Inedito. Andrei Ruse e il suo «Spacciatore per un giorno»

Andrei Ruse (1985) è stato promotore di vari progetti on line in abito culturale, fra cui vanno ricordate le comunity Sketche (2006), Rocultura.ro (2008) e le riviste Boomlit.com (2010) e Hyperliteratura.ro (2011). Ha dato impulso a campagne per la promozione della lettura in seguito alle quali è stato invitato a tenere conferenze sulla divulgazione dei libri (Congresso nazionale degli studenti di Comunicazione, Webstock, Webevent ecc.). Ha organizzato a Bucarest una serie di eventi culturali; tra questi si segnalano: Ringul de vorbe («Il ring delle parole», 2010), Clubul de Lectură («Il Club della Lettura», 2010, 2011) – un incontro a cadenza bimensile che propone letture pubbliche e dibattiti incentrati sulle uscite editoriali più recenti o in preparazione sul mercato romeno e sui loro autori – e Tirul de cărţi – Street Delivery (2011).
Ha debuttato nel 2007 con il volume di poesia Black Job (Ed. Vinea), mentre nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo, Soni (Ed. Tritonic, 2009 [II ed.], riedito da Polirom nel 2012 [III ed.).
È anche realizzatore di video-poesie, video-interviste, trailer e vari clip sperimentali, come pure di documentari. Il più noto di questi è Poezie. Puterea («Poesia. Il potere», 2009), nel quale ha collaborato con Răzvan Ţupa, e che è stato proiettato in varie città romene e all’estero – nella Repubblica di Moldova (Chișinău), in Germania (Berlino) e nella Repubblica Ceca (Praga). Ha partecipato a letture pubbliche a Berlino (2009, 2011) e a Stoccarda (2012), mentre nel 2012 gli è stata assegnata la borsa Jean Jacques Rousseau offerta dalla Akademie Schloss Solitude. 

Trama e intreccio del romanzo

Perché Radu Călin, quarantenne, un agente della Squadra antinarcotici della Polizia di Bucarest, decide di infiltrarsi nel mondo dello spaccio della droga, assumendo un rischio per sé e per la sua famiglia dalle ripercussioni imprevedibili? L’idea sembra anche a lui una follia, ma il desiderio di essere promosso e di ricavarne un beneficio economico che gli permetterebbe di estinguere alcuni debiti e di offrire a sua moglie Ana e alla figlia Corina un livello di vita più sostenuto, sottraendole a un monotono e mediocre limbo esistenziale, lo spingono a tentare questa carta azzardatissima. Dopo aver messo a punto la strategia e trovato i giusti agganci, s’imbarca in questa avventura che lo porterà a contatto con un mondo assolutamente imprevedibile e sorprendente per le persone e la realtà da cui è composto e che, soprattutto, cambierà il suo modo di pensare. Fingendosi un cliente, fissa quindi un appuntamento con uno degli spacciatori più noti e temuti di Bucarest, il Matto, e da qui ha inizio un vorticoso giro nell’universo sotterraneo dello spaccio e del consumo di stupefacenti nel quale Radu, coadiuvato dal suo «dealer», ha modo di scoprire un mondo che metterà a dura prova la sua integrità di «uomo della legge» e di padre di famiglia; un viaggio mozzafiato che si consuma in meno di una ventina di ore, dalle prime ore della sera all’alba, nel quale non esita – la posta in gioco lo obbliga a farlo – a provare di persona le sostanze più disparate – dalla marijuana alle droghe sintetiche – un’esperienza che qua e là lo porterà anche a riflettere sulle politiche proibizionistiche sulle droghe. Ma con il Matto Radu instaura anche un fitto dialogo, svelandoci, in modo imprevedibile, in un tizio spietato e con pochi scrupoli, come presumibilmente immaginiamo che sia uno spacciatore, una personalità complessa, dalla filosofia di vita e da una visione della realtà globale in cui viviamo che potremmo definire come anarchica o alternativa. In realtà, dietro la maschera da spacciatore, scopriremo che il Matto di professione era psicologo che a un certo punto ha deciso di dare una svolta alla propria vita.
Il giovane scrittore Andrei Ruse eccelle magistralmente nel delineare i caratteri dei vari personaggi che s’intersecano nel romanzo, dosando con perizia nell’intreccio narrativo generale la descrizione degli effetti deliranti delle droghe, l’ambiente del mondo degli stupefacenti, popolato da ogni tipo di persone – da insospettabili persone «per bene» a giovani sbandati – con i retroscena sul vissuto di Radu e sul suo quotidiano ménage familiare. È una scrittura sempre tenuta sul filo del rasoio, accattivante e incisiva, dal linguaggio crudo e diretto, che cattura il lettore fin dall’esordio conducendolo a un finale a sorpresa, drammatico e concitato. Un libro coraggioso e insolito che, per il tema trattato e per la particolare angolazione da cui Andrei Ruse lo affronta, non mancherà certo anche di far discutere e riflettere – si veda il tema, che non è tuttavia quello centrale, che affiora nel romanzo relativo alle droghe leggere e alle politiche contrapposte fra «legalizzazione sì/legalizzazione no»: tutta una serie di questioni che trovano nel gioco narrativo e nella cifra argomentativa di Andrei Ruse un approccio intelligente, aperto e libero da pregiudizi.      


Frammento da «Dilăr pentru o zi» («Spacciatore per un giorno»)

#01. Lo chiamavano il Matto

Si erano fatte le sette. Era una sera di mercoledì, perfetta e calda. Ero un po’ sudato.
Questo perché avevo fatto a piedi la strada dall’ufficio per calmarmi un po’. Non hai idea del nervosismo che avevo addosso… Entrare per poco tempo e per contro proprio sotto copertura non è come andare a un colloquio di lavoro. E in effetti non credo che ci possa essere qualcosa di paragonabile allo stato in cui mi trovavo. Mi vengono in mente solo alcuni titoli di film, che non sarebbero d’aiuto per nessuno.
Il mio stato d’animo oscillava tra l’immagine di James Bond e un minuscolo scarafaggio che evitava in tutti i modi di venire schiacciato. C’era folla in centro, ma le persone non erano altro che dei punti neri e la città un enorme foglio di carta stropicciato. Nella mia mente accadeva di tutto, ma in realtà era concentrata su una sola parola: il Matto.
In viale Victoriei, sebbene sia a senso unico, c’era un imbottigliamento epocale. E un casino che ti faceva vorticare il sangue per quanto uno fosse tranquillo. Come musica di quella giusta che ti pompa dei bassi potenti in pieno stomaco facendoti vibrare tutti gli organi interni.
Cristo, questa è la cosa più demente in cui mi sia mai infilato in vita mia! E mi fermo. Anche la gente si ferma. Giro a destra verso l’Università e passo accanto al tanfo infernale del Pizza Hut. Ho una fame da schiattare, ma non riuscirei a mandar giù niente. Finché non sono arrivato a Piazza Romana, non riesco a far niente.
Sfilo in mezzo alle persone scansandole come se fossero dei paletti. I mendicanti mi dicono Dio ti assista, e anche se vado di fretta, non dimentico di lanciare a ognuno un biglietto da un leu: nella tasca posteriore ne ho un fascio già preparato appositamente per questo. Ho bisogno di preghiere e di qualche parola a buon mercato, la loro energia mi fa tener dritta la schiena. Oggi credo nelle superstizioni e sto attento ai gatti neri, alle scale, mi rimetto in cammino dopo ogni stop agli incroci con diritto di precedenza e così via.
Attraverso il sottopassaggio sbucando davanti al Teatro Nazionale. E lì c’è un gruppetto di ragazzini tutti colorati. E voi perché non mi chiedete soldi per pregare per me, eh, minchioni?
Non passava secondo in cui non mi dicevo di girare i tacchi, di farmi i cazzi miei, di pensare alla mia vita di merda così come lo era stata fino a quel momento. Volevo mandare affanculo tutto il mio piano che finora era filato liscio come l’olio e che non c’era motivo che andasse a monte. È solo il nervosismo oppure ho un cattivo presentimento?
Sono ritornato in terra appena passato l’Intercontinental, mentre cercavo una definizione di raziocinio e anima, mentre cercavo di proseguire afferrato alla mano di uno o dell’altra, senza trovare un equilibrio. Stavo andando ancor di più nel pallone.
Mi fermavo di tanto in tanto in mezzo alla gente che andava di fretta, come lo ero io, e mi segnavo in un blocnotes immaginario tutti i motivi per i quali dovevo proseguire: Corina… Ana… E riprendevo un po’ di coraggio. Oggi ci sarà l’incontro, domani il rapporto, la preparazione del fascicolo e tutto il resto, e la settimana prossima, in un modo o nell’altro, la cattura in flagrante. E in meno di un mese a partire da oggi me ne starò su una spiaggia in Grecia, con mia moglie e mia figlia. E che caspita, cosa può essere di così difficile? Su, Radu, torna in te…
Poi però mi ricordavo dei debiti, avevo ancora circa tre, quattromila euro da restituire, circa mille a Ștefan e duemila e qualcosa a Puiu, il vicino al primo piano. Li ho presi, più quelli che avevo da parte, per finire di ristrutturare la casa. E, in effetti, il nostro appartamento in viale Ștefan cel Mare ora aveva un aspetto splendido, con tutte le stanze ritinteggiate, gli infissi e le mattonelle nuovi, il parquet e i mobili italiani, un divano in pelle, color beige, molto più grande di quello che avevamo in salotto allora (non mi devo scordare della storia del divano, ci ritornerò sopra più avanti), il bagno rifatto completamente, verde. Che dire ancora… Sembrava quasi un’altra casa e i lavori non erano durati a lungo, avevamo già finito a metà marzo suppergiù.
Quattromila euro non erano chissà che, li avrei restituiti prima della fine dell’estate, come mi ero ripromesso d’altronde, ma costituivano uno stress, per quanto piccolo esso fosse. E mi trovavo in un punto in cui avevo bisogno di stress. Niente era al suo posto, ogni situazione di disagio mi rilassava. Un altro problema risolto, questo mi dicevo.
Poi mi mettevo paura da solo pensando che Ana un giorno si sarebbe potuta stancare di me. Dei miei continui fallimenti, della vita monotona e idiota a cui ci siamo ridotti a vivere. Perché le persone non sono sempre in un determinato modo, non si fissano su una cosa, evolvono. Proprio quando meno te lo aspetti. O soprattutto in quel momento. Non c’è nessuno che sia disposto a sopportare tutte le tue stronzate all’infinito, devi capire che, per quanto tu non possa penetrare nella loro materia grigia, hanno i tuoi stessi diritti,  sogni e progetti. Una volta che avrai afferrato questa cosa, ma solo se ti sarà entrata per bene nella zucca, allora comincerai a capire un po’ come gira questo nostro mondo. Non puoi tener ferme le persone solo perché gli vuoi bene. Perché qua ognuno ha una opportunità, una sola, che non puoi permettere che ti sfugga per amore o per pietà di qualcuno o per chissà quali altri sentimenti dovuti a un insano senso di colpa.
Il senso di frustrazione mi spingeva lungo viale Magheru. Solo Dio sa dove cavolo mi sto infilando, ma devo farlo, ci devo provare almeno… e magari così ci sbarazziamo di quel catorcio della Renault del 2002, che ha già sette anni. Mi compro la mia bella Peugeot 407 da 136 cavalli, verde metallizzato che sogno da sempre… con cui sfrecciare lungo la Strada Nazionale n. 1 verso una villetta in montagna o da parcheggiare davanti a una bella casetta nel quartiere Floreasca o chissà dove. A Corina compro un nuovo laptop di quelli fichi, così non mi parlerà più di tutti quei figli di papà di merda della sua comitiva con i loro super-mega gadget o come cavolo li chiamano… Che fottio di faccende sistemerei se beccassi il biglietto vincente! Ti lasceresti sfuggire questa opportunità se ce l’avessi?
Ovviamente a Piazza Romana sono arrivato in anticipo. Sono entrato nel KFC che si trova lì per comprarmi qualcosa da mandar giù; facendo la coda avevo i nervi a fior di pelle, poi con il mio vassoio di alette di pollo mi sono seduto a uno dei tavoli all’aperto.
Il Matto sarebbe venuto a prendermi attorno alle nove, come gli avevo detto, per andare da qualche parte perché mi facesse vedere la roba. O, meglio, una parte di essa, non mi aspettavo certo che tutto filasse liscio al primo colpo. Tanto più che prima dovevamo conoscerci, provarla… Mi ero preparato leggendo un sacco di materiale sull’erba che mi ero stampato. Ma ero comunque nervoso.
La gente che passava fissava la mia porzione che mi ero appena preso. Usciva il vapore dalle alette di pollo. Ho lasciato che si raffreddassero e nel frattempo contemplavo il panorama. Faceva così bello fuori… E pensavo alla vita che avrei cominciato a partire dal mese dopo, diciamo. Questo era il termine-limite. Che colpo, no? Mi sentivo al di sopra di tutti, come un fiocco di neve. Ero di un altro mondo, non facevo parte di quell’universo agitato e rumoroso.
Il mio cellulare si mette a vibrare. Infilo tranquillo la mano in tasca e vedo che è la «sim-spacciatore». Merda… Tutto va in malora, è troppo presto! Lo lascio squillare un po’. Prendo un sorso di Pepsi, così fredda da farmi contrarre le mascelle. Ne avevo proprio bisogno. Ritorno in me. E premo il pulsante magico. Per alcuni millesimi di secondo, che avverto in pieno, perdo il controllo. Mi sento le gambe molli. Perché sto facendo questo? Che cazzo sto cercando qui?...
In strada, tanta gente che va di fretta, che si agita. Gente banale, di cui non so niente. Sono tutti degli idioti, eccoli, basta solo guardarli. Probabilmente anch’io sono uguale a loro, ma per uscire da questa cloaca uniforme come una fotocopia, devo rispondere. Devo…
Avvicino il cellulare all’orecchio, tutto tace. Tutto riprende da capo.
«Sì?»
E tento di percepire se la voce mi trema anche solo impercettibilmente per rimediarvi.       
«Che vento tira?» ho sentito la sua voce possente.
Stava dentro un’automobile o da qualche parte in mezzo al traffico. Molto rumore, sullo sfondo il brusio della strada e della musica.
«Niente, sono in centro, stavo buttando giù un boccone».
«Ah, mi hai fatto ricordare che c’ho ‘na faaame… Senti, amico. Ce la sbrighiamo in fretta. Io tra un quarto d’ora smammo da qui, ho finito certe faccende, cazzo, e sono incappellato come una iena perché non tutto mi è riuscito come doveva andare, tu mi capisci… Ma tu sei la mia botta di culo, lo sento! Dimmi dove sei che ti vengo a prendere».
«A prendermi? Be’…»
«Sì, amico, andiamo a spasso per la città che c’ho la macchina. Alle otto e qualcosa ho ancora comunque qualche… giro da fare, bah. Ti prendo su con me, sono da solo. Ci conosciamo un po’, due chiacchiere. O… hai da fare forse?»
«No, niente…»
Ma il piano veniva un po’ sconvolto. Non volevo stare con lui più di un quindici, trenta minuti. Se fosse arrivato subito, per le otto e qualcosa sarebbe passata già un’ora e Dio sa quanto avremmo chiacchierato. Perché cazzo non gli ho detto che avevo da fare? Fuck, mi sta sfuggendo di mano la situazione. Non va bene. E se sospetta qualcosa? Se mi mette alla prova? Se…
«Allora, di’, vecchio, dove ci vediamo?»
«Sono a Piazza Romana. Sicché rimane come abbiamo stabilito», gli ho buttato là in fretta.
«Perfetto. Prendi anche per me da KFC un menù di alette fritte, ok?»
«Mmm… Ok».
«Ti saluto. Tra mezz’ora ti prendo su vicino alle colonne, va bene? Ho un’Opel nera. Quanto al resto… Penso che mi riconoscerai, ho una stazza da duecento chili e passa. Sarà una seratina fica, vedrai» e riattaccò. 
Ero stordito.
Presto, la storia! Il suo nome mi è stato passato da un amico, per caso, a una festa, dopo una mostra. Florin, il poliziotto corrotto… Gli dico anche che al principio mi ero insospettito per via della sua professione. Ma faceva parte di un giro di cui mi fidavo: un po’ di slalom, insceno il finto tonto quanto basta… Ah, e di che mi occupo? Pittore. Così mi tolgo d’impiccio, no? Florin mi diceva che un artista è sempre il benvenuto nel regno del Matto.
«Be’, gli dici che ti mando io e lui capirà tutto. Come ci siamo conosciuti? Inventati qualcosa tu con quel party, io gli ho detto solo che era una festa chill, così… Che ci siamo fatti un paio di canne, che sembri un tipo in gamba. Che dipingi, e basta, è sufficiente che sappia questo. Non gli importa più di tanto, siamo come fratelli, che Dio mi perdoni, se non ha fiducia nemmeno in me… Ma non dire o accennargli per nessuna ragione al mondo che sei uno sbirro, è paranoico di brutto al riguardo. Gli ho già mandato qualche altro collega dei nostri, sempre così, con professioni inventate. Ed è andata bene».
Minchia, il KFC! Mi sono sbarazzato della mia porzione perché non mi andava più di ingurgitare niente. Non potevo neppure conservarla per lui perché prima del suo arrivo si sarebbe raffreddata. Sono rientrato nel fast-food.
Suona di nuovo il cellulare. Divento di gesso.
«Sì?»
«Tra venti minuti alle colonne. Un’Opel nera, un grassone da centoventi chili. Hai memorizzato?»
«Aha».
«Bene, finita questa chiamata, butti la sim, così come ti ha detto di fare Florin. Se tra due minuti richiamo, devo sentire il nastro con la storiella dell’abbonato e non so che, intesi?»
«Ok».
«Come sei vestito?»
«Maglietta nera, jeans, scarpe da ginnastica…»
«E un sacchetto del KFC; a posto, ti riconoscerò. Ciao!»
Mi sono avvicinato a uno di quei cassonetti enormi, dove si buttano i rifiuti di cibo. Ho aperto il cellulare, ho tolto la sim e l’ho buttata dentro insieme al cibo.
Sono poi andato di corsa passando in mezzo ai tavoli verso le casse per ordinare per il Matto le sue alette di pollo. Mi sentivo molto a disagio, ma la velocità con cui dovevo mettere tutto a punto e l’adrenalina mi facevano tenere a galla.
(…)
Come esco dal fast-food, mi fiondo verso le colonne. A meno di dieci metri mi sbuca davanti una zingara.
«Dài che ti leggo la mano, bel signorino mio».
Mi mancava anche questa… L’ho superata in fretta, proseguendo dritto per la mia strada. Poi di colpo mi sono fermato. E se mi lancia una maledizione? Oh, Cristo, ma come faccio a pensare a questo proprio adesso? Mi veniva da spaccarmi la testa. Ma in quel momento, se mi avesse detto che qualcosa mi sarebbe andata storto o che chissà a quale altra sfiga avrei dovuto soccombere, mi avrebbe steso.
Torno indietro e guardo in alto, sospirando. All’ultimo piano, la sede della OTV. Per fortuna che nelle vene mi scorre un po’ di senso dell’umorismo. Ancora poco e anch’io ci arriverò, al picco dell’audience… Cristo, mica possono capitare tutte a me proprio adesso… Estraggo dal portafogli dieci lei, li do alla zingara e me la svigno. Ma la vecchia mi prende per la mano, tirandomi.
«Fermo che ti leggo la mano, signorino, non fare così…»
Cristo, dimmi qualcosa di buono e lasciami andare, cazzo! Pensavo. Poi mi calmo: in realtà, pur con tutte le panzane che mi spiattellerà, mi farà comunque un buon effetto. Ci rifletterò sopra come fanno tutti, anche se nessuno crede a queste baggianate. Dài, che andrà bene.
«Vado di fretta…», l’ho avvertita.
«Stai fermo, bello mio, fermo» e mi studia con attenzione il palmo della mano destra.
Il Matto probabilmente era già arrivato se non aveva perso troppo tempo nel traffico. Due, tre minuti che cosa sono?
La vecchia, che non aveva proprio una faccia delle più leggiadre, ha sollevato subito lo sguardo e mi ha guardato fisso negli occhi, spaventata. Con una mano continuava a tenermi il palmo destro, che stringeva sempre più forte, mentre sollevando l’altra stava per sfiorarmi la guancia destra, quasi a voler accarezzarmela. Mi sono ritratto subito, per quanto il suo gesto volesse essere commiserevole.
«Che c’è, vecchia?»
«Ragazzo mio… Non ho buone notizie…»
Mi guardava in modo strano. Era l’ultima cosa che avrei voluto sentire.
«Oggi è il giorno della tua morte, sei segnato».
«Che?!»
«Sarà molto ma molto doloroso, ragazzo mio, o Gesùùù…»
E si è scostata come se avesse toccato chissà quale spettro.
«Va’ in chiesa, signorino mio. È scritto che vedrai il Demonio, è scritto che ti metterai su una strada da dove non puoi più uscire!»
Stava quasi urlando, aveva alzato il tono della voce e la gente intorno ci guardava attonita.
«C’hai qualche rotella fuori posto, vecchia!»
E me ne sono andato via subito diretto verso le colonne.
«Così è scritto, signorino mio!...» la sentivo gridare alle spalle.
Io non credo nel destino, io non credo nel destino, non ci ho mai creduto, continuavo a ripetermi nel pensiero. Stramaledetta megera, mi hai messo addosso uno spavento proprio quando meno ne avrei avuto bisogno! Aaah! Che vada a farsi fottere!!!
(…)

A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 2, febbraio 2013, anno III)