«Sentinella, a che punto è la notte?». Gli 80 anni di Dieter Schlesak

«Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella, a che punto è la notte?
La sentinella risponde: «Viene la mattina e viene anche la notte…»
 (Isaia 21. 11-12)

Nel mio ultimo saggio su di lui, riprendendo una definizione che egli stesso si attribuisce, scrissi di Dieter Schlesak che il suo destino è di essere testimone. Testimone della realtà di Auschwitz, documentata attraverso la minuziosa raccolta di documenti e interviste, testimone del piccolo mondo dell'Heimat, che per lui fu Sighisoara, con la sua umanità variegata di borghesi, sassoni ed ebrei, di contadini romeni, di balie ungheresi, di tradizioni, suoni, odori che non si percepiscono più, testimone della dittatura comunista che succedette all'invasione nazista della Romania, vissuta in prima persona, testimone, quindi, dei vivi, o meglio dei sopravvissuti, e testimone dei morti che non hanno più voce, testimone prezioso, per quanti vogliono sapere, e testimone scomodo, per quanti vogliono mistificare o negare, di un secolo che ha attraversato regimi totalitari, conflitti e revisioni storiche. Il tutto filtrato attraverso l'acuta sensibilità poetica di un uomo che è saggista, romanziere e poeta.

Oggi, in omaggio al suo ottantesimo compleanno, ma anche al compimento dell'ottavo anno di un percorso umano e poetico con l'autore, sento il bisogno di correggere la mia affermazione dicendo che Dieter Schlesak non è semplicemente un testimone, bensì una sentinella per le nostre coscienze. Un testimone, infatti, non ha necessariamente una visione etica: si può essere testimoni, ma non per questo emotivamente coinvolti, si può essere testimoni senza prendere posizione sulle sofferenze altrui, si può essere testimoni perfino per intenti utilitaristici. Non così Dieter Schlesak. La sua testimonianza, così come la sua vita, è contrassegnata da una profonda eticità, quell’eticità che non è necessario né possibile imparare perché esprime la dimensione autentica dell’animo, una rara e innata capacità empatica nei confronti di ogni sofferenza. Per questo possiamo definire Dieter Schlesak una sentinella.

Una sentinella è di più di un testimone: la sentinella sveglia chi dorme, la sentinella avverte del pericolo. La sentinella fa parte del popolo che deve proteggere vegliando nella notte, e il destino della città che le si affida non le è indifferente. C’è qualcosa di molto nobile nel compito della sentinella. Salva le vite. E nessuno di noi può chiamarsi fuori dall’essere sentinella, nell’accezione migliore del termine, fin da quando Dio chiese a Caino notizie di Abele e Caino per difendersi gli rispose: «Sono forse il guardiano di mio fratello?» Sì, tutti dobbiamo essere guardiani/sentinelle perché il male non abbia la meglio.
Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella, a che punto è la notte?
La sentinella risponde: «Viene la mattina e viene anche la notte…» (Isaia 21. 11-12)
Dieter Schlesak avverte nel buio delle coscienze che ci sono state tante notti nella storia umana e altre ci saranno se non vigiliamo.

E quando la sensibilità si esprime nella sensibilità linguistica nasce la poesia. Dieter Schlesak è forse oggi più noto attraverso i romanzi che la poesia, ma come già scrissi, non si può comprendere la profondità della sua scrittura se si ignora la sua attività poetica. Non a caso il suo esordio è nella poesia. Nel 1968, sotto la dittatura di Ceauşescu, uscì Grenzstreifen, il suo primo libro di liriche. Fu pubblicato da Literatur Verlag, una casa editrice romena con sezioni di lingue delle minoranze, tra cui quella tedesca. Le liriche pubblicate denunciavano, attraverso metafore, la mancanza di libertà che fa sfiorire la vita, che porta all’ottundimento delle coscienze. Materiale pericoloso, che aggirò la censura grazie a Michael Bürger, il redattore della collana, che, a proprio rischio, diede alla censura interpretazioni fuorvianti.

Schlesak era stato un bambino felice, ma il giardino dell’infanzia, dei giochi, nell’innocenza e sotto la protezione dei genitori, era ormai alle spalle, avvelenato dall’«indicibile», l’orrore di Auscwitz, che era stato rivelato con tutte le sue complicità, e dalla negazione della libertà, che sotto il regime comunista vedeva nella poesia – espressione universale, ma anche individuale – il nemico da combattere.

È difficile oggi, in piena libertà, capire quanto quelle metafore che denunciavano l’oppressione potessero essere pericolose e decifrabili, quello che è certo è che la vita di Schlesak era sotto la minaccia continua dell’arresto e lui, così come tutti i giovani intellettuali, fu costantemente spiato dalla Securitate. Ma l’amore per la poesia, il daimon interiore al quale fu sempre fedele, era più forte del timore e, in veste di editore, pubblicò le poesie di Michael Albert,poeta, scrittore e critico letterario di lingua tedesca che aveva studiato Teologia e Letteratura tedesca a Jena, Berlino e Vienna e che morì nel 1893 a Sighisoara. Michael Albert era uno dei nomi di personaggi illustri che decoravano le pareti del ginnasio di Sighisoara che Schlesak frequentò come studente, un motivo di orgoglio per la comunità tedesca, fiorente ai tempi della sua infanzia, e la sua poesia era romantica e struggente, forte e legata alla terra, echi che si ritrovano anche nella lirica di Schlesak, quando parla della natura.

In quello che era stato il «nido» della famiglia e della cultura tedesca, tanto vivamente tramandata dai sassoni che vivevano in Romania, c’era stato l’amore per la poesia, per la musica, per la bellezza. Raffinatezze che renderanno ancora più lacerante la scoperta di quel collaborazionismo diffuso con i nazisti che, messo in luce a poco a poco, segnerà tragicamente la vita e l’opera dell’autore, simile ad un tragico Edipo che deve e vuole guardare in faccia la realtà.

E nemmeno l’Occidente è vissuto in spensieratezza. L’avere raggiunto la libertà porta con sé la lacerazione dei legami spezzati, della terra-madre irraggiungibile, il peso del dovere, sentito come imperativo morale, di denunciare sempre e ad ogni prezzo l’ingiustizia. Così lui, venuto nel cosiddetto «mondo libero», viaggia per toccare con mano le dittature occidentali, la Spagna, la Grecia, e pubblica nel 1972 Geschäfte mit Odysseus Zwischen Tourismus und engagiertem Reisen con l’Editore Hallwag.

Vive la sua libertà come una vita di esilio e testimonianza, ma c’è un freno alla sua scrittura: l’amore per la madre. Solo alla sua morte inizia la stesura di Capesius, der Auschwitzapotheker, in Italia Il farmacista di Auschwitz. Vuole la piena libertà di indagare anche sulla famiglia, di non ferire la madre denunciando il paradosso di quegli zii che in licenza leggevano poesia e ascoltavano la grande musica tedesca e poi tornavano al compito loro assegnato, nei campi di sterminio, come se le due vite si potessero scindere, come se i due mondi si potessero tenere separati.

Ed è qui la straordinaria grandezza di Schlesak, è qui la sua umanità, non ha scritto per denunciare, non ha scritto per «tirarsene fuori», ma perché tormentato da una domanda: «se io non fossi stato un bambino, se fossi stato arruolato, cosa avrei fatto?» Ecco perché sostengo con fermezza che lui è più di un testimone, è una sentinella delle nostre coscienze, perché ci obbliga a chiederci: cosa avrei fatto io? Cosa avrei fatto, se per non commettere quegli orrori, ne fosse andata di mezzo la mia vita? Avrei avuto il coraggio di dire no? Una domanda che non ci si lascia alle spalle solo perché i fatti narrati riguardano il passato. Tutti noi siamo chiamati a scelte etiche, ogni giorno.

Schlesak ha scritto a prezzo di una grande sofferenza personale, ha scritto attraverso la sua sensibilità di poeta e ad Adam, l’ebreo sopravvissuto de Il farmacista di Auschwitz, ha messo in bocca parole di assoluta intensità e delicatezza. Lirica in prosa. E affronta ora, con la consolazione del consenso degli intellettuali romeni, l’ostracismo di quei sassoni romeni che lo accusano di avere «sporcato il nido». Ha detto l’indicibile. Ha rivelato verità nascoste che nessuno voleva rendere note. Ma questo deve fare una sentinella delle coscienze.

Schlesak ha avuto un toccante riconoscimento, personale e sconosciuto alle sue biografie ufficiali, ma di gran lunga più prezioso. Quando presentammo Il farmacista di Auschwitz davanti alla Comunità Israelitica di Torino in occasione della Giornata della Memoria del 2012, davanti alle parole piene di sofferenza di Schlesak, un sopravvissuto si alzò, lo abbracciò e gli disse: «Non si faccia più quella domanda, da come lei parla io so che lei non avrebbe mai fatto quelle cose». Un momento che ripaga di una vita.

L’opera di Schlesak si è apertacon Grenzstreifen, cioè con la poesia e la sua ultima opera pubblicata è il nostro libro di poesia, La luce dell’animaZeit Los brennt dieses Licht hier (Ed. ETS, 2011), un dialogo poetico che alterna voce maschile e voce femminile, come nel Cantico dei Cantici. Ma qui non vi è un unico autore, le liriche di Dieter Schlesak si alternano con le mie, quindi due voci autentiche e non una finzione, bensì un canto uomo-donna e l’unione di due lingue diverse: Dieter Schlesak ha scritto in tedesco, io in italiano.

Dieter Schlesak spiega: «È il primo libro nel quale non si tocca la tematica dell’esilio, del dolore, del vivere in estraneità. È il primo libro in normalità, non esiliato, ma su una terraferma, in una casa trovata che è l’amore. Questi sentimenti e questo amore fanno trovare la sicurezza di una casa: l’amore ci regala una casa, come la poesia. Poesia e amore sono sentimenti esistenziali che si uniscono nella bellezza e costruiscono una nuova bellezza che prima non c’è stata. Questo libro è un dono che si densifica in due lingue, quella materna e quella dell’esilio. Questo ha anche un senso metaforico, perché la Germania ricorda sempre l’esilio, ma l’Italia è la terra neutra che assolve questo dolore e la mancanza di una casa».

Io posso solo aggiungere che le nostre sono, infatti, le liriche del bashert. Bashert è una parola yddish che significa  «predestinato». Nella sapienza ebraica, similmente al mito di Platone, si crede che in cielo l’anima possieda sia il principio maschile che femminile e che al momento della nascita i due principi si scindano e il principio maschile si incarni in un corpo maschile, quello femminile in un corpo femminile. Per questo gli esseri umani sarebbero alla ricerca della propria metà, che è quella conosciuta in cielo.

A differenza della tradizione cristiana nella quale si ricordano periodi di vera demonizzazione della figura femminile, culminati nella caccia alle streghe, e inviti all’astinenza sessuale, di cui è paradigmatico il celibato sacerdotale cattolico, l’ebraismo vede il rapporto d’amore uomo-donna, cioè il ricongiungimento maschile-femminile, come traguardo della vita umana, spazio privilegiato delle più sublimi emozioni e rivelazioni concesse in vita, al punto da permettere l’unione stessa dell’umano e del divino. Così la ricerca dell’anima gemella si configura come ricerca del divino in noi e realizzazione dell’era messianica a prescindere dal suo manifestarsi storico. Quindi, una relazione felice tra uomo e donna è anticipazione già in vita della gioia del mondo a venire. Per questo si dice che «se tutta la Bibbia è il Santo, il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi» e in esso vi sarebbe il segreto per la spiritualizzazione dell'amore fisico e della materializzazione dell'amore spirituale.

E questo, dopo la tremenda evocazione di Auschwitz, è anche un messaggio di speranza rivolto a noi tutti, visto che l’essere umano può macchiarsi dei crimini più spaventosi ma può anche essere protagonista dell’amore più elevato.
Io ho avuto l’onore di scrivere questo libro con Schlesak e potrei descrivere questo uomo e questo autore straordinario attraverso un paradosso: se c'è pregiudizio in lui è l'essere contro ogni pregiudizio. Un uomo di profonda cultura, di profonda umanità il cui vivere e il cui scrivere rende migliore chi lo avvicina.




Vivetta Valacca
(n. 9, settembre 2014, anno IV)