quasi parafrasando la splendida definizione della tristitia salutifera data da Giovanni Climaco, che ritroveremo tanti secoli dopo anche nel romantico Hölderlin, come «lutto che crea gioia». Ovvero: una tristezza dell’anima e un’afflizione del cuore che cerca sempre ciò di cui è ardentemente assetata. L’ambigua polarità dell’acedia o melanconia diviene così «aureo stimolo dell’anima», «lievito dialettico» in grado di trasformare la privazione in possesso, di comunicare paradossalmente con il suo oggetto, sia pure nella forma della negazione e della perdita.
Ma questa è anche il culmine dell’operazione poetica: aprire uno spazio all’epifania dell’inafferrabile, che qui s’intravvede nei contorni sfuggenti di quella «Prahova sperduta» sullo sfondo della quale appare dissolvendosi, come nebbia fantastica, la figura virgiliana del poeta Nichita Stanescu.


Daniela Bisagno


(n. 9, settembre 2015, anno V)