«Enigma Otiliei» di George Călinescu: un romanzo non ancora tradotto in italiano

L’universo misterioso e inafferrabile di Otilia visto attraverso gli occhi di Felix segretamente innamorato di lei sullo sfondo di ripicche e miserie morali di due famiglie. Questa la quintessenza del romanzo di George Călinescu (1899-1965) intitolato Enigma Otiliei, pubblicato nel 1938 a Bucarest presso Editura Națională Ciornei. È il secondo romanzo dei cinque scritti da Călinescu: si iscrive nel genere realista e cittadino e presenta l’universo umano con tutte le sue debolezze e meschinerie – narrato secondo stilemi il cui prototipo si rifà apertamente a quello balzachiano –, di due famiglie della borghesia bucarestina degli inizi del secolo scorso: da un lato quella dell’anziano e avaro Costache Giurgiuvenau e dall’altro quella della sorella di questi, Aglae, moglie di Simion Tulea, un vecchio rammollito e afflitto da demenza senile, completamente succube di lei, e madre di tre figli: l’insipido Titi e le due perfide Aurica e Olimpia, quest’ultima moglie di Stănică Rațiu, un arrivista senza scrupoli. In gioco c’è la fortuna di Giurgiuveanu «minacciata» da Otilia, la figliastra, fonte quindi di invidie e risentimenti da parte del «clan» Tulea, che la vedono come un ostacolo sulla loro strada al fine di accaparrarsi i soldi dell’eredità. In questo quadro familiare poco confortante, segnato da tensioni e cattiverie di ogni tipo, entra in scena, anzi, apre il romanzo stesso, uno dei personaggi-chiave, il diciottenne Felix Sima, il quale, giunto a Bucarest da Iași per studiare medicina e stabilirsi presso lo «zio» Giurgiuveanu, designato a suo tempo come suo tutore quando il padre sarebbe morto, incontra la poco accogliente e distante famiglia adottiva e l’enigmatica «cugina» Otilia, la protagonista del romanzo, orfana anche lei come lui, e da lui amata in segreto. I suoi sentimenti sono però messi a dura prova e dall’ondivaga Otilia e dalla gelosia nei confronti di un’altra presenza di casa Giurgiuveanu, ossia il non più giovane e aristocratico Leonida Pascalopol, che con Otilia intrattiene un rapporto che va oltre una paterna amicizia. Il romanzo doveva intitolarsi Părinții Otiliei, ma per ragioni addotte dall’editore – serviva un titolo più «commerciale» – fu cambiato in quello che conosciamo oggi e che senza dubbio ha maggiore presa rispetto a quello pensato in origine da Călinescu e che si accorda pienamente anche con lo spirito del personaggio Otilia. Alla pubblicazione del romanzo, alcuni critici fecero comunque notare che l’«enigmaticità» di Otilia non era tale nella trama del romanzo dato che tutto era chiaro nella sua evoluzione all’interno della storia. Călinescu si difese affermando che era una enigmaticità riflessa in Felix, ossia che il suo carattere misterioso e inafferrabile nasceva dall’incapacità di comprendere fino in fondo il suo modo di agire: è Felix insomma a credere che Otilia sia un enigma, perché ogni donna che si sottrae è per l’uomo un enigma, e che il vero enigma semmai è quindi la sua femminilità, o semplicemente l’universo femminile tout court (si veda: Ion Bălu, Otilia, o enigmă textuală in «Apostrof» n. 3, 2013).
Sorprende il numero di traduzioni che il romanzo ha conosciuto – in francese: L’énigme d’Otilia, La Nef de Paris, Parigi (s.a.); in russo: Zagadka Otilii, Izdatel’stvo inostrannoj literatury, Mosca 1959; in tedesco: Rätsel um Otilia, Der Morgen, Berlino 1961; in lituano (dalla traduzione russa): Otilijos paslaptis, Valstybinė grožinės literatūros leidykla, Vilnius 1962; in greco: To énigma tis Otília, Féxis, Atene 1965; in ceco: Otyliina záhada, Lidové Nakladatelství, Praga 1967; in spagnolo: El enigma de Otilia, Losada, Buenos Aires 1967) – ma nessuna in italiano (esiste un frammento tradotto, a cura di Raffaella Tuan, in: Celestina Fanella, L’altra Europa – Percorsi narrativi romeni fra Otto e Novecento, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2005, pp. 267-277), come d’altronde, ancor più in maniera sorprendente, nessuno dei romanzi di G. Călinescu. Eppure i legami e i contatti che lo scrittore – l’italianista George Călinescu! – aveva con l’amata Italia avrebbero potuto favorire in qualche modo la diffusione dei suoi romanzi in italiano: rimane un mistero come non sia potuto accadere.



Frammento da «Enigma Otiliei»


I


In una sera d’inizio luglio del 1909, poco prima delle dieci, un giovane sui diciott’anni, vestito nell’uniforme liceale, imboccava via Antim proveniente da via Santi Apostoli, reggendo una sorta di valigia non troppo grande ma che di sicuro doveva essere alquanto pesante, dato che la faceva passare faticosamente da una mano all’altra con una certa frequenza. La via era deserta, immersa nel buio e, sebbene fosse estate, fresca e frusciante come un bosco dopo un forte acquazzone. In effetti, tutti i cortili lì intorno e soprattutto il giardino che circondava la chiesa erano occupati da alberi secolari, come del resto lo erano generalmente i restanti cortili di quel grande villaggio che era a quei tempi Bucarest. Il vento scuoteva, a intervalli regolari, le chiome degli alberi, provocando un sommovimento invisibile, e solo l’oscurità e il ravvivarsi di una scia di stelle facevano intuire ai passanti che sullo sfondo del cielo si agitassero imponenti cime frondose. Il giovane avanzava lungo i muri delle case, scrutandone attentamente con lo sguardo, laddove lo permetteva la flebile luce dei lampioni, i numeri civici. La nera uniforme gli aderiva ben stretta ai fianchi, come una divisa militare, mentre il colletto inamidato e piuttosto alto e il berretto rigonfio gli conferivano un aspetto virile ed elegante. Il viso allungato aveva tuttavia un che di fanciullesco, quasi femminile, per via delle folte ciocche di capelli che sbucavano da sotto il berretto, ma il colore olivastro dell’incarnato e il taglio greco del naso correggevano in maniera spontanea quella prima impressione. Per la sua aria disorientata e per il fatto che passasse da un marciapiede all’altro alla ricerca di un determinato numero, si intuiva che non conoscesse la casa che stava cercando. Per strada non c’era nessuno e sembrava che la gente si fosse già coricata, poiché le lampade nelle case erano spente o coperte da grandi globi di vetro smerigliato affinché non dessero calore. In questa oscurità, la via presentava uno strano aspetto. Non c’era casa che fosse troppo alta e quasi tutte erano prive del piano superiore. Tuttavia, la sorprendente varietà architettonica (opera soprattutto dei muratori italiani), l’inusuale ampiezza delle finestre se paragonata al ridotto volume degli edifici, le decorazioni, ridicole per la loro magnificenza, la congerie di frontoni greci e addirittura di ogive, fatti di gesso e di legno dipinto, l’umidità, che faceva crepare gli stucchi, e l’aridità dilatare il legno, trasformavano quella via bucarestina nella caricatura di una strada italiana. Nei pressi del monastero, dall’altra parte della strada, una casa, dalle ampie finestre, era ancora illuminata. Di fronte sostava una lussuosa carrozza con un tiro di due cavalli bianchi, e dentro dormiva, con il capo affondato nel petto e con le briglia strette in mano, un vetturino corpulento, avvolto nel tipico e lungo pastrano di velluto sgualcito. Il giovane era giunto con la sua pesante valigia a soffietto davanti alla casa e, dopo una rapida valutazione, si fermò posando a terra per un attimo il fardello. La casa era a un solo piano, posta su un basso basamento che fungeva da pianoterra, le cui finestre era ricoperte da carta trasparente che imitava le vetrate di una cattedrale. La parte superiore dava sulla strada e aveva quattro finestre alte in modo assurdo, terminanti ciascuna con una rosetta gotica, anche se sopra di esse il muro era ricoperto da altrettanti frontoni in stile classico, poggianti ciascuno su due mensole. Il tetto terminava in un ampio cornicione, che aveva come base delle mensole intramezzate da cassettoni, il tutto secondo il più antico degli stili, ma le mensole, i frontoni e i cassettoni erano dipinti con una vernice color caffè. I muri erano crepati e sgretolati in più punti, e dalle crepe tra la facciata della casa e il marciapiede erano cresciute insolenti delle erbacce. Un’inferriata alta e pesante, arrugginita e piegata un po’ all’indietro, lasciava indovinare, a destra, la presenza di un cortile dove nel buio si poteva scorgere una tal quantità di fogliame e di tronchi da non poterne intuire per un attimo l’estensione, e ciò offriva ai passanti l’impressione che si trattasse comunque di un bosco senza fondo. L’inferriata un tempo aveva un grande cancello a due ante, ora chiuso con un lucchetto. Era accessibile solo un cancelletto, che varcò dopo aver raccolto il proprio bagaglio indeciso per un attimo su che fare. Giunto di fronte alla porta d’ingresso, evitò però di salire i due scalini di pietra e s’incamminò verso il fondo del cortile per vedere se riusciva a trovare qualcuno nella stanza di servizio. Lì poté rendersi conto che la parte posteriore della casa aveva un’altezza maggiore rispetto al resto, dato che il pianoterra e il piano superiore formavano due corridoi sovrapposti, provvisti di veranda. C’era un’unica lampada a petrolio che ardeva al piano superiore, mentre il resto era immerso nel buio più fitto. Il giovane ritornò verso l’ingresso principale e cercò una maniera per annunciare la sua presenza. Ma lì accanto non vedeva nessun campanello, e bussare alla porta gli pareva, com’era naturale del resto, un’assurdità. Invero, la porta, che aveva la forma di un’enorme finestra gotica dal legno dilatato e screpolato a causa del calore o della pioggia e coperto da uno strato granuloso di vernice color caffè, si spingeva per la sua convessità dai due logori gradini di pietra fin quasi sotto il cornicione. Non c’erano tende a coprire i vetri, coperti di polvere chissà da quanto tempo, sui quali erano ben visibili gli aloni delle gocce di pioggia e le bave delle limacce. Non avendo altra scelta, il giovane abbassò dolcemente la maniglia e fece per tirare la porta. Ma per suo gran spavento, quella porta enorme si mosse quasi da sola, finendogli addosso e producendo uno spaventoso cigolio. Intimidito, attese che la gente in casa, attirata dal rumore, scendesse di corsa, ma non accadde nulla. Il giovane allora entrò, tentando di chiudere per bene quella porta infernale, e solo quando si trovò dentro, scoprì con meraviglia che in sala penzolava il pomello in osso di un probabile campanello interno. Non si azzardò però a suonarlo subito, poiché fu colpito dall’anticamera, che era di un’altezza considerevole, coprendo lo spazio dei due piani messi insieme. Una scala di legno con due rampe laterali formava una sorta di piramide, che terminava in una statua in gesso, alquanto graziosa, raffigurante Mercurio, riprodotto da un modello classico e dipinto in un detestabile color caffè, che, al posto del caduceo, reggeva una lampada a petrolio coperta, a mo’ di astro, da un globo di vetro. La lampada era spenta, mentre ne era accesa un’altra, tutta a frange di cristallo, appesa all’alto soffitto, che diffondeva una luce soffusa nella stanza. La qual cosa non avrebbe comunque mancato di far attirare l’occhio per via dei materiali così poco acconci. Le pareti, che per armonizzarsi con lo spirito classico della scala di legno – le cui estremità in fondo poggiavano su due putti in legno di quercia, imitazioni donatelliane – avrebbero dovuto essere di marmo o per lo meno di stucco, erano invece intonacati e verniciati grossolanamente con la squadra e a mano, al fine di imitare certe pitture pompeiane e, in special modo, il porfido, riprodotto con goffe pennellate rosse e verdi. […] Il giovane si decise alla fine di suonare il campanello. Fu allora che si sentì risuonare da sopra una sorta di uggiolio metallico come un’eco maligna riverberantesi in ampi spazi vuoti. Trascorse un po’ di tempo che allo sconosciuto che attendeva giù parve interminabile; poi la scala incominciò a scricchiolare come sotto un peso oltre il limite e con una lentezza irritante. Quando il responsabile di tali orrendi crepitii lo raggiunse, il giovane meravigliato si vide davanti un ometto mingherlino e leggermente ingobbito. Aveva il capo completamente calvo e il viso pareva quasi glabro e, per tale motivo, quadrato. Aveva le labbra protruse e ingiallite per il troppo fumare, che lasciavano vedere solo due denti, simili a dei moncherini d’osso. L’uomo, la cui età sicuramente avanzata rimaneva comunque incerta, sorrideva mostrando quei due denti, sbattendo lentamente gli occhi con aria indolente, proprio come fanno le civette infastidite da una luce improvvisa, e guardandolo con un’espressione interrogativa e palesemente seccata.
«Zio Costache?» domandò il giovane osando aprir bocca, poi, intimidito, riformulò la domanda: «È qui che abita il signor Constantin Giurgiuveanu?»
Il vecchio sbatté gli occhi, come se non avesse compreso la domanda, mosse le labbra ma non rispose.
«Io sono Felix» – aggiunse il giovane, costernato da una simile accoglienza – «Suo nipote». 
L’uomo glabro parve seccato nuovamente dalla domanda, strizzò gli occhi, bofonchiò qualcosa, poi con una voce inaspettatamente rauca, quasi sussurrante, che puzzava di fumo, rispose secco:
«Non-non-non so… non-non c’è nessuno qui, non la conosco…»
Stordito, il giovane rimase lì immobile, attendendo che il vecchio ritornasse sulla domanda. Ma questi, dopo averlo guardato sbattendo gli occhi, con quella deferenza inflessibile con la quale si invita qualcuno ad andarsene, disse cavando le parole da in fondo la gola: «Buona sera!» e risalì la scala accompagnato da spaventosi cigolii. Il giovane afferrò in modo automatico il manico della valigia e uscì confuso dalla porta gotica e poi dal cancelletto arrugginito, passò davanti al vetturino che continuava a russare, e si incamminò disorientato.
Lo stupore del liceale parrà quanto mai giustificato se ci sarà dato modo di sapere chi era. Si chiamava Felix Sima ed era giunto un’ora prima a Bucarest proveniente da Iași, dove aveva terminato le scuole medie presso il Liceo Internato. Aveva poi terminato anche il liceo, superando l’esame di maturità, e ora si recava a Bucarest presso il suo tutore, Costache Giurgiuveanu. Tale Giurgiuveanu, che in famiglia era solito chiamare «zio», era il cognato di suo padre, che era morto da un anno. Il dottor Iosif Sima, ex medico militare, poi messo a riposo, da tempo non aveva più parenti stretti. La sua unica sorella, moglie di Giurgiuveanu, era morta anche lei da tempo. Vedovo egli stesso da una decina di anni, il dottore aveva tenuto il figlio più in convitti o internati che con sé. Dopo una lunga e penosa malattia, si spense pure lui, contento che il figlio fosse ormai grande e con un futuro in qualche modo assicurato. All’infuori di una certa cifra depositata in banca, il dottore lasciò a Felix una casa piuttosto vecchia, ma solida e redditizia in via Lăpușneanu. Per amministrare questi beni era stato incaricato come tutore «lo zio Costache», cioè suo cognato. Da un anno a quella parte, Giurgiuveanu seguiva Felix nei rapporti con la scuola, versava le rette, firmava in qualità di affidatario, mentre Felix, a sua volta, lo teneva informato su quel che faceva. D’altro canto, questi legami non erano sorti unicamente per il tramite accidentale della tutela: «lo zio Costache» e «la cugina Otilia», che passava in genere per essere la figlia di Costache, erano sempre stati i nomi che più ritornavano in casa del dottor Sima e ritenuti emblema di un’intima parentela. Felix aveva incontrato Costache Giurgiuveanu solo negli ultimi anni, da bambino, e sempre allora aveva conosciuto anche Otilia, che era una semplice ragazzina. Ma ogni anno, in occasione delle feste consacrate e di qualche altro avvenimento, scriveva allo «zio Costache» domandando come stesse «la cugina Otilia», e Otilia scriveva allo «zio Costache», domandando come stesse «il cugino Felix». Il giovane figlio del dottore e Otilia erano così, in modo ufficiale, legati da un intimo rapporto epistolare e senza dubbio, se si fossero incontrati, non avrebbero potuto far altro che continuare anche oralmente il tono familiare delle loro missive. Lo smarrimento di Felix era perciò comprensibile. Conosceva perfettamente il numero di casa, e in quella casa dovevano abitare «lo zio Costache» e «la cugina Otilia». Era stato deciso, in un precedente scambio di lettere intrattenuto con Otilia, che non appena avesse terminato il liceo, sarebbe giunto a Bucarest, allo scopo di continuare gli studi, andando ad abitare a casa dello zio-tutore in via Antim. Gliene aveva quindi dato notizia per tempo, e ora si vedeva recapitare questa strana risposta. Felix rovistò per bene nella sua memoria per vedere se caso mai ci fosse qualche lacuna, anche se ciò era impossibile. Era quello il numero. Cercò più avanti se ci fosse un bis e per un attimo pensò che fosse possibile che nel cortile dello zio abitassero altri inquilini. Ma sapeva bene che Giurgiuveanu era il proprietario e non affittava, e un affittuario, d’altronde, avrebbe saputo dire presso chi stava in affitto. Molto più assillato dalla stranezza di quell’accadimento che dal problema di dove avrebbe potuto trascorrere le notti in un luogo sconosciuto, Felix vagava alla cieca verso via Arionoaiei, quando, di botto, un’immagine gli si fissò in mente. Su un cartoncino, una fotografia formato tessera di un color caffè sbiadito riproduceva un uomo dal capo rasato quasi del tutto, con gli occhi molto sporgenti e le labbra carnose, e alcuni radi peli neri al posto dei baffi. Questa fotografia, che si trovava sulla scrivania di suo padre, gli suscitava nella mente, chissà mai perché, l’idea che si trattasse di un ladro di bambini. Tuttavia era certo che in essa era raffigurato lo zio Costache. L’ometto sulla scala scricchiolante, molto più anziano, era moralmente identico allo zio della fotografia. Un brivido ignoto di cattivo presentimento trapassò l’animo candido di Felix: forse «lo zio» non voleva riceverlo? Ma perché? Di sicuro non aveva capito bene. Forse la lettera non era stata recapitata e non si aspettavano che giungesse a notte così fonda. Ciononostante, disse fra sé e sé chiaro e forte: «Io sono Felix!» Con l’animo attanagliato dal dubbio, ma ben deciso, il giovane tornò sui suoi passi e, dopo aver esitato un po’, entrò di nuovo nel cortile e nell’anticamera e tirò quel maledetto campanello, che risuonò al piano di sopra come un vaso di cristallo scagliato sull’assito e finendo in frantumi. Dopo un’angosciosa attesa, la scala incominciò a scricchiolare pesantemente, e il vecchio glabro apparve di nuovo con lo sguardo attonito.
«Che c’è?» domandò sottovoce, come se non avesse visto il ragazzo, la voce del quale si strozzò in gola per l’emozione, mentre il cuore gli batteva forte in petto. Tentò di raccogliere le forze, quando si udì giù una voce cristallina:
«Ma papà, è Felix!»
Felix guardò verso l’estremità della scala come se si fosse aperto il cielo e vide accanto alla statua personificante il Mercurio dipinto di color caffè il capo allungato e giovane di una ragazza, i cui folti boccoli le ricadevano fin sulle spalle. Allora l’anziano, come se tutto si fosse svolto nella maniera più naturale possibile, senza alcun accenno al suo comportamento di poco prima, sbattendo gli occhi mollemente, avvolto nel tanfo di tabacco e con lo stesso fil di voce, disse a Felix Sima:
«Raccogli la valigia e vieni su!»
Salirono entrambi la scala cigolante e giunsero in una sorta di vestibolo che il giovane non ebbe tempo sufficiente di esaminare, rimanendogli comunque la sensazione che i mobili erano tutti coperti da fodere di un tessuto color fumo. La ragazza, minuta, che indossava un vestito dalle falde molto ampie, ma ben stretto in vita e con un ampio collaretto di pizzo sulle spalle, gli porse spontanea un braccio scoperto e delicato. Felix le strinse la mano e per un attimo ebbe l’impulso di baciargliela, ma la ragazza la ritrasse molto prima che lui si decidesse a farlo e la infilò sotto il suo braccio sinistro.
«Come sono contenta, come sono contenta che tu sia arrivato!» disse lei volubile. «Io sono Otilia».
Poi, dato che le sembrava che il giovane non reagisse con lo stesso entusiasmo, gli domandò girandosi verso di lui:
«Tu non ne sei forse contento?»
«Ma certo!» rispose timidamente Felix, contrariato dal fatto che nessuno venisse a togliergli la valigia di mano.
Accompagnato da Otilia e seguito dal vecchio, Felix entrò in una stanza molto alta, immersa in un fumo denso e pungente di tabacco simile a una cappa di nebbia sul Mar del Nord. Al centro, attorno a un tavolo rotondo con sopra una grande lampada a petrolio con un globo di vetro smerigliato, sedevano, intente a giocare a tric trac, tre persone che all’apertura della porta alzarono lo sguardo assumendo varie gradazioni di curiosità. Erano due donne e un uomo. L’anziano andò a occupare la sedia rimasta vuota accanto agli altri, mentre Otilia accompagnò Felix fin davanti al tavolo per presentarlo.
«È Felix», disse fermandosi davanti all’uomo che aveva appena gettato i dadi.
Questi alzò subito lo sguardo e gli porse la mano con un gesto rapido. Era un signore di circa cinquant’anni, corpulento in qualche modo, anche se non dava l’impressione di esserlo in modo eccessivo, il viso carnoso e rubizzo come quello di un bottegaio, ma elegante per via della pelle levigata e del taglio all’inglese dei suoi baffi grigi. I capelli radi ma ben pettinati con la riga che partiva da in mezzo la fronte e che terminava fin quasi sulla nuca, una massiccia catena d’oro con ciondolo appesa al gilet, vestiti di stoffa finissima, profumo discreto in cui si indovinava una sfumatura di tabacco: il tutto mitigava egregiamente, da vicino, le imperfezioni dovute all’età e alla corpulenza.
«Pascalopol», disse presentandosi con fare cerimonioso svelando la sua elevata estrazione e trattenendo un poco più del dovuto la mano del giovane per poter meglio osservarlo. Lo guardò senza eccessiva cordialità, addirittura con una certa ombra di malcelata ironia, con un garbo sbrigativo e rispettoso:
«Ossia, lei è il Felix di cui tanto ci ha parlato la signorina Otilia!»
«È il figlio del dottor Sima di Iași», chiosò sottovoce il vecchio, sfregandosi le mani con un sorriso ebete.
«Già, già!», aggiunse Pascalopol, come se stesse setacciando nella propria memoria e, con un sorriso garbato, che mise in mostra la dentatura ben curata, rilasciò lentamente la mano del giovane.           
Otilia fermò Felix di fronte alla donna più anziana. Era una donna suppergiù della stessa età di Pascalopol, con i capelli neri pettinati in una bella acconciatura alla giapponese. Aveva il viso cereo, le labbra sottili, arcigne, il naso curvo e puntuto, le guance solcate da alcune estese rughe che tradivano un repentino dimagrimento. Aveva gli occhi in fuori come quelli del vecchio, al quale somigliava un poco, non a caso muoveva mollemente le palpebre come lui. Indossava una blusa di seta nera a pallini, chiusa stretta al collo con una spilla in osso e attillata ai fianchi con un cordone di pelle, al quale era agganciato con una catenina un orologino d’oro. La signora che giocava a tric trac con Pascalopol, mentre gli altri guardavano, alzò uno sguardo indagatore ed esaminò Felix da capo a piedi, sollevando allo stesso tempo con molta dignità la mano perché gliela baciasse.    
«Ah!» disse lei in tono acceso e con voce roca, ma distinta. «È già un bel pezzo di giovanotto!»
«Comincia adesso l’Università, Aglae», spiegò il vecchio con lo stesso sgradevole tono di voce spento, seguito da una risatina immotivata.
«Ah sì?!» esclamò sorpresa e severa la signora che continuò a giocare con Pascalopol.
«È zia Aglae, la sorella di papà» spiegò Otilia a Felix, vedendo il suo volto smarrito.
«Come potrebbe conoscermi?» domandò Aglae. «Quando è morta la mamma sua, era alto così. Da allora non l’ho più rivisto. Tu te lo ricordi, Aurica?»
Intimorito dalla durezza dell’espressione «la mamma sua» e dalla familiarità con cui delle persone quasi estranee parlavano della sua famiglia, Felix guardò impacciato colei che chiamavano Aurica. Era una donna di circa trent’anni, dagli occhi bovini come quelli di Aglae, con il viso allungato, che terminava in un mento a punta, e ampie tempie circondate da due volute di capelli intrecciati. Sedeva con i gomiti appoggiati sul tavolo e con il viso tenuto fra i palmi delle mani, intenta a guardare i due che giocavano. Quando Felix le si avvicinò, alzò gli occhi fissando il giovane con avida curiosità e accostandogli alle labbra il dorso della mano.
«È la cugina Aurelia», commentò Otilia.
[…]
Rimasto da solo, Felix cercò di sottrarsi a questa strana situazione e si spostò verso il fondo della stanza, dove, nella semioscurità, si scorgeva un sofà di felpa rossa. Dato che nessuno gli prestava più attenzione, poggiò alla fine la valigia per terra e si sedette. Un colpo di tosse lì vicino lo fece trasalire per lo spavento. Solo allora notò che lì vicino, seduto a un tavolino, si trovava qualcun altro. Era un uomo anziano, con delle babbucce verdi ai piedi e uno scialletto di lana sulle spalle che seguiva con attenzione il gioco agitando continuamente le mani sopra tavolino. Aveva i baffi cascanti e un ciuffetto di barba. Questi alzò verso Felix certi occhi spaventosamente slavati, che posò poi di nuovo sul tavolino, senza profferire parola. Solo dopo essersi abituato all’oscurità, Felix osservò con stupore che il signore con lo scialletto stava ricamando con fili di lana di vari colori uno scampolo di stamigna fissato su un telaietto.
«Pessimi dadi!» borbottò Aglae. Poi, dopo una pausa:
«Senti, Costache, presso chi starà “il ragazzo”?»
«Ma da noi!» spiegò Otilia.
Ora era seduta con una gamba appoggiata sul bordo della poltrona del vecchio, facendo ciondolare allegra il piede, mentre teneva il braccio sinistro sulle spalle di questi che aveva un’espressione palesemente soddisfatta.        
«Ah sì?!» esclamò stupita Aglae. «Non ne sapevo nulla: offri ricovero agli orfani».
«Felix dispone di un suo reddito» – protestò Otilia – «Non è vero, papà?»
«S-s-ìì!» bofonchiò il signor Costache, guardando remissivo negli occhi di Otilia, che gli stava togliendo un pilucco dalla giacca.
«Allora mettete su una pensione», continuò implacabile Aglae. «Otilia avrà con chi svagarsi, che ne dici, Pascalopol?»
Pascalopol si mordicchiò il labbro superiore, corrucciato alquanto in viso, ma, gettando i dadi, rispose conciliante:
«Sei sempre così tu, cara Aglae: maliziosa».
[…]
Trascurato da tutti, e stanco, Felix studiò attentamente l’ambiente in cui era capitato. Otilia lo aveva sorpreso fin dall’inizio e non sarebbe stato in grado di dire quali sentimenti nutrisse nei suoi confronti, sentiva solo che poteva avere fiducia in lei. La ragazza pareva avere un’età fra i diciotto e i diciannove anni. Con il viso dall’incarnato olivastro, dal naso piccolo e gli occhi di un celeste intenso, sembrava molto più bambina per via della montagna di boccoli e del colletto di pizzo. Tuttavia, il suo corpo sottile, dall’ossatura delicata come quello di un levriere, di uno stile impeccabile, privo di quella magrezza emaciata e compromessa di Aurelia, denotava un’ampia agilità nei movimenti e un’assoluta padronanza femminile. Il vecchio Costache soggiogato la divorava con gli occhi e rideva raggiante con quel suo viso glabro quando lei lo stringeva fra le sue lunghe braccia. Era chiaro che la ragazza si prendeva ogni iniziativa, e Costache era un semplice satellite della sua volontà. Otilia non faceva un gesto che paresse azzardato, né pronunciava una parola che fosse avventata. Ciononostante, a Felix dispiacque quella sua confidenza, per innocente che fosse, nei confronti di Pascalopol. A Felix la comparsa di Otilia instillò un sentimento inedito, ma da tempo presagito. Finora non aveva avuto alcun momento d’intimità con una donna. Sua madre era morta già da parecchio, quando frequentava ancora le scuole elementari, e all’epoca non aveva sufficiente complicità di spirito per conoscerla più da vicino. Era una persona malaticcia e irritabile e se ne stava sdraiata tutto il tempo su un sofà, leggendo qualche libro, chiamando e dando ordini alla servitù attraverso la porta socchiusa. Parecchie settimane prima della sua morte, era sparita di casa, e ora Felix intuiva che il dottor Sima, suo padre, l’aveva fatta ricoverare in qualche sanatorio. Il dottore pranzava insieme al figlio, serio, senza dire una parola, e ne accarezzava i capelli quando se ne andava, domandandogli se stesse bene e se avesse bisogno di qualcosa. Una sera, il dottor Sima, dopo essere stato assente per un giorno intero, durante il quale la servitù trattò Felix con uno strano riguardo compassionevole, rincasò pallido e prostrato, vestito di nero. Chiamò Felix con tono grave, strinse le sue mani nelle sue e gli disse:
«Felix, sei già abbastanza grande e giudizioso per la notizia immensamente triste che ti devo dare: la tua mamma non tornerà più a casa, la tua mamma è spirata».
Il dottore impallidì ancor di più per la solennità delle proprie parole e strinse energicamente le mani del bambino per sorreggerlo nel suo scoppio di dolore. Ma la notizia era troppo forte per l’esperienza spirituale di Felix. Lui aveva compreso solo questo, che qualcosa del tutto eccezionale era accaduta in casa, e piegò il capo. Il dottore proseguì:
«Domani, quando andrai a scuola, di’ al signor istitutore che non potrai più andarci. Andrai a vivere in un convitto».          
[…]



A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 10, ottobre 2014, anno IV)