«Dalle prigioni del Paradiso»: Iurie Bojoncă, un poeta bessarabo autoesiliatosi in Italia

Poeta per vocazione, profondamente contaminato dalla poesia (così ha scritto di lui Victor Teleucă), portatore di fresche sonorità nella lirica bessaraba e lontano dalla fauna dei letterati, Iurie Bojoncă vive il destino poetico a modo suo. Non fa parte, dunque, del branco, non sta con le coorti di grafomani, non ama il rumore fatto dai nani maniaci della scrittura; manifesta, piuttosto, inibizione davanti alla pagina bianca e fa, per citare le parole di Vasile Andru, digiuno totale di agorà. Ma la sua lirica è coinvolgente, impegnata, di protesta. Anche se dice che l’uomo è poesia o addirittura che il mondo intero è poesia (Autunnale), il poeta, disilluso, rimprovera l’umanità ed è preoccupato per la sua sorte. Accusa, certamente, il pugno della vita, l’esistenza vissuta col dolore e il tributo del pianto. Spera che si possa essere umani almeno per un giorno, e lamenta il terrore della Storia che opprime la terra bessaraba: «capirete che / sia nata qui la tristezza». Ma non perde la speranza nella redenzione del suo popolo.
Sentendosi libero in tutto ciò che dice e bagnando la bianca pagina dei propri pensieri, il poeta (nato il 28 agosto 1961 ad Antoneşti-Ştefan Vodă) e laureatosi presso la Facoltà di Filologia dell’Università Pedagogica Ion Creangă (1983) di Chişinău, dopo aver lavorato come preside in una scuola di Băcioi, fissa la sua dimora a Chişinău. Ha esordito nella raccolta Sette giovani poeti (1989) col florilegio Chiedo la parola. In seguito, ha pubblicato L'antro della nebbia (1996), La paura di scrivere (2002) e Messaggi dalle carceri del paradiso (2003). Volendo essere un adolescente sincero, accusando un freddo dell’anima, Iurie Bojoncă scrive proprio per ammansire la solitudine: Maneggiando la parola e riconoscendo l’onere dei segni scritti, egli è marchiato dalla responsabilità e condannato a scrivere: «Giù il pavimento / è un fondo di bara, / Sopra il soffitto / è un coperchio di bara / in cui io vivo / e scrivo, scrivo, scrivo…» (La mia bara). Evidentemente, il poeta non gioca a scrivere; ha una finestra magica dalla quale scruta avidamente il quotidiano come testo naturale, riversa sulla in pagina tutto ciò che ho avuto e capisce che il lusso di fare letteratura appartiene a coloro che sono «picchiati sulla testa / dal bastone di Dio».
Col tempo, egli è maturato parecchio e, ultimamente, soggiorna alla frontiera testualizzatrice (Mihai Cimpoi). L’arredo poetico postmoderno non gli è sconosciuto. Ambizioso e studioso, Iurie Bojoncă è diventato disinvolto: in seguito a un idillio con la macchina da scrivere, testualizzando la sua  secrezione  lirica,  ora è ammaliato  dall’intertestualità. L’impollinazione postmoderna ha prodotto i suoi frutti. Il poeta provoca un dialogo con George Bacovia, convoca nomi illustri (da Nichita Stănescu ad Alexandru Muşina, per essere precisi), è convinto di firmare poemi immortali. Riconosce, pentito, come questa realtà non sia mai stata poesia. Non ama, pertanto, la poesia grezza e non pratica il rebus poetico. Aveva ragione Gheorghe Vodă nell’osservare quanto il nuovo venuto, accolto con parole di encomio, scrivesse con semplicità, senza astrazioni vane. Il brivido postmoderno non ha spazzato via la tenerezza e le eruzioni idilliache. Superata l’età della metafora lacrimogena, il poeta confessa di scrivere con l’anima. Invoca la donna amata – altare di carne, cerca incessantemente la purezza e la bontà (L’uomo di pane), rimemorando con nostalgia (Nevicata ancestrale) un  territorio  paradisiaco:  gli inverni fascinosi di una volta restano nella fiaba, i fiocchi di neve sono «lacrime di latte / dai seni di madre Maria», infine, riverberando una eco di Nichita Stănescu, veniamo a sapere che «fuori nevica silentemente / come nel sogno di un bimbo / ancora non nato…»
Poiché il poeta – imbrattatore di giovane carta – è, alla stessa stregua, l’inferno e il paradiso, egli può scrivere memorabilmente: «Abbiamo ucciso la foresta / per divenire croci…» Poeta interessante, bene insediato in una formula lirica, ancora ignorato in patria, Iurie Bojoncă sarà – osiamo una profezia – un importante nome della lirica bessaraba.
È palese che il poeta non si rivolge per caso alla poesia e che non ha bisogno di amichevoli operazioni di rigenerazione, nonostante l’appiattimento al quale esortano gli autori degli anni Ottanta (dei quali fa comunque parte). Autoesiliatosi in Italia, egli propone nel 2007 un libro epistolario (Il fiume Zero e il pioppo solingo con la prefazione di Svetlana Paleologu-Matta). Le lettere indirizzate a Grigore Canțâru, l’amico rimasto a Chișinău, alternate con poesie «assortite» comprovano la presenza di un commentatore provetto, per il quale la scrittura rimane un «calmante». In tonalità gravi, accusatorie, o con cenni trasparenti, in chiave ironica, egli condanna la prostituzione politica della «repubblica fantoccio» (la «repubblichetta» di Dumitru Matcovschi), i giochi alla «schiavitù moderna», che lo hanno indotto a scegliere la strada dell’esodo. Ovviamente serba nell’anima questo frammento di Patria, rimpiange la terra natale incatenata tra due fiumi-confine, vede nel Fiume Zero un topos dell’esilio, come notava qualcuno, invocando perfino una rivincita storica (La memoria  genetica). Residente a Mogliano Veneto, presso Venezia (che sarebbe la più bella donna del mondo), il poeta ravviva i testi con raffinatezze intertestuali (numerosi sono i cenni emineschiani, per esempio). Se «il tiglio fiorito/ è pura poesia», il pioppo (divenuto proprietà interiore) pensa alla solitudine. Mentre nei momenti in cui la solitudine prende a noleggio la sua persona (come confessa), il poeta, lontano dalle voluttà agresti o dal neorealismo urbano (soffocato dal presente e da ciò che è meschino) ha la forza dei rimodellamenti autoironici. Dovendo portare il gesso in seguito a un incidente, egli si considerava un inizio di monumento contemplante il pioppo davanti a casa sua. Eminescu rimane, salvatore, il cuore delle tribolazioni romene, le realtà della patria, inevitabilmente, lo addolorano, portandolo a denunciare la prigione coloniale bessaraba: «Eppure siamo un popolo fatato/ senza patria da duecento anni/ ma con un pastore ogni giorno».
«Scritto» dagli stati d’animo che vive («Chi scrive che/ neanche più si sa»), preso d’assalto da odori lessicali e da parole tremule, il poeta vorrebbe essere, forse, un domatore, riscrivendo le poesie diluite col cielo; arrivando alla porta di una parola è colto da timori: bussa timidamente «come alle porte del paradiso/ ma nessuno risponde». Ciò che ammalia nella lirica di Iurie Bojoncă – assicurandone la combustione – è questa lunga confessione, che accetta finanche la veste della prosa, scendendo nel banale della quotidianità (arricchita da brividi poetici), aprendosi alla vita:
«Per poter piangere/ ma anche scrivere/ queste righe/ insanguinate». Perché, in fin dei conti, Iurie Bojoncă crede, anche lui, che meditando eccessivamente sulla scrittura commettiamo un atto castrante; mentre il poeta non gradisce una letteratura da eunuchi. Sa che la poesia non deve mancarci, essendo l’unica in grado di sanare il mondo. Un ribelle orgoglioso, dunque, non «rinsavito», estraneo alle politiche di gruppo e alle ossessioni  generazionali, Iurie Bojoncă sta edificando un meritorio destino letterario per conto suo. Il che imporrà, nelle classiche fatte in patria, necessarie rivalutazioni e ricalibrature. Ne è prova la raccolta bilingue Din puşcăriile paradisului / Dalle prigioni del paradiso (Ed. Art Press, Timişoara, 2010), con la traduzione italiana di Viorica Balteanu
.

Adrian Dinu Rachieru




Dalle prigioni del Paradiso

Le terre sul Prut [1]
e persino d’oltre il Nistru [2]
il sud della Bessarabia,
nondimeno la dolce Bucovina [3]
mai hanno avuto la fortuna di far parte della Madrepatria
sono e restano ancora
delle carceri colonialistiche
avvolte
da filo spinato,
noi siamo i carcerati,
paghiamo il fio
per la singola colpa
di aver commesso l’imprudenza
di nascere romeni.
e queste grosse istituzioni
hanno tutti i requisiti occorrenti
bandiera–stemma–lingua,
mercati con ogni sorta di merce,
monumenti d’arte,
patiboli sofisticati
celati in seminterrati e cantine,
chiese moderne
cresciute come funghi
non in seguito alla pioggia,
ma in seguito ad una lunga notte,
bordelli antichissimi
con tradizioni remote lavorano senza sosta
e così via.
Il capo del penitenziario è
liberamente eletto
e il voto pare segreto,
ma dopo le elezioni abbiamo tuttavia
solamente rimpianti.
si fanno leggi
anzitutto per noi
in quanto essi non ne hanno bisogno
e chi può ossi rosicchia [4].
ogni tanto capita
che si facciano preparativi
per far sì che un milione [5] di ergastolani
evadano sparpagliandosi per ogni dove,
Lasciando casa e genitori e figli...
Partono tutti per non morire di fame
invece  non arrivano troppo lontano,
in quanto il mondo non è poi così grande
e la terra è sempre tonda,
non so come riescano ad evadere
in quanto raggiungono puntualmente il carcere originario
o son attratti forse dal  piede di declivio [6]
dopo di che un ben altro piede
sferra loro un calcio nel sedere
oppure dice loro forse delle parole magiche
il Compare Mior con la bocca di paradiso [7]...
eppure siamo un popolo fatato
senza patria da duecento anni,
ma con un pastore che non ci lascia manco un dì.


NOTE

1. Fiume che scende dalla Bucovina e sfocia nel Danubio. Dagli anni ’40, ingiusto confine che
Separa romeni da romeni. Per i romeni bessarabi la Madrepatria è la Romania.
2. Conosciuto pure col nome slavo Dniestr, il fiume fu trasformato dai filorussi in confine insanguinato, nel 1992, per dividere la Trasnistria dal resto della Bassarabia.
3. Sintagma caro a Mihai Eminescu, a tutti i romeni non imbastarditi, mentre per i traditori della
stirpe – oltre il Prut – si usa l’epiteto spregiativo mancurti.
4. Antico proverbio romeno che allude agli approfittatori.
5. Sono  i romeni della Bassarabia costretti a emigrare.
6. Metafora che raffigura il paesaggio romeno fatto di alture e vallate, azzeccatamente chiamato da Lucian Blaga: spazio mioritico.
7. Altra definizione metaforica  del suol patrio presa dalla ballata popolare La pecorella. Mior significa giovane montone.




Mi facevi vedere Venezia
chiedendomi se mi piace
io ammiravo stupito
i monumenti d’arte
ma volevo bene a te
mi facevi vedere il mare
tanto bello
e attendevi che ne dicessi qualcosa
ma io tacevo ammaliato
e volevo bene a te
mi facevi vedere la terra
colma di ulivi
ma io non trovavo parole
perchè amavo te
mi facevi vedere i fiori
che scorrono dalle finestre
i loro colori giocavano negli sguardi miei
ma io non li vedevo
perchè amavo te
sei tu la mia Venezia
sei il mare bello
sei la mia terra di ulivi
i miei fiori multicolori
e il dor [1]
ma io giammai vorrei
essere
solo il tuo visitatore.


1. Il dor ha quale etimo il sostantivo latino dolum „dolore”. e il sentimento definitorio dei romeni, molto più duraturo della nostalgia e perfino della saudade iberica.




Tu stai nel carcere del paradiso
e mi scrivi messaggi d’amore
mi dici che là pure d’inverno
fioriscono le rose.
Io sto nel carcere dell’inferno
e ti scrivo messaggi di gelosia
e ti dico che qui è autunno
e le foglie cadono
si sta facendo freddo
come nelle parole tue
durante le nostre discussioni telefoniche.
Tu dici che là si faccia fatica a vivere
ma fai di tutto
per allungare
la durata della detenzione
di un anno
di un giorno
di un istante.
Io dico che sto male qui
ma non faccio niente per spostarmi
da questa solitudine
costruita a mo’ di
cella di pietra
con una finestrella
ricoperta dalle grate
di una ragnatela
che non ho la forza di lacerare
ne sono prigioniero
come un’offerta sacrificale rara
subito verrà colui dal ventre nero
per portarmi via il sangue
insieme coi sentimenti
per lasciarmi solo soletto
per non poterti giammai
rivederti amata mia.
Tu credi che io abbia pianto invano
allora sulla tua spalla
vergognandomi delle proprie lacrime
tu credi che sia un caso il fatto
che mi tenessi per mano
come per un’ ultima volta
mentre parlavi con un altro
e alla fine mi hai detto
di riguardarmi
o forse stai pensando
che tutto ciò che ti scrivo adesso
sia un gioco di parole
messo in scena
apposta perchè tu te lo goda?
Tu lottavi con la mia anima in subbuglio
io lottavo con la tua ragione cheta
e non volevo accettare l’ idea
che abbiano perduto senso e forza
tutte le mie parole
che niente ti possa più commuovere
di ciò che ti dico.
Tu stai nel carcere del paradiso
e hai tutto il diritto di starci
poichè sono stato io a inviarti là
questo è stato il mio errore fatale
io sto nel carcere dell’ inferno
non avendo via d’ uscita
in quanto lasciato qui da te
e vivi con la speranza
di aver fatto un passo saggio
adesso bisogna riscattare i nostri peccati
così lontani uno dall’ altra
tu credi nei miracoli della vita fisica
io credo nelle espressioni dello spirito
tu vivi nel concreto
io sto con la testa fra le nuvole
tu nel tuo carcere
elogi i tuoi secondini
io nella mia prigione li odio mortalmente
tutto va bene
solo una cosa è maligna
non sapere quale prigione
spetti ai nostri figli
che non hanno nessuna colpa.



(n. 9, settembre 2015, anno V)