Una storia tragica di moderni eroi: «Uccelli del cielo» di Vasile Andru

Più di 20 monumenti storici, in maggioranza chiese e monasteri, veri e propri gioielli architettonici dei secoli XVI, XVII e XVIII, 63 fra templi e sinagoghe, 11 case di preghiera neoprotestanti, a cui si devono aggiungere le migliaia di case e dimore signorili o di alto valore storico-artistico che impreziosivano il fitto intrico di viali e strade di una vasta zona storica della capitale romena Bucarest, i cui inquilini sono stati sfrattati coattamente da un giorno all’altro, gettando letteralmente sulla strada intere famiglie: tutto questo annientato, distrutto, sbriciolato per sempre – un quinto della superficie della Bucarest antica, comprendente i quartieri di Izvor, Uranus, Dealul Arsenalului e Mihai Vodă, un’area, tanto per farci un’idea, pari a quella di una città come Venezia – secondo il piano di ristrutturazione del centro storico della città (siamo nell’ultima decade degli anni ’80, all’apice della devastazione urbana, anche se i prodromi di tale disegno di pantagruelica megalomania possono essere fatti risalire a subito dopo il catastrofico terremoto del 1977), messo in atto scientemente dalla criminale determinatezza della coppia più cupa tra i regimi comunisti dell’est europeo, quella formata da Nicolae e Elena Ceauşescu, per fare erigere, sovrastante su tutti gli altri edifici del nuovo centro di potere, il personale e immane Palazzo del Popolo, cui faceva da andito il pacchiano e chilometrico Viale della Vittoria del Socialismo.      

Questo è in sintesi il contesto storico che il lettore italiano deve conoscere per poter cogliere almeno in parte i contorni della tragedia collettiva della Bucarest in quel triste scorcio d’anni, trasformata in un enorme cantiere, rappresentata in modo così forte e netto attraverso la vicenda dei due protagonisti del romanzo di Vasile Andru, Uccelli del cielo, Sandu Tariverde e Tofana Melidon. Essi sono l’emblema, pur così diversi l’uno dall’altra per carattere e provenienza, della sconfitta umana e personale a opera di un regime brutalizzante e spietato. Anche se, come detto sopra, è Bucarest il luogo in cui si svolgono le loro e collettive tragedie, dato che essa è il fulcro fisico della narrazione, con precisi e continui riferimenti, i due personaggi incarnano allo stesso tempo la sofferenza di una nazione intera, sono l’archetipo del cittadino suddito, privato della libertà – quella  di movimento, di opinione, di pensiero –, fino ai limiti più grotteschi. Sono l’emblema di due tipi di demolizione, come sottolinea l’autore: quella psichica e quella edilizia, ma speculari, intrensicamente legati assieme. Sandu Tariverde, l’intellettuale, trasforma le case in cui si rifugia in tanti involucri per la sua psiche: e ogni casa demolita corrisponde alla distruzione di una parte della sua mente, fino all’estremo. Di casa in casa, lascia dietro di sé fra le macerie un lembo della sua esistenza, fagocitata in una sorta di rito crudele e ripetitivo, cosmogonico, riferito dall’autore in modo più o meno larvato a quello della leggenda di mastro Manole (in romeno meşterul Manole), il noto personaggio del folclore romeno, che, attraverso un sacrificio, ha bisogno di immolare viva la propria moglie nelle fondamenta del monastero che sta costruendo affinché ciò che ha edificato di giorno non crolli di notte. Ne è d’altronde evidente, ci sembra, il richiamo evocato dall’autore nel nome stesso del personaggio di Pavel Manolache, meşterul Manolache, il capomastro di uno dei cantieri adibiti alle demolizioni, colui che aiuta Sandu Tariverde nella ricerca di case vuote, destinate alla demolizione, nelle quali egli possa nascondersi. Si attua così l’atavico rituale che suggella con il sacrificio di un essere umano l’esistenza di Sandu Tariverde, un vero sacrificio di costruzione che, come nell’epos popolare, prelude comunque al proseguimento della vita della comunità.
Se Sandu Tariverde rappresenta il personaggio morale del romanzo, quello femminile di Tofana Melidon è tutto istinto: è una giovane donna di irrequieta esuberanza, una esile «beghina» bulimica, senza fissa dimora, una persona che, se ci capitasse di incontrarla per strada, schiveremmo perché un poco tocca. Eppure la sua forza di attrarre la nostra attenzione sta proprio in questo, nel non sembrare di questo pianeta, una aliena, una figura sfuggevole e indecifrabile, spaesata e indifesa, ma di una seduzione innata, alla ricerca disperata di se stessa e di un altro paese, di un qualsiasi paese, che la accolga per così com’è, che le permetta di realizzarsi e di realizzare i suoi progetti strampalati – che nessuna persona ammodo prenderebbe sul serio –, fuori dalla gabbia di un regime che la considera invece un parassita, una nullità perché non assimilabile al grigiore di un sistema politico-sociale costituito e immutabile.

Con il romanzo Uccelli del cielo, pubblicato nel 2008 dalle edizioni Controluce, Vasile Andru è stato insignito nel 1990 a Istanbul del premio letterario internazionale «Balkanika».
           

Mauro Barindi



È accaduto a Bucarest, sul pianeta Terra


«Spegni il motore!» gridava un uomo gesticolando.
Un uomo in tuta, un operaio, corre verso il trattore legato con dei cavi al muro diroccato della villa.
«Spegni!» grida.
Ma è troppo tardi. Il manovratore aveva già ricevuto il segnale di partire, i motori erano accesi, non si sentiva la voce di chi stava gridando l’allarme. Il manovratore ha premuto il pedale: l’enorme trattore è guizzato via. Tirata dai cavi, la parete ha scricchiolato, si è mossa, si è ribaltata, trascinandosi tutto nel crollo. Si è sentito un boato tremendo. La terra ha tremato sotto i piedi.
Nuvola di polvere. Poi sono stati utilizzati gli idranti, i getti d’acqua bagnavano i calcinacci per pulire l’aria di modo che le scavatrici e i camion potessero entrare in azione.    
Ora si sente di nuovo la voce dell’operaio allarmato:
«Gente, mi è sembrato che in questa casa ci fosse un uomo. Avete stritolato vivo un uomo!»
Una alla volta, tutte le macchine si sono fermate.
L’operaio indica, agita le mani. Dice che a un certo punto gli è sembrato di vedere, attraverso la finestra divelta, un uomo che si muoveva all’interno. Dice: «Un tipo con la barba, malconcio».
«Sei sicuro? Come, quando?»
«Mi sembrava che ci fosse. Da lontano non vedevo bene. Ma, inquadrato dalla finestra, c’era un uomo malconcio, l’avevo visto altre volte aggirarsi nei paraggi, evitava di farsi vedere da noi e dormiva qui».
«E l’hai visto altre volte?»
«Sì, uno con un principio di calvizie, alquanto alticcio, dicono fosse dottore o qualcosa del genere, un pozzo di scienza, un po’ svitato. Sarà lui? Forse è proprio lui. Uno senza casa. Noi lo cacciavamo via, ma s’intrufolava sempre di nascosto, nelle case evacuate».
«Che sia lui, il dottor Sandu?»
«Forse sì, forse no».
Sono cominciate le ricerche. Hanno formato delle squadre per sgomberare le pareti demolite. Lavoravano con lena, frugando.
Si è fatto vivo anche il mastro Pavel Manolache. Era abbattuto, ma non lo lasciava trasparire. Faceva finta di non sapere nulla. Chiamava a raccolta gli uomini della sua squadra: «Su, ragazzi, qua chi ha lavorato già con i sinistrati all’epoca del terremoto. Venga avanti chi ha avuto esperienza con i sinistrati».
Pavel si era fatto il callo lavorando agli sgomberi dopo il terremoto. Ma, un giorno, ha detto che quella era stata un’esperienza da niente rispetto alla furia delle demolizioni.      
Frugano tra le macerie. Alzano con cura delle travi di cemento. Forse è ancora vivo lì da qualche parte, incastrato fra due travi. Forse è rimasto intrappolato sotto lo spigolo di parete. Casi del genere se ne sono visti. Man mano che sgomberavano, caricavano i calcinacci sui camion.
«Forse non era neppure lì dentro», ha detto un operaio, sperando così di salvare la faccia a tutti.
Ma alle sedici, un militare ha trovato, fra i detriti, una mano, un avambraccio.
Il braccio destro dal gomito fino al palmo della mano, comprese tutte le dita.
Il poliziotto ha steso il verbale.
Quando arrivo lì, trovo il posto pieno di gente. La gente si raduna senza sosta. Il sole cala e la gente continua a radunarsi. È lo stesso scenario di quando Sandu Tariverde mi ha detto, con lo sguardo rivolto verso la folla impietrita: «Sembra che siano venuti al mio funerale».
Fa freddo, è un marzo senza neve, fangoso. Vedo delle candele accese.
Mi faccio largo tra la folla. Mi avvicino al luogo: un telo di plastica su cui è stato adagiato il braccio di un uomo.
Il mastro Pavel mi vede. Mi presenta al dottore dell’istituto medico-legale e al poliziotto. Mi hanno chiesto se posso collaborare all’identificazione della vittima.
La mano di Sandu Tariverde. Si vedono anche i segni lasciati dal colpo di manganello ricevuto quella notte, quando è stata demolita la chiesa.
Ho detto loro: «Sì, è la mano del dottor Sandu Tariverde».
Mi hanno chiesto di restare a loro disposizione fin quando sarebbe stata confermata in modo definitivo l’identità.
- Conosce qualche altro parente della vittima? Con chi ancora potremmo metterci in contatto?
- Non ha nessuno. L’ex moglie vive da qualche parte in Dobrugia.
Ci si è accordati che mi sarei occupato io del certificato del decesso.
«Almeno potessimo trovare un indumento, con infilato dentro qualche documento, magari la carta d’identità», dice il poliziotto.
«Non aveva nessun documento!» dico loro. «Da tempo non aveva neppure più la carta d’identità. I suoi unici documenti sono: una pagina della carta d’identità e il diploma di dottore, che si trovano a casa mia».
«Ce le consegni», mi ha detto.
«Sì».
Hanno cercato fino al calar della notte. Ma il resto del corpo non è stato mai più rinvenuto.
La gente del posto mi circonda e mi guarda con un rispetto per il quale io non avevo fatto nulla. Mi rendo conto che un po’ dell’eco del sacrificio di Sandu si rifrange ora su di me. Un tempo Sandu mi disse che si era indebitato molto con me negli ultimi dieci anni, da quando non riceveva più il salario. Ma quello che lui ci restituisce in questo momento, ci rende tutti suoi debitori fino ai nostri successori.
Mi chiedono: «Chi era? Di che si occupava? Che tipo di dottore era? Perché dormiva qui? Questa era casa sua? Gliel’hanno demolita e lui si è rifiutato di abbandonare l’abitazione? Si è suicidato in segno di protesta? Dove abitava? »
Dico: «Ha abitato in tutte le case che sono poi state demolite. Da un capo all’altro di Bucarest. Egli, quindi, porta con sé la penitenza di tutti. Ma non ha mai pensato a questo. Forse non voleva più sopportare questa vita. Non lo voleva più».
Una donna sta piangendo.
Sandu Tariverde ha cercato forse di proposito questo finale in cui la sfida e l’ironia erano sottolineate dalla tragicità?
Un poliziotto si avvicina e mi dice: «Sarebbe bene che ora se ne andasse. Dobbiamo sgombrare il posto».
Questo è stato il funerale di Sandu Tariverde. È stata una veglia solenne e semplice. La notizia si è diffusa, la gente continua a succedersi. Un pellegrinaggio per vedere la sua mano destra.
La gente arriva, si ferma un istante, guarda affascinata la sua mano destra. Alcuni restano, parlano a bassa voce. Scende la notte.
Le ricerche sono proseguite anche il giorno dopo. I resti del suo corpo non sono stati più ritrovati.
Questa è stata la fine di Sandu Tariverde. Nel verbale c’è scritto: incidente di lavoro.
Io credo che sia stata una scelta. Ha trovato questa via per far sentire la sua voce. Non voglio idealizzarlo. Ma questa fine riflette il suo stile.
Un tizio, non so chi diavolo fosse, propone un’altra versione. Dice: «Eh, caro il mio signore, quello è tornato ubriaco fradicio, non era la prima volta che capitava. È entrato ed è sprofondato nel sonno. Ho sentito che dormiva nelle case evacuate, man mano che venivano fatte evacuare, prima che venissero state demolite. Gli operai raramente venivano informati del fatto che lui dormiva là dentro. Certo, loro controllavano prima di cominciare la demolizione. Ma, oggi, quello voleva dormire ancora, è sfuggito ai controlli. Un incidente, sa. E hanno buttato giù la casa con lui dentro».         
Altri non credevano a questa versione. Ossia, lui si sarebbe intrufolato per poter dormire pur vedendo che i bulldozer e tutto il resto erano in procinto di compiere l’assalto?
«Sì, caro il mio signore!» dice il tizio che non so chi diavolo fosse. «Potevi spaccare la legna sopra di lui, quando era ubriaco. Dormiva come un ghiro».
L’esistenza di Sandu Tariverde mi sembra una risposta a questo tempo tragico e comico. Una risposta a questa dura storia. Tutta la sua vita è stata una risposta al nostro tempo. Non so se sia stata la migliore, ma so che era quella adatta. 
Per il resto, tutto è possibile. Forse stava dormendo sodo, mentre gli cadevano i mattoni in testa e i motori rombavano. O forse era sveglio e spaventato, come ha detto l’operaio che l’ha scorto attraverso la finestra.
È mattina, la gente si è diradata. Molti sono ritornati durante il giorno e la notte dopo. Queste rovine celano la polvere del corpo di Sandu Tariverde. Hanno lasciato delle candele. Loro lo percepiscono come colui che si è sacrificato per tutti. Si sentono rinvigoriti. Il corpo di Sandu è mischiato con la terra e i calcinacci. Tutta via Moşilor racchiude nelle proprie fondamenta un sacrificio umano.
Lo vedo, lo ricordo. Scrolla la testa in segno di rassegnazione, sorride. È vissuto con la sensazione che la sua vita è stata come doveva essere.
Qualche volta, affranto dalla stanchezza, pensava che forse aveva fatto fiasco: ma questo era l’effetto di alcuni paragoni, della pressione di una certa mentalità, dell’eco degli insulti. In generale si è mantenuto tuttavia al limite tra la sfida e la libertà. Lo folgorava ogni tanto un’illuminazione che gli infondeva la soddisfazione di sentirsi superiore, la consapevolezza che tutti viviamo in una farsa.
Altre volte era incapace di far valere la propria superiorità e un residuo di asservimento mentale lo faceva dolere di aver sprecato alcune opportunità professionali.
Oppure, forse per spirito di fronda, diceva che lui era Abele, il nomade senza gregge. Diceva: «La razza Caino è scomparsa e Abele, di punto in bianco, si fa prendere dalla nevrosi».
Per tre giorni, sul luogo di quella casa, la gente ha acceso delle candele per Sandu Tariverde. Il quarto giorno, i topografi hanno iniziato a fare misurazioni, a tracciare delle linee, mentre i soldati scavano per preparare le fondamenta di un grande magazzino.
Non vi posso raccontare la fine del secondo uccello del cielo, Tofana. Sandu Tariverde si è mischiato con la terra della città. E Tofana? Dov’è Tofana?
È trascorso molto tempo dall’ultima volta in cui ha dato sue notizie. Dove si trova? Questo stesso libro può essere una sonda lanciata nel silenzio del mondo: Datemi notizia, buona gente, di coloro che sono scomparsi!
Prima di tutto ho creduto che la sua prolungata assenza confermasse ancora una volta il suo tipico modo di fare. È nel suo stile. Non si fa viva per settimane, poi irrompe nella quiete dell’urbe, seminando lo scompiglio nell’ordine precario, come la prodigiosa scimmia della favola cinese.
È trascorso l’inverno, stiamo entrando in primavera. Nessuna notizia.
Oggi mi ricordo la scena in cui, nella metro, un uomo veniva afferrato da due poliziotti, e poi ne saltavano fuori altri due, e trascinavano il prigioniero in un sotterraneo. Tremavo e ho deciso di intervenire. Tofana mi ha detto: «Sì, che ci sia per lo meno qualcuno che testimoni di questa cattura… Mi auguro di non patire la stessa cosa, un giorno. Mi auguro di non essere da sola, quando mi prenderanno». Mi ricordo: era un posto lugubre, era la polizia della metropolitana; avevo paura, ma mi sentivo protetto: da qualche parte, sul binario, tra la folla, avevo a mia volta un testimone. E io mi addentravo nel sotterraneo per essere testimone. La catena dei testimoni sta a significare, in definitiva, la nostra esperienza storica oltre il tempo. La memoria.    
È stata quella, allora, una sera sfibrante. Mi difendevo esibendo una tessera. La mia foto con la barba. Il partito e lo stato. Nelle fauci della belva. «I suoi uomini hanno sequestrato un uomo. Ho assistito alla scena della cattura, posso affermare che è stata brutale e degradante. Parlerò con gli organi direttivi della stampa». Il mio è stato un intervento efficace. Probabilmente, in mancanza di ciò, quel giovane sarebbe stato ammazzato di botte. Quando mi ha visto riapparire, Tofana ha detto: «Sì, la stampa ha ancora voce in capitolo in questo paese. Solo che lo vorrebbe anche dimostrare». Poi ha continuato: «Dio mio, ma tu dove sarai, quando acchiapperanno anche me?» Le ho risposto: «Non vivere con addosso questa ossessione. Non farti prendere dalla nevrosi della persecuzione. Conserva il vigore. Non hai fatto niente di male. E, dopo tutto, hai un passaporto con cui puoi emigrare definitivamente».
Poi, il silenzio.
Mi si agita in testa l’idea che potrei interessarmi presso alcune ambasciate, per sapere se ha ottenuto il visto d’ingresso per qualche paese. Sapevo che aveva richiesto il visto in trentadue ambasciate. Potevo cominciare per ordine alfabetico, iniziando con i paesi nei quali riponeva più speranza. Ma come potevo fare una simile ricerca? Chi me lo avrebbe permesso? Ci sono ostacoli insormontabili. In primo luogo, le guardie rumene, che non saprei come eludere. Poi le stesse ambasciate straniere, che s’insospettirebbero nel vedere che svolgo un’indagine del genere. Tutti sono sospettosi in questo mondo.
C’è poi un altro impedimento. Oltre alle trentadue ambasciate di cui io so, Tofana avrebbe potuto inoltre richiedere il visto anche presso altre ambasciate nel periodo in cui non è più passata per casa mia. Non mi è dato sapere a quali altre porte avesse bussato ancora dopo la nostra ultima conversazione.   
Neppure le carceri saprei come perlustrarle.
Penso di mettermi in contatto con l’Organizzazione Internazionale per i Diritti dell’Uomo. Ho un amico marinaio, imbarcato su un mercantile, gli chiederò il favore di presentare una denuncia in Occidente.
O forse sarà già in prigione? Tofana temeva questa eventualità. Il passaporto le sarebbe scaduto e lei temeva che si sarebbe trovata di nuovo a discrezione delle autorità rumene. E il decreto n. 153. E di altre centinaia di decreti. Avrà forse già assimilato sufficientemente gli esercizi di resistenza e la chiave segreta con cui sopportare più agevolmente il regime di sterminio delle prigioni del paese?  
Forse sarà riuscita a partire. Me la immagino anche in questa situazione: mentre prende l’aereo, con il bagaglio da venticinque chilogrammi, la valigia dell’errabondo.
«Non di più!» diceva. «Venticinque chilogrammi… I grandi discepoli si mettevano in viaggio a mani vuote con solo un paio di sandali ai piedi. Ma io non sono meritevole di quella semplicità. Non sono meritevole di nulla».
Me la immagino mentre parte, volando. Tirando un sospiro di sollievo perché scappa dalla gabbia della patria. Libera. Me la immagino mentre arriva in una grande città dove rinascere o dove perdersi. Mentre canta in un bar, immersa in spire d’alcol e di fumo. O vestita da monaca, in Terra Santa. C’era tanta vita non vissuta in lei tanto che la vedevo sempre alla mercé di due struggimenti opposti: essere preda dei sensi ed essere preda dello spirito.
Me la immagino mentre viaggia nei treni del mondo, irrequieta, alla ricerca della sua altra metà e non trovarla. Ossessionata dall’idea di difendere la propria verginità: la sua paura, la sua guerra mondiale. O mentre mette al mondo un figlio illegittimo che abbandona sugli scalini di una cattedrale, per poi scappare via, fuggendo verso il mondo. Mentre prega in chiese estranee alla sua tradizione, con dentro la sensazione che è peccato pregare in una chiesa altrui: troppo ingenua per cercare ancora il legame tra la religione e Dio. E sempre mancando agli incontri importanti, con la faccia incredula dinnanzi a porte sbarrate, vivendo sul precario equilibrio dell’eternità…
Di tutto quello che posso immaginarmi di lei, solo questo, però, vale: non ha il senso del tempo, per lei il tempo si misura non con le ore, ma con le domeniche. Si trova in uno stato mentale ebefrenico, in un semi-trance continuo. E con questo aspetto della sua mente, ora sento che ritorna nel nulla – non alla polvere, come Sandu Tariverde. È tornata a quel nulla discutibile, più sottile della terra (del Tempo?) – che è la nostra vera origine, la vera sostanza con cui siamo stati plasmati molto prima che la successione delle illusioni ci depositasse su ciò che si chiama pianeta Terra.  


Da Vasile Andru, Uccelli del cielo
Controluce Edizioni, Nardò (LE), 2008

Traduzione dal romeno di Mauro Barindi

(n. 3, marzo 2012, anno II)