Il «piccolo mondo comunista» di Mariana Codruţ

Mariana Codruţ, scrittrice, poetessa e saggista, è nata nel 1956 a Prisăcani (Iaşi). Il racconto di cui presentiamo qui un ampio estratto si distingue dagli altri contenuti nell’antologia Compagne di viaggio – Racconti di donne ai tempi del comunismo, pubblicata per i tipi dell’Editore Teti, 2011 (trad. di Mauro Barindi, Anita N. Bernacchia e Maria Luisa Lombardo), per il fatto di essere stato concepito in forma di intervista ma che alla fine assume i caratteri di un vero e proprio dialogo. In questo modo l’autrice è riuscita in maniera originale a far intrecciare le voci di due donne – quella dell’intervistatrice e quella dell’intervistata – che empaticamente rivivono, condividono e si scambiano esperienze di vita comuni, il cui comun denominatore è, potremmo dire – per rifarci al titolo del libro di Hannah Arendt, con le dovute differenze di contenuto –, la triste banalità del quotidiano nella Romania comunista.

Mariana Codruţ ha scelto poi di cogliere la traiettoria esistenziale di una donna della minoranza di lingua tedesca della Transilvania (i Sassoni di Transilvania), quindi di un settore particolare della popolazione romena, minoranza che, così come avveniva per le altre minoranze linguistiche ed etniche della Romania di allora, doveva sottostare continuamente alle angherie e al ricatto di un regime odioso, che non si faceva certo scrupolo di usarle, spesso, come moneta di scambio in vere e proprie compravendite, speculando senza ritegno sui sentimenti e sui vincoli familiari delle persone. La comunità dei Sassoni ha conosciuto altre dolorose vicissitudini nel corso della loro storia, vittima dei rovesci storici dell’una e dell’altra parte, tanto sotto il giogo nazista (persecuzione razziale della popolazione ebraica, nazificazione in quanto cittadini di lingua tedesca, e, dopo la guerra, deportazioni in Russia (si veda in tal senso l’ottimo articolo di Lorenzo Renzi in http://cisadu2.let.uniroma1.it/air/docs/interventi/RenziTransylvanianReview.pdf), come quello comunista, ben esemplificato qui dalla testimonianza di Gertrud raccolta da Mariana Codruţ, che offre così al lettore la misura delle difficili condizioni di vita in cui la popolazione era costretta a  vivere, testimonianza che ci appare ancor più pregna perché vista attraverso l’ottica femminile, dal momento che sulle donne, teoricamente libere ed emancipate secondo la vulgata della propaganda comunista, gravavano molte di quelle cose banali della vita quotidiana che la dittatura riusciva a trasformare invece in un cammino irto di ostacoli di ogni genere: privazioni, ingiustizie, soprusi, mancanza di prospettive, emigrazione forzata.

Colpisce, fra le altre cose, che per abbeverarsi alle fonti di cultura generale non irreggimentate e sottoposte al vigile controllo della propaganda, per Gertrud, studentessa universitaria, l’opera e l’operetta, o le riduzioni cinematografiche di celebri romanzi, costituissero delle oasi incontaminate, in cui rifugiarsi, sfuggendo per un attimo al desertico grigiore dell’offerta culturale che veniva propinata. Oggi solo pensare che i giovani guardino a quei settori come fonti di fruizione culturale suonerebbe per lo meno bizzarro. Ma si era in altri tempi e in altre condizioni politiche e sociali, distanti oggi già anni luce non solo rispetto all’Europa occidentale, ma anche gli stessi paesi ex-comunisti.
        
Ciò che emerge ancora dalla testimonianza della protagonista è il senso di estraniazione che prova sulla sua pelle nel momento in cui, una volta presa la decisione di emigrare, si stabilisce in Germania. Cogliamo nelle parole di Gertrud lo straziante sentimento di sradicamento dalla propria terra e quel suo voler o cercare di “sentirsi come a casa propria” in un paese che, per cultura e lingua, avrebbe dovuto facilitarla a integrarsi – il che accade, non c’è dubbio – ma che alla fine, pur vivendo in condizioni infinitamente migliori, non sente mai, forse, come intimamente suo. E pur dopo aver comprato casa, la propria casa, per “sentirsi come a casa”, Gertrud s’interroga ancora che cosa significhi sentirsi a casa, che è come voler dire non sentirsi o non aver piantato radici da nessuna parte. È l’eterno dramma di chi emigra verso altri paesi in cerca di una vita migliore, in primo luogo materiale, ma che nasconde insidie imprevedibili quali l’alienazione, la perdita di se stessi, e “laceranti conflitti d’identità” come scrive Mariana Codruţ in apertura del suo racconto-intervista. Oggi come allora la situazione non è cambiata poi di molto: certo, la libera circolazione delle persone, almeno in ambito europeo, non pone quasi più alcuna restrizione, ma fa comunque crescere nelle persone, che decidono di lasciare temporaneamente o per sempre il proprio paese, quel senso di smarrimento che incide con più o meno forza e sofferenza nell’esistenza di ognuno. È questo un fenomeno che la Romania ha conosciuto più massicciamente dopo la “defenestrazione” di Ceauşescu e che è stato raccontato ampiamente da molti scrittori romeni, affermati o meno, sotto diverse angolazioni; penso, tanto per citare due scrittori romeni dell’ultima generazione, al romanzo di Adrian Schiop, Zero grade Kelvin (“Zero gradi Kelvin”) del 2009, che narra l’esperienza di un giovane romeno, ampiamente autobiografica, come immigrato in Nuova Zelanda, e al più recente e notevole romanzo di Ioana Baetica Morpurgo, intitolato, non a caso, Imigranţii (“Immigranti”); entrambi i libri offrono forse la visione più attuale e sfaccettata dell’immigrato romeno, in qualche modo meno stereotipata, a più voci e meno “folclorica”, comunque abbastanza inedita rispetto all’immagine consolidatasi almeno in Italia.

Il racconto di Gertrud ci insegna inoltre che la fermezza d’animo, lo spirito di sacrificio, la generosità, tutti valori tramandatigli dalla madre – ecco di nuovo il solido legame familiare e femminile che s’intreccia tra madre e madre/figlia – possono fare superare anche i momenti più duri e drammatici pur in un sistema dittatoriale che sapeva scientemente come piegare e annientare la dignità e il libero arbitrio delle persone. Gertrud ci commuove e ci fa riflettere, quindi, in quei minuti aspetti del vivere quotidiano colti nelle varie tappe della sua vita, che nella realtà di oggi parrebbero scontati se non li trovassimo testimoniati in tutta la loro assurdità attraverso le sue parole.

Mariana Codruţ con il suo racconto ci dischiude uno spiraglio sul vissuto di una donna semplice e buona che lottando e soffrendo trova una vita migliore anche se lontana dalla sua terra, ma sarà proprio tale lontananza a lasciarle inevitabilmente un’ombra di malinconia e di rammarico nel cuore.           

Mauro Barindi

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Mariana Codruţ è nata nel 1956 nella località di Prisăcani, nel distretto di Iaşi, città presso la cui Università si è laureata in Lettere (sezione Romeno-Francese). Durante gli anni universitari, ha collaborato come correttore esterno per la casa editrice Junimea, e dopo la laurea ha insegnato romeno in un villaggio; in seguito ha lavorato come segretaria letteraria al Teatro Nazionale di Iaşi. Dopo il 1989 è stata redattrice per breve tempo presso le riviste “Sud-Est” e “Convorbiri Literare”, mentre dal 1993 è redattore presso le Edizioni dell’Università di Iaşi e da anni tiene un seminario sul “testo giornalistico” presso la Facoltà di Giornalismo dello stesso ateneo. È attiva nella stampa culturale e quotidiana con commenti politici, recensioni, cronache, interviste, rubriche ecc.
Ha pubblicato sei volumi di poesie (La rosa canina nella legnaia, Junimea, 1982; Schizzo di un autoritratto, Junimea, 1986; Capricci da notte d’estate, Cartea Românească, 1989; Esistenza acuta, Cartea Românească, 1994; Blanc, Vinea, 2001; L’ultima patria, Paralela 45, 2007) e più recentemente una Antologia poetica, 1982-2007 (Paralela 45, 2011); i romanzi La casa dalle persiane gialle (Polirom, 1997), tradotto in tedesco da Michael Astner con il titolo Das Haus mit den galben Gardinen (Polirom, 1998) e Il nudo di Diana (Polirom, 2007), e il volume di racconti Ul Baboi e altri racconti (Polirom, 2004). È coautrice del Libro rosa del comunismo (a cura di Gabriel H. Decuble, Versus, 2004) e del Divano della scrittrice (Limes, 2010). Ha tradotto in romeno il volume La représentation du monde chez l’enfant di J. Piaget (Cartier, 2004).
Le sue poesie sono state raccolte in antologie romene e straniere. Ha pubblicato in riviste edite in Canada, Austria, Stati Uniti, Spagna, Repubblica Ceca, Italia, Canada, Macedonia ecc. Ha tenuto letture pubbliche in Germania e Austria e, sempre in veste di scrittrice, ha svolto viaggi in Ungheria, Macedonia e Stati Uniti. È stata titolare della rubrica d’opinioni “Cronaca del venerdì” nel quotidiano “Ziarul de Iaşi”. È membro dell’Unione degli Scrittori di Romania (dal 1990) e del Pen Club (dal 2003) e tiene inoltre un blog personale (http://marianacodrut.wordpress.com).



FU ALLORA CHE IMPARAI A FARE SACRIFICI
GERTRUD B. DIALOGA CON MARIANA CODRUŢ


I sassoni di Transilvania, con alcuni dei quali, dopo il dicembre dell’89, ho stretto amicizia, durante il comunismo hanno patito, in quanto minoranza tedesca, gli stessi traumi della vita di ogni giorno come la popolazione maggioritaria. Ma, a parte ciò, la possibilità di evadere dal regime-lager ha comportato per loro, oltre alla fortuna di vivere in un mondo normale, anche la sofferenza causata dalla temporanea separazione dai propri familiari e, in parecchi casi, laceranti conflitti d’identità. “Avevo una casa, ma era realmente come sentirsi “a casa”?, si interrogava la mia eroina, la professoressa Gertrud B., partita per la Germania Federale alla fine degli anni ’70 assieme a tutta la sua famiglia.
La sua storia mi è sembrata preziosa e assolutamente necessaria nell’economia del volume curato da Dan Lungu e Radu Pavel Gheo, per ricostruire l’atmosfera degli anni del regime di Ceauşescu, frustranti per tutti, ma oltre ogni limite per le donne.

Cara Gertrud, com’era l’atmosfera in Romania e dove abitavi tu durante gli anni di studio?

Faccio parte della generazione di coloro che hanno dato l’esame di maturità quando si faceva ancora dopo due anni di liceo. Si era ammessi all’università dopo una prova scritta e orale che verteva sulle materie principali (nel mio caso, matematica e fisica), come pure sulla lingua e letteratura romena e sulla lingua russa, che cominciai a studiare già in quarta elementare.
Durante gli anni ’50, la libertà di culto era garantita per legge (ma solo a parole, nei fatti, invece, si arrivava a espellere dall’università quegli studenti che frequentavano la chiesa); nonostante ciò, i preti erano pagati quanto una donna delle pulizie. Essendo figlia di un prete, ero obbligata ad avere buoni voti all’esame di ammissione, per poter ottenere la borsa e assicurarmi in questo modo il vitto e l’alloggio nella casa dello studente. E ci sono riuscita (io sono stata fortunata; mentre, nel caso di mia sorella, le cose sono andate diversamente: il decano della sua facoltà applicava altre regole, e i figli di un prete non avevano diritto alla borsa; ciò voleva dire che a mia sorella non venne assegnato un alloggio nella casa dello studente, fu costretta a stare in affitto, sicché i nostri genitori le dovevano inviare ogni mese 500 dei 750 lei che costituivano il salario di nostro padre). Al mese ricevevamo inoltre altri 30 lei (per avere un’idea, posso dire che all’epoca una brioche costava 1 leu). Dopo gli esami alla fine del primo semestre, che superai tutti con il 10, ricevetti altri 50 lei come borsa di merito. Strinsi i denti e mantenni quel livello. Mi guadagnavo qualcosa in più dando anche lezioni private di tedesco. Nella borsa era compreso il biglietto del treno per andare in vacanza. In tutti e quattro gli anni di università a casa ci andai solo tre volte, escluse le vacanze, perché non potevo permettermi di pagare il viaggio.             
Nella casa dello studente, durante il primo anno, in stanza eravamo in nove ragazze. Più tardi fummo trasferite in stanze con quattro letti. Il vitto alla mensa lasciava molto a desiderare, ma da casa ci mandavano dei pacchetti con provviste, che poi dividevamo fra noi…
Feci le elementari, le medie e il liceo in una scuola di lingua tedesca. All’università le lingue d’insegnamento erano il romeno e l’ungherese. Io non parlavo l’ungherese, per cui m’iscrissi alla sezione di lingua romena. Mi trovai benissimo con tutti i miei colleghi, sebbene fossi la più giovane (avevo 16 anni, mentre c’erano alcuni colleghi che avevano già superato la trentina e avevano maturato esperienza nel mondo del lavoro).
Dato che i nostri vestiti erano piuttosto modesti, durante il primo anno non osavamo andare all’Opera. Avevamo sentito dire che lì le persone andavano vestite in maniera molto elegante. Ma in cambio andavamo spessissimo al cinema e vedevamo parecchi film, che mi rimasero impressi nella mente per tutta la vita, e solo più tardi anche all’Opera. All’epoca, fonte di cultura generale erano soprattutto le opere di Verdi e altre opere o operette, come pure gli adattamenti cinematografici di alcuni romanzi della letteratura universale e io me ne beavo. Durante gli anni di liceo, quando per due anni studiai solo la geografia dell’URSS e la storia del Partito Comunista dell’URSS, la cultura generale lasciava a desiderare. Inoltre, il fratello di un collega d’università, studente al conservatorio, ci portava alle prove dell’Orchestra Filarmonica che, per me, costituivano una gioia enorme. Il tempo libero però lo passavo soprattutto stando sui libri. Solo una volta all’anno andavamo al ballo degli studenti tedeschi della città.
Fra i professori universitari, due sono stati quelli che contribuirono a formarmi come insegnante. Il primo ci illustrava famosi e illustri teoremi, di cui non capivamo nulla. Con lui, l’esame con settanta studenti durava tre giorni. L’altro, invece, entrava in classe dopo il trillo della campanella e le due ore di lezione passavano rapidamente, ogni frase era chiara; quando suonava la campanella, metteva giù il gessetto e usciva dall’aula. Con lui, l’esame iniziava alle 7 del mattino, e per la sera era finito. In seguito, quando diventai anch’io professoressa, tentai di imitarlo: con la puntualità sono sicura di esserci riuscita, quanto alla chiarezza d’esposizione spetta solo ai miei ex allievi giudicare.
Fummo l’ultima generazione di studenti che diede l’esame di stato dopo quattro anni. I colleghi mi scelsero come capofila della nostra classe, nonostante che al banchetto di laurea non avessi ancora compiuto i venti anni. Come posto di lavoro, scelsi un villaggio vicino a dove abitavano i miei genitori, ma finii poi per essere nominata professoressa nel mio ex liceo, dove insegnai fino alla mia partenza dalla Romania.

Hai accennato al fatto che vestivate modestamente. Una cosa molto frustrante, soprattutto durante il periodo degli studi. Che aspetto avevano i vestiti? Come ve li procuravate? C’erano colleghe vestite meglio di te?

Non c’è paragone tra le condizioni di allora e quelle di qualche tempo dopo o di oggi. All’epoca le cose si compravano con la tessera. Per un fazzoletto si punzonava un certo numero di punti, per un cappotto un numero più grande. Se esaurivi i punti a disposizione, non ti potevi comprare più nulla fino alla tessera del trimestre dopo. Se non usavi i punti, per non perderli, alla fine del trimestre eri costretto a comprarti delle cose qualsiasi, a volte prive di utilità…
La situazione non era per niente facile con i vestiti… Per esempio, allora non si trovavano i collant di nylon o erano molto cari (80 lei, rispetto ai 70 che erano quanti ne servivano per un paio di scarpe!), sicché portavamo delle calze bianche, spesso lavorate ai ferri da noi stesse. Avevo un sogno allora che era quello di avere un paio di stivali, perché avevamo solo scarpe – alcune colleghe andavano in giro addirittura con la neve alta indossando scarpe aperte dietro! Il sogno di avere un paio di stivali si realizzò molto più tardi…
Generalmente quasi tutte vestivamo alla stessa maniera, perché erano tempi di ristrettezze per tutti. Per esempio, compravamo pacchi di scarti di lana da un negozio, li annodavamo e confezionavamo dei maglioni, alcune di noi li vendevano pure. Qualche volta, le colleghe si prestavano una camicetta o una gonna più nuova o più bella (allora non si portavano i pantaloni).  Io non mi comprai mai niente, perché i vestiti me li faceva una sarta del mio villaggio, dato che lì la stoffa era più a buon mercato.
Durante tutti e quattro gli anni di università, portai un cappotto raglan verde, che dopo due anni indossai al rovescio e che mi durò così per gli altri due anni. Mi viene da sorridere ora pensando a queste cose e riflettendoci non mi sentivo avvilita per via di simili privazioni. Credo sia stato allora che imparai a fare sacrifici, cosa che mi fu d’aiuto nella vita anche in seguito.

Com’erano le condizioni delle scuole in cui hai insegnato? E, in generale, quali problemi hai dovuto affrontare come professoressa?

L’assegnazione del posto si faceva in base alla media ottenuta agli esami. Ero sedicesima nella graduatoria degli oltre seicento laureati di tutta la Romania. In Transilvania i posti disponibili erano solo per le scuole di campagna. Poiché ci tenevo a stare vicina ai genitori, scelsi un villaggio che disponeva di una scuola con solo la quinta elementare e la prima media, e la seconda media che si sarebbe aperta di lì a poco. Il villaggio poteva essere raggiunto solo o a piedi o in carretto, dato che la stazione distava due chilometri, e il treno circolava solo due volte al giorno.

Proprio come nel mio caso, negli anni ’80, per quanto riguarda i mezzi di trasporto; con la differenza che io dovevo farmela a piedi per quattro chilometri, se sceglievo la strada più breve… Ma riprendiamo il discorso.           

Chissà, forse perché abituata fin dall’infanzia a prendermi cura delle mie sorelle più piccole, mi piaceva lavorare con i bambini. Per completare l’orario prescritto, insegnavo, oltre alle mie materie, ginnastica (senza una palestra), agricoltura e lingua russa. Poi, negli anni ’60, si dava grande risalto al lavoro extrascolastico degli alunni. Ognuno era tenuto ad avere un’attività culturale: condurre un gruppo teatrale, di ballo, un coro... Importantissima era anche l’attività con i pionieri, che doveva essere pianificata così da evitare che i bambini frequentassero la chiesa.
I maestri erano inoltre obbligati a partecipare alle seguenti attività, programmate solo di domenica: due volte al mese un corso di politica, una volta al mese un circolo pedagogico di indirizzo e sempre una volta al mese istruzioni per le attività coi pionieri. Tutte queste attività si svolgevano nei centri distrettuali e, non essendoci mezzi di trasporto, si raggiungevano spostandosi in carretto. Specie in autunno, sotto la pioggia, il viaggio si trasformava in una vera odissea…
Avevamo anche l’obbligo di censire il bestiame. Poi, nella prima settimana di ottobre, c’era “La settimana della Croce Rossa”. Noi professori dovevamo andare di casa in casa a verificare che non ci fossero infestazioni di pulci, pidocchi o di qualcos’altro del genere…

Com’è piccolo il mondo comunista, Gertrud! Durante il mio primo anno d’insegnamento, nel 1981, nel villaggio di Comarna del distretto di Iaşi, siamo dovuti andare di casa in casa per vedere dove avesse defecato non so quale bontempone, dato che vi era il sospetto che si fosse diffusa una malattia infettiva molto grave, il colera mi sembra, se ricordo bene! Scusami per l’interruzione…    

Le vacanze dei maestri non duravano quanto quelle degli alunni. Dei tre mesi di ferie, uno lo dovevamo svolgere di servizio a scuola. Essendo giovane e senza obblighi familiari, spesso fui mandata a sostituire altri colleghi.
Sorgevano inoltre situazioni impreviste. Una volta dovetti sostituire la professoressa di un liceo tedesco che aveva chiesto il congedo per maternità. La mattina insegnavo nella mia scuola, e tre volte alla settimana di pomeriggio andavo (a piedi, dall’altra parte della collina) al liceo. La sera non avevo il coraggio di tornare indietro attraversando di nuovo la collina e quindi m’incamminavo lungo la strada principale, che allungava il tragitto di alcuni chilometri in più. Per mia fortuna m’imbattei con il conducente di un carretto, che, impietositosi, mi accompagnò alcune volte fino a casa. È così che iniziò una storia d’amore, e che continua ancora oggi, dopo quarantasei anni…
Dopo aver insegnato nel villaggio per due anni, arrivai al liceo dove avevo studiato io, e ora i miei nuovi colleghi erano i miei ex professori. Poco dopo entrai nella commissione per l’orario. All’inizio formavamo una squadra, ma alla fine rimasi da sola a occuparmi dell’orario di un liceo con tre turni di lezioni, uno al mattino, uno al pomeriggio e un altro la sera. Lavoravo su un tabellone grande quanto il tavolo, tracciato da me. Tentavo per quanto mi era possibile di riempire le lezioni delle colleghe che avevano figli piccoli. Le classi tedesche avevano tre ore in più durante la settimana, a causa del tedesco. Dato che la scuola era occupata dalle 8 del lunedì mattina fino alle 8 del sabato sera, mi assegnavo due ore di matematica il sabato sera dalle 6 alle 8. Era una classe di quaranta allievi, che aspettavano solo di finire il liceo. Spesso, durante l’ultima ora, mi venivano poste domande che mi davano da pensare, soprattutto perché molti di loro avevano parenti in Occidente. Da un lato volevo trasmettere agli allievi che capivo la loro situazione, volevo trasmettere agli studenti il fatto che li capivo, volevo fornire loro delle risposte utili. Dovevo comunque andare cauta, per non cacciarmi in qualche guaio…
Negli anni ’70 fu introdotta la “pratica agricola” all’inizio dell’anno scolastico. Lavorai in tutti i reparti agricoli: in quello della raccolta delle patate, delle rape e del granturco, ma il più bello fu in quello dei frutteti. Poiché lavoravo gomito a gomito con gli studenti, sia per coprire il mio orario, sia per dar loro una mano, non avevamo problemi disciplinari. Tanto che la “compagna Gertrud” e la sua classe finirono per essere i più richiesti. Questo lavoro era l’occasione migliore per farmi un’idea di ciascuno studente. Se vedevo che un ragazzo ci metteva olio di gomito nel lavoro, mi convincevo che avrebbe fatto strada anche nella scuola della vita pur senza conoscere il teorema di Pitagora…

[…]

Quando hai cominciato esattamente a pensare di emigrare e perché?

Come accennai prima, il fratello e una sorella del suocero erano partiti, prima uno e poi l’altra, per l’estero, ma noi non ci ponevamo il problema di partire o no. Nella primavera del ’69 feci domanda per avere il passaporto per andare a visitare quei luoghi. Ricevetti l’approvazione il 13 agosto, cioè due settimane prima che iniziasse l’anno scolastico. Con la mia coscienza di allora non potevo permettermi di assentarmi da scuola. Per cui partì mio marito, ci stette per sette settimane, durante le quali lavorò in un cantiere per potersi comprare una macchina. Fece ritorno in macchina e io poi partii il 26 dicembre per due settimane, senza dover così tralasciare la scuola. Nel frattempo ci comprammo una casa (piccolina, ma il cortile era tutto per noi). Poiché la casa si trovava lungo un corso d’acqua, venne inondata per due volte. La prima inondazione potemmo prevederla portando in soffitta tutto ciò che possedevamo; i mobili li mettemmo sopra le sedie e i tavoli e abbandonammo la casa ritornandoci dopo tre giorni. La seconda inondazione ci colse di sorpresa durante la notte, mio marito portò via i figli in macchina e ritornò a piedi. Rimanemmo tre giorni in casa circondati dall’acqua…
Intanto molti in paese cominciarono a fare richiesta per partire definitivamente. Noi eravamo convinti che non ce ne saremmo andati. Mio marito volle fare un viaggio per vedere le Olimpiadi di Monaco di Baviera. Non gli fu mai rilasciato il passaporto. Il numero di coloro che partivano con un passaporto per turismo e che non facevano più ritorno cresceva sempre di più. In un anno, in Germania rimasero più di cinquanta uomini, lasciando le famiglie a casa.
In quell’occasione vendemmo la prima casa e la macchina, e comprammo una casa più grande, in cui c’era posto anche per papà, che nel frattempo era rimasto solo. Ero io allora il fulcro della famiglia. Le mie sorelle venivano a trascorrere le ferie da noi. Per dieci giorni, a tavola eravamo in undici, e così la sera distribuiti in altrettanti letti.
Il terremoto del marzo del  1977 segnò l’inizio della separazione. Mio marito era stato destinato a Bucarest per valutare i danni. Veniva a casa ogni quattro o cinque settimane, solo per prendere dei vestiti puliti, e dopo due giorni ripartiva.
Sempre un 13 agosto ricevemmo per posta l’approvazione di rilascio del passaporto per mio marito. E allora ci consegnarono anche la Dacia per la quale avevamo depositato i soldi in banca. Mio marito la immatricolò, un amico lo portò alla stazione e mio marito partì e non fece più ritorno.
Avevo la macchina ma non la patente di guida. Dovevo chiedere un passaggio a destra e a manca quando dovevo andare da qualche parte. Fino ad allora non avevo mai provato a prendere la patente, perché ero convinta che in un momento di difficoltà avrei chiuso gli occhi e centrato in pieno il primo albero che avrei incontrato. Era arrivato il momento di iscrivermi a scuola guida. Cominciai in dicembre e feci le guide su strade ricoperte di neve, ma il 13 marzo mi rilasciarono la patente.
Ora se ci penso non so come sono riuscita a sbrigarmela in quel periodo. A scuola avevo quaranta ore di lezioni per sei settimane, fui obbligata a sostituire un collega. Alle ultime elezioni venni eletta deputato nel Consiglio Popolare. I miei tre figli erano ancora piccoli e avevo a carico anche mio padre, mia sorella più piccola aveva dato alla luce il primo figlio, e accanto a me si sentiva come a casa sua. Nell’orto era impossibile coltivare qualcosa a causa delle erbacce che attecchivano in gran quantità.
Ora mi rendo conto che quel periodo ha avuto delle ripercussioni positive: i miei tre figli, ai quali ero costretta ad affidare delle mansioni, erano molto uniti fra di loro, un rapporto che persiste ancora oggi, anche se separati da grandi distanze.

Che è successo quando ti sei presentata per fare la domanda di espatrio?

Quanto alla mia partenza, dopo che mio marito decise di non fare più ritorno, fui colta da tanti dubbi: partire o rischiare di divorziare e rimanere? Molti erano i fattori a favore, ma altri contro. Il mio ultimo ragionamento fu che i figli, compiuti i diciotto anni, se ne sarebbero andati comunque, e quindi che cosa avrei ottenuto?
Dalla partenza di mio marito passò quasi un anno prima che mi fosse consentito di presentare la richiesta per la partenza definitiva. Per non vedermi costretta a lasciare gli alunni a metà dell’anno senza maestro, presentai le mie dimissioni all’Ispettorato Scolastico e mi misi in contatto con il direttore di una fabbrica affinché mi assumesse. Ma a scuola non c’era nessuno che poteva sostituirmi, e il direttore della scuola mi pregò di rimanere fino al rilascio del passaporto, cosa che avvenne dopo sei mesi; poi passarono altri tre mesi fino alla partenza, perché, a causa dei preparativi per le elezioni, non c’era tempo per raccogliere i documenti per la consegna della casa all’amministrazione distrettuale.
L’ultimo giorno accesi un grosso falò nell’orto per bruciare molte cose che non era consentito portare con sé. Gli adulti avevano diritto a ottanta chilogrammi per il bagaglio, e i bambini a trenta, sistemati in casse apposite che metteva  a disposizione la dogana di Bucarest.
Dovevamo prendere l’aereo, e alla vigilia di Pasqua eravamo già arrivati all’aeroporto di Francoforte.  

E hai cominciato la tua nuova vita in un paese capitalista. Ti consideri una persona realizzata, Gertrud?

In Germania la fortuna fu dalla mia parte: mi assegnarono un posto in un liceo, dove insegnai per ventitré anni, fino alla pensione. I miei figli terminarono gli studi trovando una loro strada nella vita.
Come figlia di un prete di campagna, fin da piccola vidi la devozione dei genitori, e soprattutto quella di mamma, per la gente del villaggio. Seguendo il loro esempio, io mi dedico agli altri. Da un lato faccio parte di molti consigli direttivi dei sassoni che hanno lasciato la Transilvania, ma per dodici anni ho fatto parte anche del consiglio della chiesa della città in cui abitiamo. Da quando sono in pensione, mi occupo dei miei nipoti.
Ciononostante, credo che mi porterò nella tomba il desiderio di “sentirmi come a casa”, anche se non saprei ben dire con esattezza che cosa sia questo “sentirsi come a casa”. Durante l’infanzia io e i miei genitori cambiammo casa tre volte, poi vennero gli studi, il cambio del posto di lavoro, tre diverse case in città, la partenza dalla Romania. La prima cosa importante che abbiamo fatto qui è stato comprarci una casa, in cui abitiamo ancora adesso. È la nostra casa, ma è come… “sentirsi a casa”?


Mariana Codruţ
Traduzione dal romeno di Mauro Barindi

(n. 1, gennaio 2012, anno II)