No alla stupida nostalgia del comunismo: «Dedublarea», di Lăcrămioara Stoenescu

L’ultima fatica editoriale di Lăcrămioara Stoenescu (1942), dal titolo Dedublarea (pp. 436, Tracus Arte, Bucarest 2015) è un romanzo in forma di diario di viaggio che vede come protagoniste alcune signore, ex professoresse di liceo (Maria Șerban, la guida, Lia Sima, la voce narrante, Dana Gorun e Uta, tedesca della Bucovina) che stringono amicizia (o che scoprono di essere state colleghe nella stessa scuola) durante una gita da Bucarest in Germania passando per Budapest. Nel pullman, oltre a loro, la vecchia generazione, «depositarie», per così dire, e testimoni dirette del passato regime comunista romeno, c’è anche una giovane psicologa di ventisei anni, Betty (Elisabeta Albu) che incuriosita, orecchiando i racconti sul loro passato, a lei in gran parte sconosciuto, si aggrega a queste preziose donne-testimoni e instaura con esse lungo tutto il tragitto un fitto dialogo che serve, e in ciò consiste l’idea escogitata dall’autrice, a passare in rassegna tutta una serie di episodi – tragici o anche più ameni – legati alla storia romena e all’epoca comunista e proposti come ammonimento per le nuove generazioni contro certa manfrina del rimpianto per il triste regime imperversato in Romania per più di quarant’anni, tiritera alimentata dalla perniciosa azione nostalgica dei soliti e mai pochi smemorati della Romania dei nostri giorni, vecchi o giovani che siano.
La trovata narrativa dell’autrice si rivela doppiamente azzeccata, perché, passo a passo con la descrizione dei principali luoghi artistici e storici della Germania (Paese ammirato dalla voce narrante per il suo lascito culturale, e che visita per la prima volta, dato che sotto il comunismo le era stato rifiutato il visto d’uscita), vengono esposte vere e proprie lezioni di vita, sperimentate sulla propria pelle o raccolte da altre fonti, che aprono uno squarcio sulla realtà di allora che alla giovane psicologa sembra quasi fantascienza per gli aspetti assurdi e crudeli, tipici appunti di un regime illiberale e poliziesco, come quello romeno con cui la Securitate e uno stupido tiranno come Ceaușescu hanno defraudato un intero Paese. In questo modo, attraverso l’incredula Betty, l’autrice ci mette in guardia dalla facilità con cui ci si dimentica del proprio passato, quando è stato così nefasto e crudele per migliaia di inermi e innocenti cittadini, perché cancellare o relativizzare la memoria collettiva significa cedere ai fantasmi del passato, ridipingendolo con colori attraenti ma profondamente falsi.
Il romanzo vuole essere anche la continuazione in qualche modo della precedente prova narrativa di Lăcrămioara Stoenescu, În labirintul roșu (Tracus Arte, 2015), carica di riferimenti autobiografici, dove ritroviamo la stessa protagonista, Lia Sima, colta subito dopo la laurea in Lettere a Bucarest nel 1969 e spedita come professoressa di francese in uno sperduto villaggio di campagna del sud della Romania – come era destino per i neolaureati – e nella cui narrazione le vicende personali trasfigurate (i drammi familiari, la morte dell’amato padre e della nonna, il divorzio) si riallacciano a quelle rispolverate e rivissute coralmente in questo nuovo romanzo, sempre con lo stesso linguaggio efficacie e diretto che caratterizza la scrittura di Lăcrămioara Stoenescu, infaticabile e generosa testimone del suo tempo a insegnamento e monito per tutti noi.

Merita infine menzionare che il primo romanzo di questa scrittrice Copii – dușmani ai poporului (Curtea Veche 2007) è stato pubblicato in Italia dalla Saecula edizioni nel 2014 col titolo Bambini, nemici del popolo (presentato in anteprima su «Orizzonti culturali» e lanciato al Salone del Libro di Torino), e che Lăcrămioara Stoenescu è autrice inoltre di altri libri di memorialistica, incentrati sulle deportazioni comuniste (De pe băncile școlii în închisorile comuniste, Curtea Veche, 2010, 2014; Memoria stigmatelor, Curtea Veche, 2012), nonché di riduzioni radiofoniche tratte dai suoi libri e di due volumi di poesie per bambini.


Brano estratto da «Dedublarea»

«Decreței» («i figli del decreto»)
dal capitolo La città di Brema e i suoi musicanti


Ci dirigevamo verso Brema, la città dei famosi musicanti della fiaba dei fratelli Grimm. Betty aveva preso posto nel pullman accanto a Uta, una insegnante di Brodina, e il nostro gruppo si mise a discutere animatamente della situazione venutasi a creare dopo il 1966 quando, con un decreto, Ceaușescu proibì le interruzioni di gravidanza e di conseguenza vennero al mondo tanti bambini, i cosiddetti «figli del decreto». Conoscendo il problema, Betty si fece coraggio e prese parte alla discussione:
– Magari non ci crederete, ma perfino mia zia, sorella di mia madre, è stata una «figlia del decreto».
– Ma non mi dire! Allora ciò significa che non hai bisogno di spiegazioni e che potrai raccontarci qualcosa anche tu.
– Non è proprio così, signora Lia! È che l’argomento non mi è del tutto sconosciuto… Mamma diceva spesso a mia zia: «Se quel criminale non avesse emesso il decreto, tu non saresti fra noi!» e scoppiava a ridere. Essendo piccolina, ridevo anch’io ma non ci capivo granché, però quando sono cresciuta, le ho domandato perché la zia si sentisse presa di mira quando le diceva quelle cose. Mamma mi ha spiegato che i genitori non avrebbero desiderato avere un altro figlio, cioè sua sorella minore, e che si deve al decreto se lei è venuta al mondo. Sicché la zia ne era riconoscente proprio per il fatto di essere nata.
Betty ci confessò che all’epoca non aveva dato molto credito alle parole della mamma, pensava infatti che la nonna avrebbe potuto prendere degli anticoncezionali, ma forse voleva solo indispettirla. Vedendo che ce ne stavamo zitte, ci domandò se la gente allora fosse così ignorante da non aver mai sentito parlare di anticoncezionali. Noi ridemmo, e le dicemmo che molti giovani non si rendono conto di com’era la situazione all’epoca. Le raccontammo che erano tempi in cui ci riscaldavamo ancora con la stufa a legna, che illuminavamo la casa con le lampade a petrolio, e col petrolio cucinavamo pure o si usava un fornelletto elettrico e che usavamo delle lavagnette per scrivere, e gli anticoncezionali si trovavano in farmacia solo a partire dalla fine degli anni ’50.
– Davvero? Ma “i figli del decreto” risalgono al ’67, signora Lia…
– È così… Nel 1966 Ceaușescu aveva firmato quel decreto, in base al quale l’aborto veniva messo fuori legge. Potevano interrompere la gravidanza solo le donne con gravi malformazioni, o che avevano avuto già quattro figli o che avevano subito due parti cesari. Tua nonna è stata fortunata a cavarsela solo con due figlie. Ceaușescu voleva accrescere il tasso di natalità per far aumentare la popolazione del Paese. In seguito al decreto, la situazione demografica è migliorata, tanto che il numero degli scolari è cresciuto in maniera vertiginosa. Nel 1978 a scuola avevamo ciascuna otto classi di prima media.
– È meglio se me lo spiega con un fatto concreto, signora Dana! Altrimenti faccio fatica a credere che sia andata così, dal momento che oggi le ragazze gli anticoncezionali li prendono a colazione.
La giovane rapportava tutto ai nostri tempi ed era normale che li raffrontasse con ciò che conosceva meglio. Diversamente, come poteva immaginarsi quale fosse la situazione all’epoca?
– Ho visto anch’io il film premiato nel 2007, a Cannes: 4 mesi, 3 settimane e due giorni, anche se non ho capito perché la protagonista non aveva preso le dovute precauzioni.
– Eh, cara, avresti dovuto vivere in quell’epoca per capire com’era la situazione…
– Allora me la spieghi lei, signora Dana!
Dana era stata messa in difficoltà. Volente o nolente, doveva raccontarglielo. Tergiversò ancora un poco prima di rispondere ad alcune sue domande, visto che Betty stentava a credere che, allora, non venissero prodotte in Romania le pillole anticoncezionali, ma che venivano preparate di nascosto nelle farmacie e commercializzate in piccole quantità, solo tramite amicizie. Ci ricordammo come, per via del Decreto del ’66, fossero spariti dal mercato i preservativi che erano esistiti fino agli anni ’50, ma che parevano pure quelli fatti di pura gomma. Solo chi ancora aveva accesso all’Occidente se li poteva procurare e raccontare quanto sottili fossero e che buon profumo emanassero. Ma credo che dovessero essere ben nascosti, perché non venissero trovati dai doganieri, sennò li confiscavano. Le donne ricorrevano a metodi rudimentali per interrompere la gravidanza, poco efficienti, per cui molte ci lasciavano la pelle, lasciate a crepare come bestie se non confessavano chi le aveva aiutate ad abortire. Ovviamente, se arrivavano in tempo all’ospedale, avrebbero avuto qualche probabilità di sopravvivenza se avessero detto la verità. Gli aborti spontanei o no venivano denunciati davanti a un giudice! Perfino le attrezzature per la raschiatura erano registrate con tanto di numero! 
– Che barbarie, signora Dana! Lasciate a morire… Non era più semplice prendere precauzioni? E poi, come era possibile che ti obbligassero a fare pure la spia?
– Non riesci proprio ad arrivarci, Betty! Il decreto era stato varato per aumentare la natalità ed era un dovere di partito far accrescere la popolazione del Paese. Se non veniva rispettato, sia coloro che aiutavano ad abortire, sia le pazienti incorrevano nei rigori della legge, finendo dietro le sbarre.
– E se denunciavano il medico, la scampavano?
Intervenni rassicurandola che la ragazza aveva la vita salva, ma sia lei, sia la persona che aveva provocato l’aborto finivano in galera. Inoltre, colei che si prendeva incinta avrebbe avuto sulla coscienza per tutta la vita il medico che aveva fatto la galera per causa sua. Betty capì che non era affatto uno scherzo. Comprese che migliaia di donne erano morte, e che molte di loro, a causa del fatto che arrivavano in ospedale troppo tardi, non potevano più essere salvate; si domandava però come reagirebbe oggi un capo dello stato e consorte se venissero a sapere che le donne praticano l’aborto o usano gli anticoncezionali. Uta la fece scendere però con i piedi per terra, dicendole che sarebbero rimaste in vigore le stessi leggi draconiane, dato che non sarebbe stato permesso alcun cambiamento. In quei tempi difficili, molte donne credenti o che rischiavano di essere incarcerate, ricorrendo all’aborto, mettevano al mondo quattro figli, così come imponeva la legge. Ci furono molte però che rischiarono la morte. Le rammentai che il film citato si ispirava a un caso realmente accaduto.
– Io ho creduto che presentasse un caso isolato o che era solo finzione…
– Macché finzione, cara, macché caso isolato!
Betty tacque, sia perché aveva capito la situazione, sia perché si era resa conto di aver innervosito fin troppo Dana. La ragazza l’aveva punzecchiata, volutamente, perché sospettava che fosse a conoscenza di qualche caso a lei noto, relativo a una sua vicina o a una sua amica, e che presto avrebbe cominciato a raccontarlo. In effetti, Dana si era lasciata provocare e ci raccontò che una sua collega pendolare come lei era morta giovane a causa di un aborto, poiché si era rifiutata di rivelare il nome del medico, lasciando i suoi figli senza madre. Poi le disse che molte donne nella sua stessa disperata condizione, interrompevano la gravidanza in casa, in pessime condizioni igieniche, oppure si provocavano l’aborto da sole, e così, alla fine, Dana cominciò il suo racconto:
– La figlia della mia vicina aveva messo in pratica delle misure preventive: aveva acceso la radio con il volume al massimo…
– Incredibile, signora Dana! Ma i vicini non hanno protestato?
Vedendo che Dana quasi si tratteneva dal rispondere, le disse:
– Su, la prego, ci racconti!
Betty aveva raggiunto il suo scopo. Dana si era fatta incantare fino all’ultimo dalla ragazza, e io potevo così tirare un po’ il fiato, almeno per tutta la durata del suo racconto…
– Ci vuol poco a capire che l’avrebbero sentita urlare dal dolore…
– Eh, magari era stata anestetizzata!
– A casa? No, Betty, le hanno fatto il raschiamento sulla viva pelle.
Dana ci raccontò che la ragazza le aveva confidato che per non gridare aveva tenuto stretto fra i denti un fazzoletto. Aveva paura però che i vicini sarebbero venuti a bussare alla sua porta da un momento all’altro e che si era inventata un alibi. Aveva pensato di non andare ad aprire la porta, e se le avessero chiesto perché non l’avesse aperta, avrebbe risposto che era uscita di casa dimenticandosi la radio accesa. Ha avuto un gran coraggio, un coraggio che nasceva dalla disperazione. Era già arrivata al terzo mese di gravidanza, l’ultimo in cui si poteva ancora intervenire. Le domandai come mai avesse aspettato fino al terzo mese. Dana ci spiegò che le rane su cui era stato fatto il test Galli-Mainini erano «debilitate» e avevano dato ogni volta esito negativo, o così sembrava essere, sicché la ragazza seppe tardi della gravidanza. Un noto medico ebbe compassione di lei e glielo disse, senza riferirlo alle autorità, ma, per paura, non si azzardò a procurarle l’aborto.
– E allora chi ha fatto l’intervento?
– Un po’ di pazienza.... Lei credeva che il dottore fosse in ritardo ma che sarebbe arrivato.
– E non si è fatto vivo?
– La ragazza l’ha aspettato ancora per un po’, ma, vedendo che non si presentava e, essendo stressata dallo stato avanzato della gravidanza, ha rischiato.
– Sarebbe a dire?
– Si è affidata all’infermiera che le ha fatto il raschiamento, rassicurandola che tutto sarebbe andato bene.
– Io non ne avrei avuto il coraggio!
– Non aveva alternative.
Dana raccontò che l’infermiera faceva parte della commissione che allertava i giudici quando veniva infranta la legge. Si era arrivati al punto in cui era il lupo a far la guardia alle pecore! L’intervento riuscì talmente bene che la ragazza non ebbe alcuna complicazione. Fu fortunata, non come altre che avevano sviluppato infezioni ed erano morte. Betty non gradì molto quella storia triste, perché, in primo luogo, era stata tolta la vita a un bambino e ci chiese di raccontarle una storia più allegra. Quasi me la sentivo che sarebbe arrivato anche il mio turno per raccontare storie. Le dissi che c’erano stati anche eventi tristi, ma dal lieto fine. Allora Betty mi esortò a raccontarne qualcuno, pensando che ne avessi già pronto uno, e io non mi lasciai pregare tanto a lungo. 
[…]
Anche Uta volle raccontarci una storia vera, confidata a suo marito da un collega. Era un dramma vissuto da una famiglia che non desiderava più il quarto figlio. Non arrivando il maschio, si era accontentata delle tre figlie. Betty la pregò con insistenza: “Racconti, signora Uta, sembra una storia triste, ma interessante!”
In effetti, è come la sceneggiatura di un film dell’orrore. Il collega del marito e sua moglie, di comune accordo, decisero di rinunciare al quarto figlio! Avevano aspettato tanto perché nascesse un maschietto, e tre figlie erano già più che sufficienti. A fatica riuscirono a trovare un medico che eseguisse l’intervento, ma avrebbe interrotto la gravidanza solo da qualche parte in campagna, in un campo di granturco. Il marito, disperato, lo portò in macchina al posto convenuto e l’operazione si svolse in condizioni precarie e con strumenti non sterilizzati… Al termine dell’intervento, il medico commise l’errore di mostrargli la manina del bambino con i suoi ditini e le unghiette e di dirgli che era un maschietto. Dato che da tempo lo desiderava, vedendo i resti del feto, l’uomo ne fu scioccato per anni. Quando si incontrava con il marito di Uta, gli raccontava ogni volta quello che era accaduto: ne era ossessionato.
– Che crimine orrendo, signora Dana!
– Vi potete immaginare quanto sia stata marcata quella mamma!
– Peccato, signora Uta… Anche mio padre desiderava un figlio, però mamma non si è più presa incinta.       
[…]
Uta ci disse che Ceaușescu avrebbe dovuto ridurre il numero delle giovani che desideravano interrompere la gravidanza, istituendo nelle scuole ore di educazione sanitaria, ma Betty, più realista, le replicò che sarebbe stato inutile: chi non desiderava avere un figlio, comunque se ne sarebbe sbarazzato. Una ragazza non ancora sposata non poteva assumersi nessun tipo di responsabilità, se il suo partner non voleva riconoscere il proprio figlio. Le dissi di esercitare un po’ la fantasia e di mettersi nei panni di quelle ragazze, per riuscire a comprenderle. Oggi è molto più facile sapere, con tanti contraccettivi a disposizione, il momento in cui programmare la gravidanza, ma le diedi la ragione quando diceva che è sempre stato difficile per una donna essere responsabile della crescita di un bambino, specie al di fuori del matrimonio.
[…]
Il decreto del 1966 significò per le donne romene un crimine organizzato, un olocausto, un loro genocidio. Rimasi sorpresa dal modo maturo e profondo con cui pensava Betty. Aveva colto da sola il crimine generato dal sistema, che incolpava le donne che non desideravano la gravidanza e che le lasciava morire perfino negli ospedali di Stato. Betty fu sorpresa dal fatto che non si fosse censito il numero di coloro che erano morte e che non esistesse una statistica. Non ci domandò se ne avessero scritto i giornali o discusso alla radio e in tv, intuendo dai nostri discorsi che nessun giornale, nessun canale televisivo o radiofonico avrebbe avuto il coraggio di farlo. Ci sorprese la sua conclusione quanto mai pertinente secondo cui il sistema aveva assassinato in nuce ciò che si sarebbe potuto sviluppare, in seguito, in maniera armoniosa, in qualità di «uomini di tipo nuovo», come furono chiamati i giovani dai comunisti, i quali, sebbene desiderosi di educarli secondo spirito patriottico, li avevano invece sacrificati, per mezzo delle loro madri, per lavarsene poi le mani come Ponzio Pilato.
– Qualcuno dovrebbe tentare, almeno oggi, di mettere a punto questa statistica, signora Lia! Non sarebbe tardi, se si facessero ricerche negli archivi. Credo che solo per questi crimini, i tiranni andrebbero condannati.
– Nei registri degli ospedali non era mai trascritta la vera causa del decesso, Betty. Sotto il comunismo molti orrori e altri crimini orribili sono stati nascosti per bene!
– Ha ragione Maria.
– I ricercatori potrebbero farlo oggi, contando le donne decedute fino al quarantesimo anno d’età.
– Certo, sarebbe un’idea! Capisci perché c’è bisogno di giovani ricercatori con nuove idee, Betty? Tu ne hai avuta una che mi sembra preziosa!
– Ma quanto lavoro bisogna investire, signora, ora che ci penso…
– Mai dire mai!
– Ti basti pensare, Dana, che, al giorno d’oggi, alcuni stanno tentando di creare un mito intorno a Ceaușescu!

 

*

La storia di Victor – un promettente genio della matematica stroncato dal regime comunista

Eppure non possiamo venir sconfitti,
non possiamo venir sottomessi,
al massimo possiamo morire,
ma anche la morte è un’effigie della vittoria.

da Calitatea de martor di Ana Blandiana


Victor Stoica Olteanu era un giovane sensibile, delicato e onesto, giunto a un’età in cui gli si sarebbero dovute aprire tutte le porte ed essere ricompensato per il suo talento. A diciotto anni aveva già una mente superdotata, intuitiva e ricettiva, propensa alla matematica. Aveva ottenuto tredici diplomi alle olimpiadi di fisica e matematica, senza essere, ovviamente, un semplice secchione, dato che ai concorsi di questo tipo conta in primo luogo elaborare dimostrazioni logiche.
Era persona dotata di un umorismo squisito che manifestava in maniera naturale e che ne faceva un ragazzo gradevole sia ai propri familiari che ai colleghi. Aveva la matematica nel sangue poiché, fin dall’età di due anni, dimostrava spirito d’osservazione e una sete evidente di conoscenza.
– Ma perché sta parlando al passato, signora Lia? Gli è successo qualcosa di grave?
– Un po’ di pazienza, Betty, e lascia che ti racconti! All’epoca la famiglia Olteanu abitava in Bulevardul 1848, al quinto piano di un condominio e Victor era ancora piccolo. Osservava dalla finestra del salotto la gente, curioso di vedere che cosa succedeva in strada. Gli piaceva fare commenti da solo e registrare scene che, per gli altri, non significavano granché. Il ragazzo, distratto solo in apparenza, diceva dalla finestra: c’è un bambino che cammina da solo, senza la mamma né il papà, tre bambine attraversano la strada, due vecchi tengono in mano due ombrelli… E continuava così a studiare le altre persone che vedeva dall’alto.
– Ma quanti anni aveva all’epoca?
– Effettivamente, pur a un’età così tenera, si intuiva che era precoce. Dimostrava interessi diversi da quelli degli altri bambini della sua età. Disegnava e faceva calcoli, di sua iniziativa, un impulso che gli veniva da un desiderio interiore, da un sé desideroso di conoscere e di classificare le cose.
– Forse era un piccolo genio…
– Proprio così, Betty, hai detto bene, a Victor la matematica sembrava assolutamente necessaria, e degustava ogni attimo delle sue scoperte, con un talento di cui forse neppure lui era totalmente cosciente.
[…]
Nel 1959 il suo fratello maggiore, Mihai, fu arrestato e condannato per motivi politici. All’epoca Victor ne soffrì moltissimo, dato che erano legati da uno stretto vincolo affettivo.
– Mihai era collega di Hans?
– Sì, ed era presidente dell’organizzazione anticomunista «Fronte di Liberazione Nazionale», che aveva fondato al liceo «Matei Basarab» di Bucarest.
– Lo sospettavo…
I fratelli Olteanu erano i migliori allievi del liceo, vicini come età e inseparabili. Fra loro comunicavano quasi per via telepatica, senza parole, come succede fra gemelli, se riesce a seguirmi.
Nonostante ciò Mihai non ha voluto che Victor fosse implicato nell’organizzazione. Non avendo trovato traccia del suo nome nel registro delle sedute del Fronte di Liberazione Nazionale, la Securitate non lo arrestò. A Victor fu sufficiente vivere la tragedia dell’arresto sia del padre, sia del fratello, così come la radiazione dal lavoro della madre, impiegata alla Banca di Credito per gli Investimenti, perché il suo animo sensibile venisse terribilmente scosso. Mihai scorse Victor durante il processo ai membri dell’organizzazione, il 21 agosto del 1959, mentre se ne stava immobile, con lo sguardo di fuoco fisso su di lui. Aveva agito con grande responsabilità quando non volle coinvolgere il fratello nell’organizzazione, perché la loro mamma sarebbe stata distrutta se le avessero arrestato entrambi i figli. Il padre fu scarcerato dopo due mesi, nell’estate del 1959, ma ebbe enormi difficoltà a ottenere un impiego conforme alla sua preparazione: si era laureato presso l’Accademia di Alte Scienze Economiche di Berlino nel 1940, e aveva un dottorato in Scienze economiche. La madre, Sabina Olteanu, sebbene diplomatasi all’Accademia Commerciale e ispettrice alla Banca di Credito per gli Investimenti, dovette andare in pensione per motivi medici, in seguito all’arresto del figlio Mihai, e non sarebbe più stata riammessa al lavoro.
– Intuisco che Victor era un giovane ipersensibile e introverso. Mi immagino che abbia sofferto terribilmente a causa delle ingiustizie fatte alla sua famiglia. Essendo il figlio minore, doveva avere un rapporto speciale con la mamma e per questa ragione gli era insopportabile un simile dramma.
– Ci stai dimostrando, Betty, di essere un’ottima psicologa.    
Raccontai loro che Victor usciva a passeggio a braccetto di sua madre, tenendola stretta per infonderle coraggio, ma avvertiva sempre sul collo «l’occhio vigile» degli informatori. Ogni giorno che passava, vedeva la pace di casa sua spazzata via. Nulla era più come prima e, soprattutto, sentivano la mancanza di Mihai. La famiglia non guardava più al futuro con la stessa serenità e pace di prima. Quando più tardi passeggiavano insieme nel Parco Carol, sul volto di Mihai e dei genitori si leggeva la sofferenza, e il dolore li sopraffaceva. La gioia era sparita da tempo ormai dalla loro famiglia perfetta: il padre, la madre e lui camminavano in silenzio, affrontando il loro destino con dignità. Un giorno suo padre, ritornato a casa da una impresa dove aveva chiesto di essere assunto, disse a Victor che l’avrebbe trasferito al liceo «Ion Creangă», affinché si sottraesse al controllo assillante della Securitate e potesse così terminare gli studi in tranquillità. Doveva essergli assicurata la possibilità di essere promosso all’esame di maturità e all’esame di ammissione all’università.
[…]
– Il ragazzo accettò di essere trasferito, presagendo che la decisione del padre fosse saggia. Essendo un ragazzo sveglio, ma anche disciplinato, fiducioso delle proprie forze, Victor si trasferì nel muovo liceo, una buona scuola, non lontana dalla loro casa. Era molto intelligente ed era conscio che suo fratello, in quanto detenuto politico, come conseguenza del fatto che era stato il fondatore dell’organizzazione, gli aveva compromesso l’ammissione all’università. Per questa ragione dava ragione a suo padre, che aveva deciso di toglierlo da sotto gli occhi del preside e dei securisti che infestavano e sorvegliavano il liceo. Raccontai loro poi anche quanto bene fu accolto Victor al liceo e quanto in fretta si integrò con i suoi compagni di classe che lo apprezzavano e a cui volevano bene perché era buono e modesto. Ma Victor non si considerava mai diverso dagli altri e non ostentava il proprio talento, sebbene si fosse costruito la fama di essere il matematico della classe. Aveva fatto amicizia con Ioana, una ragazza sveglia anche lei, la quale lo apprezzava moltissimo per il suo talento per la matematica e per il modo con cui risolveva complessi problemi matematici. Minuta di costituzione e magrolina, era dotata di parecchia forza e passione per le scienze e si impegnava con tutta sé stessa per eguagliare Victor, ma il ragazzo, forte del suo talento, staccava nettamente gli altri. Al liceo, la sbalordiva con la sua passione per la matematica, promettendo di diventare un genio nel settore. Era arrivata a credere che non sarebbe mai diventata come lui. Ciò nonostante, molti anni dopo, lei sarebbe diventata professoressa all’Università di Davis, California, e avrebbe mantenuto inalterata nei confronti di Victor la sua stima, rivelatasi giusta. […] Un giorno, all’inizio del trimestre, fu chiamato alla lavagna e risolse velocemente e con grande facilità un’integrale per parti, su cui la professoressa si era quasi impantanata. Alcune integrali erano difficili da risolvere, bisognava scegliere bene le parti, altrimenti neppure i professori riuscivano a trovare la soluzione. Ma non a caso il ragazzo era olimpionico di matematica. Ben educato com’era, e visibilmente imbarazzato per via della difficoltà in cui si trovava la professoressa, scatenò una muta lotta dentro di sé fra il desiderio di non offenderla e la passione per la matematica. […] Prima della preparazione per le olimpiadi, lei lo chiamò per avvertirlo che non avrebbe potuto partecipare alle olimpiadi internazionali, cosa di cui lui probabilmente si rendeva conto. Certo, il liceo desiderava che la sua squadra vincesse un diploma, ma non si poteva correre il rischio che venissero a scoprire che il premiato aveva per fratello un detenuto politico. Betty ha sottolineato l’ingiustizia del sistema, precisando che, oggi, nessuno oserebbe comportarsi in questo modo e che sarebbero state presentate contestazioni, arrivando fino a coinvolgere il presidente della Romania. Io sono intervenuta facendole notare che all’epoca queste cose non si potevano fare presso il Partito o la Securitate, perché unicamente loro erano quelli che gli vietavano di partecipare. […] Giunto a casa, la mamma gli domandò perché fosse stato escluso dalle olimpiadi, e lui le rispose che non era colpa della professoressa, la quale anzi avrebbe desiderato, come qualsiasi altro docente, di sentirsi orgogliosa che il suo allievo ricevesse alla fine il premio, perché era fuor di dubbio che ne avrebbe conseguito uno. Probabilmente lei aveva provato un sentimento di totale impotenza, duplicato dalla tristezza nel momento in cui scoprì che il suo allievo più bravo era stato eliminato dal concorso per motivi politici. Ma neppure lontanamente si sarebbe potuta immaginare l’amarezza nell’animo di questo giovane genio, al quale un sistema orribile e spietato aveva provocato una grande ingiustizia, sottraendogli un diritto che gli spettava, solo perché suo fratello era un detenuto politico. Era assurdo e incomprensibile per un adolescente di neppure sedici anni.
– Ma non era normale, signora Lia! Ognuno è responsabile delle proprie azioni! Perché dovevano rimetterci i figli per una supposta colpa dei genitori o dei fratelli?
– Hai colto bene il punto, Betty, perché anche i genitori sono stati arrestati per le azioni dei figli… 
– Da quel che ho capito il padre di Victor non aveva nessuna colpa, ma che è stato arrestato lo stesso, essendo sospettato di aver incitato i giovani a organizzarsi, sebbene lui non ne sapesse niente. È proprio scandaloso!
– Devi sapere che anche il ragazzo si sentiva frustrato e pensava che sarebbe stato meglio avessero rinchiuso anche lui in carcere, per non soffrire più a quel modo stando fuori. Lì, almeno, avrebbe capito quel che accadeva, mentre fuori, si vedeva escluso, senza diritti, e non gli serviva a niente la libertà.
[…] Le raccontai che Victor aveva dato l’esame di ammissione alla Facoltà di Matematica dell’Università di Bucarest. Concorse con altri figli di intellettuali per coprire appena il 10 % dei posti a disposizione. Questi non aveva diritto a partecipare insieme ai figli di contadini collettivizzati o di operai che beneficiavano di borse e ai quali erano riservati il 90% dei posti. Dopo aver sostenuto la prova orale, un professore della commissione gli domandò dove avesse studiato così bene la matematica. Victor rispose, sorridendo, che aveva una sua piccola biblioteca. Aveva imparato il latino al liceo e, probabilmente, si riferiva al detto: Omnia mea mecum porto, dando alle sue parole la stessa connotazione del noto detto. «Biblioteca» poteva significare la sua «mente», che aveva assimilato quasi tutti i libri studiati. Allora, un altro professore esclamò che poteva dargli solo 10. Il ragazzo ignorava però l’ordine che aveva ricevuto la commissione «dall’alto».
– Quale ordine, signora Lia?
– Un po’ di pazienza, Betty, ogni cosa a suo tempo!
Dopo l’esame, le liste con i candidati dei promossi e dei respinti, furono affisse il 30 settembre. Quando alla fine furono rese pubbliche, genitori, figli, parenti e amici andarono a vederle. Victor non volle andarci, sapeva di aver risposto a tutto in maniera perfetta, ma i suoi genitori volevano leggere il suo nome sulle liste. Il padre cercava disperato il nome del figlio tra quelli ammessi alla facoltà, ma non lo vide a causa dell’emozione. Sospettando che fosse accaduto qualcosa, si rivolse alla moglie perché gli confermasse che Victor era stato ammesso. Lei gli mostrò che il nome del figlio era il primo, ma, sorpresa!, accanto alla lista si accorsero che c’era un’altra lista speciale, quella con i candidati che avevano presentato problemi nel dossier d’iscrizione. La signora Olteanu era rimasta paralizzata. Non riusciva più a dire una parola; il nome di Victor Stoica Olteanu era barrato con una linea rossa. Il padre, presentendo il disastro, disse alla moglie: «Che facciamo, cara? Come facciamo a dirglielo? Sarà uno choc per lui […]». Raccontai loro che i genitori si decisero alla fine di dire al ragazzo la verità, ma davanti al figlio, la madre rimase senza parole. Il ragazzo lesse nel suo sguardo una profonda tristezza. Paralizzata dal dolore, la signora Olteanu continuò nel suo mutismo. Victor non insistette, e solo in quel momento comprese il significato della frase «Io non posso dare a questo candidato altro che un 10!» L’adolescente capì che i professori non si aspettavano che fosse così bravo. Avevano ricevuto l’ordine di escluderlo, e non potevano opporsi. […] Il ragazzo si chiuse in camera sua e per ore se ne stette a riflettere sommerso da una profonda inquietudine. Poi si sentì un rumore, un tonfo e la sua sofferenza fu recisa. Non sopportava più tanta ingiustizia… Una folla di gente si riunì al pianterreno. C’era un gran vocio.
– Cos’era successo, signora Lia? Non si sarà suicidato…
– No, Betty, lui non si è suicidato, ma ha protestato a modo suo contro un sistema disonesto, che aveva condannato a morte un giovane così pieno di talento…
Spiegai loro che Victor era troppo intelligente per non capire che la vita che gli restava da vivere non era più vita. Era stato condannato a morte, scientemente. Questo per lui avrebbe significato vivere senza la matematica, la sua unica ragione di vita. Senza la sua passione, non concepiva la propria esistenza, era come se fosse morto. Avrebbe vegetato. Si rese conto che mai sarebbe riuscito a iscriversi a questa facoltà, che non avrebbe avuto modo di accedere a una carriera che tanto desiderava. Che ne sarebbe stato di lui? Forse un semplice tornitore […]? Victor era conscio del proprio genio! Comprese che non aveva scampo in questo Labirinto rosso che non conduceva da nessuna parte, perché tutte le strade gli erano state chiuse. Prevedendo un futuro così cupo, non poté più vivere in una società del genere, che gli limitava ogni diritto. Lasciò un biglietto nel quale spiegava il suo gesto di rivolta. […]

Addio!
È impossibile che, in simili condizioni nelle quali tutte le vie mi sono precluse, esistano altre possibilità all’infuori di questa. Fin da bambino ho saputo che Ică (mio fratello) e io avremmo avuto un futuro nero: Ică 16 anni, in galera, e io con tutte le strade chiuse. È inconcepibile che una società nella quale delle persone adulte, che in passato hanno vissuto altri tempi e che oggi ci governano, e che i ragazzi, i più innocenti, siano colpiti da ogni parte con tanta veemenza, possa accettare tali ingiustizie. È impossibile per me continuare a vivere in simili condizioni.

Addio!



A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 4, aprile 2016, anno VI)