«Il Salmo del lebbroso» di Benjamin Fondane

Pubblicato per la prima volta nella rivista «Lumea evree» nel 1920 e ripreso integralmente nella rivista «Adam» nel 1937, questo straordinario componimento di Benjamin Fondane/Fundoianu, ora tradotto anche in italiano da Irma Carannante, non ha perso affatto la sua vitalità e pienezza. Di questo Salmo di Fundoianu si potrebbe dire quanto affermò Cioran a proposito de La preghiera di un daco di Eminescu: «Negli accessi di disperazione il solo ricorso salutare è l’appello a una disperazione più grande. Non essendo ragionevole alcuna consolazione, bisogna aggrapparsi a una vertigine che rivaleggi con la vostra, che persino la superi. La superiorità che ha la negazione su ogni forma di fede scoppia nei momenti in cui la voglia di farla finita è particolarmente potente. […] Una tale apoteosi negativa non poteva avere un senso se non fosse emanata da una vitalità intatta, da una pienezza che si rivolge contro se stessa. [….] Eminescu ha capito tutto questo sin dall’inizio: la sua preghiera, la più chiaroveggente, la più impietosa che sia mai stata scritta, è là per provarlo». Forse, quando Cioran scriveva queste vibranti parole a proposito de La Preghiera di un daco di Eminescu, pensava a Il Salmo del lebbroso del suo amico Fondane, perseguitato e orrendamente ucciso dall’ideologia antisemita diffusa in tutta Europa.
Infatti, Fundoianu ripropone in questi versi il tema della teodicea giobbica in cui prende campo la «presenza» di una sorta di «preghiera di richiesta» o «supplica invocativa», ove risuona l’antica domanda biblica sul senso della sofferenza del giusto e sulla giustificazione del male nel mondo. È una domanda, quella di Fundoianu, in cui si intreccia la poesia con la preghiera. Queste forme allocutive della preghiera «ebraica», rivolte a un «tu» che rimane in silenzio, intendono tradursi in parola, richiedendo così al poema, per dirla con Paul Celan, una sorta di attenzione dell’anima. Solo all’apparenza Il Salmo del lebbroso si manifesta come una parodia della preghiera con intenti distruttivi e blasfemi, ma in realtà si tratta del riconoscimento del mistero abissale che circonda la parola dell’Altro, il totalmente Altro, il cui manifestarsi terrifico e numinoso si ritrae nell’abisso misterioso del nulla, del «non essere», seguendo le vie infinite del silenzio, dell’impegno nella testimonianza, dell’attenzione e della benevolenza, in attesa di poter ricevere consolazione, riscatto e giustizia.
La traduzione di Irma Carannante ha saputo restituire l’indissolubile legame etico del dolore con l’amore, mostrando che la separazione da ciò che amiamo ci costringe, sconvolgendoci, a rinascere nella parola.

Giovanni Rotiroti


Il Salmo del Lebbroso

«E il lebbroso che avrà questa piaga su di sé avrà le vesti lacere e griderà: impuro, impuro! Egli sarà impuro per tutto il tempo che questa piaga sarà su di lui; è impuro e dimorerà solo; fuori dalla comunità sarà la sua dimora»
(Levitico 13,45).

Le albe
hanno rinnovato le sorgenti dai canali,
hanno lavato la gola dei merli della selva,
hanno solcato, con il nuovo aratro, i campi da dissodare,
hanno posto gli uomini dietro gli aratri –
e hanno messo tra le palme tante fiamme,
pare che tu sia in ogni palma,
pare che tu sia in ogni fiamma, Signore!

Vorrei cadere folgorato di fronte a te,
tu che non hai né inizio né fine.
E vorrei
baciarti tra le mani e nelle fiamme –
ma ho paura di sporcarti la terra,
la pura gramigna,
gli scarafaggi dentro i gusci,
e le cose fatte di luce, tutte,
che hai creato in sei giorni.

Il mio corpo è lacerato da piaghe –
e dalle guancie,
croste violacee hanno colato livide purulenze;
e il mio occhio è asciutto dallo sguardo –
e la mia mano si poggia sul bastone.
Sono uno stagno in cui gracidano le rane
e granchi d’argilla e lerce sanguisughe,
zolfo di siccità e di sole.
E la mia anima, rana, gracida
con uggia, oh Signore, contro di te.

Oh, se fossi anche tu come me, Signore!
Oh, se fossi anche tu lebbroso come me
e se avessi anche tu tante piaghe purulenti
e gli occhi asciutti della lacrima della luce …
Oh, se piangessi quando sprofonda la sera –
quando il bestiame ritorna dall’abbeveratoio,
quando gli uomini vengono a due a due dal campo –
quando nessuno spegne il tuo pianto …
Oh, se t’incamminassi anche tu per strada, impotente …

I cani ossuti ti accerchierebbero contro le recinzioni –
i viandanti della strada ti eviterebbero –
la sinagoga non ti riceverebbe in preghiera.
Le fanciulle, ai pozzi, con i fianchi solidi,
sputerebbero nei loro bianchi seni dalla nausea,
e i bambini che hanno detto in preghiera:
«Lode a te, oh Signore, che hai creato
la terra e le creature»,
ti sputerebbero davanti al cielo
e ti scaccerebbero con pietre e bestemmie.
Sì, Signore, se fossi lebbroso come me,
saresti scacciato con le pietre.
Ahi, cosa ho fatto, Signore, che tu mi tormenti
con piaghe, come le rane rognose –
in cosa ho peccato –
per essere lacerato dai denti dei levrieri,
per non essere accolto in sinagoga,
persino i tuoi bambini mi gettano le pietre,
e anche le fanciulle dai fianchi sodi
mi voltano le spalle per la paura.

Abbi pietà di me, Signore, pietà,
e, se puoi, guariscimi da questo male.
Ma non prendermi anche la fiamma della vita
che brucia in me nell’olio –
come non la prendi né alle formiche e né alle locuste.

So bene, Signore,
che tu sei sano per quanto io lebbroso –
che siamo usciti insieme dal non essere –
che la mia prosternazione ti dà la gloria,
che la mia ignoranza ti dà la sapienza,
che la mia debolezza ti dà la forza,
che la mia sporcizia ti dà la luce.

E lasciami il lamento della foglia tremolante,
Tu, che hai scritto facendo di me covo di serpi –
Tu, che hai deciso che io fossi lebbroso –
Tu, che mi hai messo nell’anima l’odio –
Tu, che mi hai voluto bestia
delle puzzolenti tane dei boschi,
senza germoglio e senza gioia …
Tu non mi hai voluto come il giovane albero,
cresciuto robusto allo scorrere delle acque.

Tu non hai voluto che anch’io avessi una catapecchia,
che potessi entrare anch’io nella sinagoga,
che potessi avere anch’io dei figli selvaggi
e una fanciulla alla porta con i solidi fianchi –
e i cani al recinto, da aizzare
contro i lebbrosi con le piaghe purulenti quando passano per strada.

E, se vuoi, allora ascolta il mio desiderio,
lascia che il mio corpo resti immondo –
e donami la morte terrena,
se questa è la tua decisione.
E allora quando mi disintegrerò nella notte,
amico dei vermi della terra,
frumento, per la germinazione che viene,
quando morirò anch’io come gli altri –
quando non ti sporcherò più la terra, Signore,
né l’erba pulita,
né tutte le cose –
create in sei giorni di Scrittura –
Allora quando verrò da te, Signore,
e quando la purulenza sarà la mia linfa,
oh, per la colpa di essere stato lebbroso –
Tu, Signore, se vuoi rendermi giustizia –
tutti quelli che gettarono su di me l’odio –
(l’odio dei potenti contro i deboli) –
oh, non mandarli nelle rosse fiamme –
oh, non sottoporli a dolorose sofferenze,
ma chiama insieme tutti gli uomini
(quelli dei campi e delle sinagoghe),
i viandanti che mi hanno evitato per la strada,
i bambini che mi hanno colpito con le pietre,
e i levrieri che hanno voluto lacerarmi il corpo –
e lasciali, Signore, risorgere ancora,
che vivano ancora una volta nel mondo;
e che sappiano cosa sia la felicità –
Fa che siano tutti lebbrosi.

Sì, che sappiano cosa sia la felicità,
fa che siano, oh Signore, tutti lebbrosi.
Che vadano insieme, i cani, gli uomini, le vecchie
e tutti i bambini che lanciavano le pietre –

Ma perdona le fanciulle che hanno il fianco
di bianco latte – e i seni di latte,
poiché esse non hanno voluto farmi del male,
poiché esse, Signore, non sapevano ciò che facevano,
e se pure fuggivano da me impaurite per la strada,
io mi fermavo –
e in ginocchio, sull’impronta della terra,
baciavo loro i piedi nudi.




Benjamin Fondane
Traduzione di Irma Carannante

(n. 4, aprile 2013, anno III)