Ivano Mugnaini: «Per vie traverse». Raccolta inedita

Proponiamo i versi della raccolta inedita Per vie traverse di Ivano Mugnaini, autore di testi di poesia, prosa e saggistica. La poesia omonima che dà il titolo alla raccolta compare nel libro Il tempo salvato, pubblicato ad ottobre del 2010 per i tipi delle Edizioni Blu di Prussia, con la prefazione di Luigi Fontanella.







Per vie traverse

Distante è l’arcano dell’ombra,
la trama di luce mima quiete antica,
grida di fronte ad una scuola
la pace generosa di quando
il futuro giocava felice, ignaro,
lontano il terrore dei numeri,
il modulo da compilare passo passo
negli spazi prestampati.
La strada ora è sentiero scosceso
cosparso di foglie, meraviglie
inattese di istanti accanto
a spuntoni, lame nude, nidi
secolari di serpenti che specchiano
nel sarcasmo stordito degli occhi
la stessa sete di fuga, polla vitale
follia sotterranea.
La libertà ora è l’orrore e la fame,
un incontro casuale sotto alberi muti,
oppure l’attimo, il ricordo di un corpo
sottile e tremante come un’anima,
possente soltanto di occhi che sorridono
e ti inghiottono nella dolcezza
mortale, vitalità senza fine
di una bontà tenace, bambina
che ora, nel vuoto denso
delle vie traverse che hai
e che ti hanno scelto,
pare, forse, possibile.



Un sole ritrovato


Il tempo, tarlo ilare, ti lascia
spossato, sereno quasi, a chiederti
come, per chi, per cosa si possa ancora
resistere. Nel trionfo di ombre ricurve,
sorrisi tetri acquistati in negozi
blu metilene, nel riemergere
di relitti adulanti, vedi  riflesso un cielo
senza tempo umano, liturgia becera e ostinata
del nulla interrotto soltanto da auto, caffè,
creme antirughe, deodoranti dai taumaturgici poteri.
Ma nell’atto del cedere, nel riso spento, vano
di resa, ti squarcia, ti salva rabbia densa,
lava, coscienza, molecola, un bosco, una fuga,
il gelo il fuoco, paura e fame di respirare.
C’eri anche tu, ci sei nei boschi, nelle macchie,
nelle vie esposte agli occhi d’acciaio delle finestre,
è tuo il sangue, il tremore, non è dispersa
la lama di un sole ritrovato.
Oggi è ancora fitto il buio, urla
grida soffocate di iena, di faina,  avanza
astuta la minaccia camuffata, veli di tulle
e di organza. Non resta che guardarci in faccia, risalire
zaino in spalla antiche mulattiere
della mente, offrire al piombo e al vento
il petto e un riso d’alta quota, canto
assurdo, vitale che sa di futuro che sa dire
ancora con avida gioia un sì e un no, l’orrore
e la speranza di un eterno divenire,
la certezza effimera ed eterna, volo
di farfalla che smuove il cosmo, il tonfo, la rincorsa
quasi dolce, quasi lieve
del ricominciare.



Non è ancora finito


Non è ancora finito, il viaggio, la fuga,
occhio che schiva e divora, le pietre, le cose,
le tette sode delle donne genovesi, golfi, vallate
percorse fino a gioire del dolore, muscolo cardiaco
spalancato su flussi immani, d’emozione.
Sei ancora vivo, in cammino su fogli
lisci, candidi, ignari del senso profondo
di te. Ti esaltano, ora, gli intellettuali, i padroni
della latrina hanno appeso alle pareti levigate di cartavetra
la tua immagine, la mandibola, la bocca muta, ora, serena.
Campano adesso, i tuoi compaesani, con le bibite
e i funghi trifolati acquistati da turisti frettolosi.
Non è ancora finito, l’esilio forzato nelle terre
di confine, domini eternamente recintati, cavalli
di Frisia per carni che sanno tremare.
Anch’io, come vedi, ti rammento e tormento parlando
di te, dell’idea che ho voluto, cercato, tradendoti forse,
per troppo amore. Ed è giusto, è opportuno allora
immaginare la tua testa folta di capelli, rabbie indocili
ad ogni geometrica divisa. Pensarti mentre leggi, ascolti
il tuo nome gettato in abissi di vento e lasci anche tu,
a tradimento, spuntare un ghigno feroce  di luce. Un sorriso
ed uno sputo per dire, con trionfo solenne, amaro, che 
non sei morto, malgrado chi continua a volere
capire, chi sogna di averti in una formula, un rito,
per dire loro ancora con un sorriso di sbieco che no,
non ti hanno ripreso, il viaggio
non è ancora finito.



La chiamasti amore


La chiamasti amore, lei, l’enigma,
Sibilla, la poesia, la poesia, carne
soffice, molle nelle mani sopra
gabbie di tendini, ossa cieche
all’abbraccio più feroce,
occhi sbarrati, croce, delirio,
le braccia puntate sul letto,
mitra di carne, fuoco mentre
ride, serena, intangibile.
Ma resta, lì dove non sai vedere
né toccare, nell’iride azzurra
del tuo occhio di colosso
montanaro nutrito di caglio denso
ed aria eterea di panorami
strappati alle urla del vuoto e del lavoro,
il sorriso dell’attimo breve, infinito
in cui forse l’hai amata, posseduta
senza sfiorarla, compresa nell’ombra
delle stanze, nel vetro della finestra
socchiusa in cui, guardandola,
l’hai scordata, cercandola l’hai smarrita,
perdendoti l’hai veduta, vorace,
identica a te.



Chimera


La più ardua e la più chiara, notturna
“Chimera”, perla in uno scrigno di velluto
nero. “Non so se tra rocce il tuo pallido
viso m’apparve”, scrivi, urlo e sussurro
alla tua eterna Gioconda, sorriso di sfida
tra le dita del mondo. E il mistero di lei lo chiami
“dolce”, tu che dalla vita hai spremuto mosto agro
fuori e contro il tempo. “Dolce sul mio dolore
è la Chimera”. Ed il dolore, ora, è mio e tuo,
il più folle dei furti, pietra preziosa immensamente
pesante venata d’oro nel profondo.
Allora, pur non comprendendo, per sorte e per fortuna,
vedo anch’io in un riflesso lunare, la faccia, la pallida guancia,
la fronte fulgente, luce che acceca occhi tetri.
Felice di non capire, condivido forse con te un attimo di suono,
eco lontana, una valle in cui scorre cupo e forte il tuo fiume
e due ragazzi urlano muti l’amplesso liquido del loro amore.
Sorride ancora la tua Gioconda Chimera e l’orrore adesso
è abisso in cui ansima, urla armonia aspra di bora e fluida
di resina, la tua poesia.
Nell’immobilità dei firmamenti, tra i gonfi rivi respira
l’arcano del pianto e del riso che hanno fatto di te
te stesso. Anch’io adesso per un istante osservo
le ombre del lavoro umano, tempo senza misura, senza
la chiave che apre e sbarra al cuore lo spazio vitale
di dolore e voluttà, anch’io, forse, vedo e sento, nel viso di lei,
il sorriso di un volto notturno, e ancora per teneri cieli lontane
chiare ombre correnti. E ancora, anch’io, la chiamo,
la chiamo Chimera.



Il sangue del fanciullo


Il sangue del fanciullo, lo hai scritto
tu stesso, è questo solo, solo questo
che conta. “They were all torn and covered
with the boy’s blood”, erano laceri e coperti
del sangue del fanciullo; con questi versi si chiudono
i tuoi “Canti”, le orfiche stanze sacre e maledette.
Fosti tu a dire che in questo distico finale sta l’essenza.
Il sangue del fanciullo, quale, chi?
Una vittima sacrificale, un redentore che ha provato
a pronunciare amore nel vento del deserto? Oppure
un fanciullo come tanti, scannato per sbaglio, per errore,
con cieca coscienza, per una forma di sadica
giustizia, la bava di chi gode nel vedere soffrire
ma palpita con uguale trasporto per la foga di avere
ragione. Il sangue di chi è ancora troppo giovane
per smettere di sognare, liquido inchiostro
a stillare l’eterno conflitto tra dire e sentire, tra il sole
e il giallo smorto, umana incapacità di plasmare colore.
Il sangue oscuro, esile, di queste parole,
o forse il tuo stesso sangue, ferita scavata
da chirurghi veri o presunti, dozzine di elettrochoc, cortesia ipocrita
degli amici, silenzi, voci, fuoco che hai voluto rubare
sapendo che il tuo cuore era il bosco sensibile alle fiamme,
rapido a farsi cenere, avido di radure, spazi nuovi, nuove
morti, nuove vite, da vivere e da scrivere,
da scrivere,
da vivere.



La notte


La chimica pura e corrotta
dei tuoi studi, gli anni
giovanili, terra d’elezione,
stagione effimera interminata
della mente, la notte,
compagna insaziabile assetata
di sangue delle tue narici,
sudore dei lombi, mani perdute
nella frenesia ponderata dei tuoi
Canti. A lei hai dato tutto,
e non importa cosa hai avuto
in cambio. Il tuo seme sparso
nel grembo ha generato un corpo
arcano, rosso di sangue e grida,
pronto a correre, a fuggire,
appena nato.
Alieno alla luce, al riflesso paziente
delle aiuole, suore dai capelli a larghe
tese, ombra di chiese consacrate soltanto
al santo protettore del potere.
Le cosce della notte, sode, calde, distese
è lì che hai gettato i tuoi pensieri,
da loro li hai lasciati stritolare
per ritrovarli fertili, schiusi,
urlanti di forme di parole.
La notte, calore di geli senza fine,
i guanti a scaldare la penna,
nella bocca il diamante di un riso
da incastonare nel tremore
di un concetto, un’idea, pietra
che forgia e misura
il corpo del mondo,
frantumandolo.



Solamente la vita


Che fossi un poeta non lo immaginava
nessuno; per i tuoi compaesani eri un mistero vociante,
un ingombro, sguardo dritto dentro gli occhi, roccia pregna
che scende a valle strappando brandelli di pelle e di selciato.
Per tuo padre, maestro elementare, eri un problema formulato male,
inadatto al Regio Programma Ministeriale, impossibile
da proporre nell’ambito di una canonica lezione, nella sessione
di un anno scolastico ordinario. Per tua madre un capriccio
troppo rapido, gioco complice, canzone che nasce esile
su note semplici, trillate, bisbigliate, poi prende il volo,
la gola, il fiato e fugge via, incontrollabile, oltre
l’anta di una finestra aperta a metà sulle foglie e sui rami
di un tiglio. Per gli scrittori del tuo tempo un paio
di scarpe sporche di fango, mano gonfia di calli, manici
di zappa immaginari, campi avari da dissodare.
Ti hanno ucciso con grassa innocenza, la colpa tetra
della noncuranza, disprezzo di fronte al computo
ineluttabile della verità. Eri in viaggio verso l’uomo,
brivido di fronte ad un immenso che aveva rapito a sé anche
il cuore del recluso di Recanati. Hai pagato, ogni verso, ogni respiro
strappato alla muffa dei sorci e dei muri. Ora sappiamo chi eri,
chi sei, sappiamo chiamarti poeta. Ma il verso, la rima,
l’armonia di dolori sillabati nella realtà  di una falsa, felice
pazzia, sa scriverla, adesso,
solamente la vita.



Oltre confine


Ai margini di un sole malato di polvere, mentre scivoli quieto
sul domestico gelo di ghigni televisionari assatanati  di cipria di audience
e di share, qualcuno, laggiù, oltre confine, muore. Rannicchiato sotto fragili travi
muti terrori di strade rubate un solo istante all'urlo
di vetriolo del vento. Muore nel fragore di schegge
sguardi che squarciano vene esili di tempo. Di un tempo che senti
non tuo, occhio vitreo che non chiede più niente, mosca che ronza su tracce cupe
che furono sangue, pensieri, speranze. Muore, fuori zona, fuori target, oltre
i limiti accessibili del cuore. Muore per finta, forse, per giustizia, per errore,
che importa, muore e basta, lontano dalla porta di casa, dal prato fresco e liscio
del tuo giardino, laggiù, lontano, dove l'orrore è immagine breve, flash sfocato
prima dello spot colorato e carino, del tuo profumo preferito o del magico
bocconcino che rende felice il tuo cucciolo amato. Eppure, se guardi
meglio, se tieni l'occhio sullo schermo un attimo in più, senti
sulla faccia un tocco gelido, rena inerte che divora i tessuti,
mosca che esplora ossessiva carne e stracci di pelle
e di ossa abbattute di schianto sul suolo. E un po' muori
anche tu, oltre confine, oltre il cancello serrato, in una terra
a te ignota che scopri d'un tratto anche tua, come le vene,
i sospiri, grida e preghiere che vibrano  e tremano
nel tuo stesso sole. Muori anche tu, e, per non morire,
per non sbattere secoli infiniti contro mura impalpabili
di follie, ti unisci anche tu al grido muto che si leva
dalla carne della terra, squartata, strangolata da milioni
di assurdi granelli. Gridi e sussurri anche tu, senza più
pensare se sia esatta la lingua, il verso, la frase, e quale sia
l'angolo, il punto cardinale del cielo verso cui alzare lo sguardo.
Perché quando muori dentro, oltre confine, oltre il tuo confine,
ti accorgi che c'è un solo cielo, un solo sole verso cui guardare.
Un'alba tenera e tenace in cui rinascere scrutando occhi chiari
e sereni, pioggia tenera, parole, germogli inattesi di giustizia
su un deserto sterminato di cui scopri all'improvviso la chiave,
l'uscita, il respiro fragile e immenso di una primavera infinita.



Il vino più sapido, amore


Se questi versi colassero da soli
miele aspro di giovani incoerenze, potrei stringere
ancora dita e parole di vento, grappoli turgidi
di seni, gocce chiare, istanti stillati uno ad uno
su prati  di girasoli che sbarrano al cuore sentieri pietrosi
di tempo. Potrei, ma l’ocra tenue è intrisa, ora, di geli ottusi
di ragioni. Il lento veleno è penetrato, muto nei tessuti, gli acini si serrano,
adesso in solchi sottili, rugginose riflessioni.
Tocca a noi, ora, trovare il modo, la maniera, distillare
in una carezza brividi, sguardi, anni smarriti, dispersi,
sospesi tra ciò che è stato  e ciò che sarà.
Tocca a noi cogliere il graspo essiccato,
sorbito da fauci sterminate guardarlo, sfiorarlo con mani
tremanti, ansie, emozioni ancora vive, sensibili
ai sussurri della brezza. Tocca a noi stringerci con tenera 
violenza, sentire di nuovo il cuore dentro il petto  e non sapere
più a chi appartiene, se è il tuo, il mio, quello del mondo,
della vita che ancora urla, ride, respira, fuori e dentro noi.
Tocca a noi premere, aderire, pronunciare nel profumo dei capelli
frasi mai dette, verità nuove, antiche paure da annientare,
specchi nitidi da fissare negli occhi senza frantumare in ghigni
rabbiosi sorrisi sinceri di realtà. Tocca a noi scoprire che il grappolo
scuro è ancora denso di succo.Il vino più sapido, amore, è quello
stillato da pieghe grumose, ogni sguardo, ogni sole, ogni tempesta
che sapremo trasformare in liquido translucido, giorno dopo giorno,
sorpresa inebriata ignota ad agende e calendari; essere ancora
assieme
dèi terresti e fragili
umanissimi e immortali.



Inestinguibile


Qualcosa oltre l’oceano, oltre le ondate identiche
insistite che spazzano la mente di melma lenta
putrida di detersivi, pannolini e bocconcini assortiti
per i cani, qualcosa oltre la bava di lumaca dei mercati,
brillantina di manager in cravatta a righe diagonali, stages
e progetti globali di investimento, qualcosa oltre, un sole diverso,
rosso di lingua che sfiora e ride, seno nudo
che danza senza pensare al giusto e al vero, alle scatole
nere degli aeroplani, alle cause sante, ai ruoli mondiali
di guida e orientamento. Qualcosa oltre, uno spazio,
un progetto, labbra di terra, esili e possenti di vento
lambito dal mare, umide, testarde, sfarinate, riemerse salde, tumide,
ad ogni alba purpurea ancora calda, ancora viva.
Qualcosa oltre, è questo che ci vogliono rubare,
millimitrare l’orizzonte, questo è ciò a cui mirano,
con le linee geometriche di un codice a barre universale.
Qualcosa oltre, il sogno e la pelle di te, l’assurdo,
l’errore forse, l’illusione, la voglia e la speranza
che si possa ancora andare dove il cuore smarrisce
il confine, il margine prestabilito, e il calore del sogno
brucia ancora, dolce di miele e di sale inestinguibile.



Un respiro di luce


Quale forza Vincent, quale mistero,
quali miriadi di tratti intrecciano attimi,
mura, dita che spezzano e serrano
legno e  ferro, senso e direzione, quiete
sterminata  nell’urlo di tempesta, tarlo,
luce, fame di carne, pane, finestra
spalancata su una stanza gialla,
febbre putrida, anelata, vento indurito
di cipressi, lenti i gesti nutrono
l’attimo, verde muto, iridi dense
di silenzio, ocra, parola, sangue di pioggia
di un volto sospeso, fermato sulla pelle
di un quadro ancora fresco, ancora vivo.
Quale frase Vincent, quale risposta?
Mi osservi, ed il rosso della barba si apre
in un progetto di sorriso. Mi guardi e mi porgi
il dono crudo di una verità. Il vuoto, cavità
pulsante, orecchio reciso, tessuti, suono, corpo
del mondo offerto ad una donna senza cuore, riso
inebriato del bordello di Arles, membra molli, abiti
leggeri su morsi di eterne sifilidi. Eppure sorridi
Vincent, c’è una piega lieve nella bocca
del tuo autoritratto. Sorridi, e non ti importa sapere
se la ragazza è l’arte, la vita o solo una donna
che ti abbraccia per mestiere. Ti sei dato a lei,
l’hai stretta con ogni stilla di linfa e calore, e forse
l’hai avuta, è stata tua, nel sogno, nel vero,
l’attimo breve in cui è infinito il respiro di luce
ed è acceso di mistero l’oro di un girasole
rubato al crepuscolo, al misero eterno
padrone, tempo senza forma, senza colore,
ombra ingobbita di una tetra, imbruttita ragione.


(n. 1, dicembre 2011, anno I)