Violenza sulle donne: «Vacanza angelica» dai sapori di un amore demoniaco

Un argomento molto importante affrontato nell’antologia Io scelgo, a cura di Irina Turcanu (Rediviva Edizioni, Milano 2014), voci italiane e romene in tandem, donne, scrittrici, unite contro la violenza subita dal cosiddetto sesso debole. Detto en passant, ogni due minuti, mentre il mondo fa un passo in avanti, una madre, una sorella, una donna subiscono una violenza. Qui pubblichiamo il racconto di Luiza Diculescu, Vacanza angelica, dai sapori di un amore demoniaco, nonostante le sembianze umane. Accade quando si attende troppo e la vita si sente costretta a spingerti verso il precipizio della scelta.

Vacanza angelica

Torino. Agosto. Deserto. Guardo disgustata attraverso la finestra sporca della terrazza improvvisata sul marciapiedi e sorseggio il caffè freddo. Nella mia via ci siamo ancora io, il pizzaiolo più maldestro del quartiere e la romena del bar.
Le uniche creature ad animare le strade deserte. Un deserto, colpa imperdonabile degli autoctoni, che se ne sono andati lasciando un intero quartiere nelle mani di tre anime prive di ogni barlume di speranza! Accade puntualmente ogni anno, ad agosto, quando s’avvicina il quindici.
Ah, c’è anche Ştefan, la quarta anima, il violinista. Un musicista dilettante, che si porta sul collo, alla stregua degli altri violinisti, il segno dello strumento.
Lo vedo avvicinarsi lentamente al bar.
Ștefan è l’unica parvenza umana con la quale posso avere una conversazione in questo deserto – miseria ladra!
Come ogni mattina, prima di iniziare l’editoriale, ascolto Ciprian Porumbescu.
Ștefan ha sentito la musica ed è uscito sul balcone. Abita nel mio stesso palazzo. Gli piace qualsiasi brano del maestro, ma gli scappano le lacrime ogni volta che ascolta Ballata per violino.
«Sono così le anime solitarie, amano la musica» mi dice, con sguardo disincantato.
Non fa in tempo a stemperarsi il ricordo che mi dà tanta tristezza che aggiunge:
«Hai mai pensato che un povero romeno possa amare come avesse il sangue blu? Non ci hai mai pensato».
Non rispondo alla sua replica. Mi limito a una smorfia che vorrebbe essere un sorriso. Ma lui capisce.

Ștefan ha una laurea, ma in Italia lavora come muratore. Ha cinquant’anni e una storia. Mai, però, fino a questo terribile agosto, è riuscito a concluderla. Ci ha provato diverse volte a raccontarmela, ma non ce l’ha fatta ad arrivare alla fine. Lo bloccano le lacrime, i rimorsi, il dolore che, a detta sua, è ancora vivo.
Il violinista Ștefan conosce tutti gli angoli della mia anima. Persino quelli più oscuri.
«È deserta la città, Ștefan».
«E lo sarà sempre di più. Lascia stare, tornano in autunno, ancor più stanchi di quanto fossero alla partenza, quando stipavano le valigie negli aerei, nelle macchine, nei treni o chissà in quale altro mezzo di trasporto. Le ferie della gente sono bizzarre oggigiorno. O si menano, o s’ammazzano, o bevono fino a scordarsi persino di se stessi. Più o meno, in questo si può riassumere il “divertimento” di alcuni».
Potrei contraddirlo, ma so che ha ragioni solide per la maggior parte delle assurdità che partorisce, così… ci rinuncio. Non ho le energie o, forse, gli argomenti.

Ride a crepapelle. Ștefan ha un modo meraviglioso di esternare la poca felicità che gli attraversa il cuore. Ride come se stesse ridendo con l’intero suo essere, nonostante tutto, scatenando la risata anche negli altri, con un piacere strepitoso. Un giorno me l’ha pur detto:
«Sai perché mi sono tatuato un pagliaccio sulla spalla? Perché sono così triste dentro da far ridere solo gli altri».
Strana la felicità che vive Ștefan!

A un certo punto, è entrato nel bar e ha ordinato una tazza di caffè. Americano. Odia l’espresso, nonostante viva in Italia da quasi un anno. Dal terrazzo lo sento ridere di gusto con Mihaela, la barista romena. Ma sono quei suoni che spesso provengono da risate stanche, che deformano i volti in una smorfia, senza la traccia di una gioia interiore.
Ștefan esce dal bar triste.
«A questa qua l’ha menata ancora il suo uomo. Che imbecille! Bestia! Penso che uno di questi giorni gliele suonerò».
Mihaela, la romena del bar, è stata aggredita nuovamente dal fidanzato. Me lo ha raccontato lei, personalmente, proprio la mattina in questione. L’accaduto ha urtato anche me, naturalmente. La giovane rappresenta uno dei tanti casi di violenza che si consumano quotidianamente, sorretti dalla povertà e dall’alcol… e dei quali scrivo con troppa frequenza.
«Vieni da me o mi inviti da te?» mi chiede Ștefan con tono, artificiosamente, autoritario.
Odio l’odore di muffa che aleggia nella casa di Ștefan, così gli dico di venire da me.
Ci sediamo sul balcone. Il paesaggio è divino. Ora viviamo davvero il sentimento di condivisione non solo dell’asfalto, ma anche dei segreti della città.
Ștefan apre la custodia del violino. Il gesto, in contrasto con la sensazione di disgusto con cui mi sono svegliata, mi fa sorridere e gli recito alcuni versi di Mușatescu, gli stessi di altre occasioni.

Ti sei ubriacato zingaro, se inizi a piangere,
Ti trema il violino ché sente come lo stringi

E l’archetto ti si piega, nella mano, tanto lo tormenti
Perché hai amato, zingaro? Perché non vuoi morire?
Io non piango. Bevi con me e impiccati all’alba…

Ma no. Tu hai il tuo violino e puoi ancora suonare.

«Non suonerò. Non ho lo spirito giusto. Verificavo solo che fosse tutto a posto col violino. Di tanto in tanto, lo faccio. Se hai piacere, voglio – anzi, devo! – raccontarti una storia».
Ștefan mi pare visibilmente affranto, e le rughe della fronte parlano di una preoccupazione seria, di qualcosa di nascosto, che lo corrode dall’interno. Nonostante questo, mi oppongo.
«Ah, no, per favore! Non iniziare ancora con la stessa, eterna e instancabile storia d’amore. Sinceramente, mi sento soffocare».
«Non hai la più pallida idea di cosa sto per rivelarti. Non posso più vivere con questo macigno sull’anima. Ascolta».
Si accende una sigaretta e inizia a dipanare il gomitolo dei ricordi con i quali, si vede, teme il confronto.

«Era autunno. Quanto è puro l’inizio di una storia che incomincia specificando la stagione in cui ti trovi. Solo i bambini hanno ancora come prima regola, nello scrivere i loro pensieri, quella di precisare la stagione in cui si trovano quando stendono, su un semplice foglio di carta, le loro righe innocenti. Perché loro non ne hanno di tempeste dietro le quali nascondersi. Sui loro volti si legge solo felicità anche se fuori sta piovendo, nevicando, tuonando o fulminando.
Per me è importante precisare la stagione, perché in autunno l’ho conosciuta. E, allora, non sapevo che sarebbero seguiti solo autunni nella mia anima… Era il quindici settembre. L’anno? Quasi non conta più, perché il ricordo di lei è ugualmente vivo come fosse il mio primo quindici settembre, passato lì, nel Parco Carol I di Bucarest».
Fin qui, conosco già la storia. È la stessa che mi racconta ogni volta quando gli si rattrista l’anima. Un solo dettaglio è nuovo. Il violino. Mai, prima d’ora, ha tenuto il violino accanto. Il gesto trasuda un’aria di sacralità. Poi, i suoi occhi parlano di qualcosa, qualcosa che non ha mai svelato a nessun altro. Mi lascio travolgere dal paesaggio descritto da Ștefan, come se stessi sentendo per la prima volta quelle cose. «Era autunno, il quindici settembre… pioveva a Bucarest».
«Durante l’estate appena conclusa, avevo toccato la morte con un dito e me l’ero cavata per miracolo. Due finestre si erano urtate sopra di me, e i vetri caduti mi avevano bucato la guancia. In profondità. La ferita aveva sconvolto i medici del pronto soccorso che mi avevano prestato le cure. Credevo che sarei rimasto mutilato.
Mi hanno detto di ringraziare Dio se i frammenti mi avevano bucato solo la guancia sinistra, risparmiando l’occhio e la tempia.
Era sublime udire la parola “morte” mentre l’anestesia faceva effetto con stupefacente lentezza. Lo sapevo anch’io che avevo schivato la morte. Non avevo avuto l’intenzione. Ma che altro fare?
Vabbè, ritorniamo alla storia. La cicatrice è nata verso la fino d’agosto. Circa due settimane prima di conoscerla. Ecco, nemmeno la prospettiva della morte mi ha evitato di incappare in questa storia. È stato il volere del cielo a farmela incontrare. Forse anche perché prima di lei non avevo mai vissuto, credo. Ero una clessidra i cui granelli scorrevano, insipidi, in un continuo presente.
Accanto a lei ho sentito bruciarmi il sangue nelle vene; è stato come guardare con due paia di occhi lo stesso orizzonte del mondo, come sentire un altro essere estensione del tuo stesso corpo.
Ho percepito che ovunque avessi voluto scappare, io, quello di prima, ero morto. Prima di vedere il volto di Amalia, ero solo un mucchio di cartilagine e ossa che custodiva con fierezza, in un cassetto, una diploma che attestava una laurea. Un documento che è diventato importante solo quando lei una sera, avvolta nei vapori del vino, ha preso la carta in mano e ha iniziato a leggere ad alta voce il titolo che mi era stato concesso, tempo prima. Solo allora ho compreso che io, un poveraccio, nato in una famiglia soggiogata dalla povertà, ero riuscito a concludere gli studi, ero un giornalista, avevo conquistato uno status nella scala sociale. E, ancor di più, avevo lei. Una creatura meravigliosa. Un angelo. In sintesi, il mio intero io ha preso forma solo dopo averla conosciuta. E nonostante questo… alla vigilia di Natale, dopo qualche giornata buia, ho voluto che se ne andasse, che sparisse per sempre. Ed è sparita.
Oggi mi lamento come un qualsiasi idiota colpito dalla vita: se fosse possibile riportarla indietro almeno per qualche istante! Sarei capace di sopportare i dolori di qualsiasi coccio, milioni di anestesie dolorosissime che non fanno effetto, solo per riaverla, solo per alcuni minuti. Per me, la felicità è morta. Oggi posso sentire solo la gioia dei folli. E tra loro finirò i miei giorni».
La storia inizia a tingersi di nuove note, mai sentite prima dalla bocca di Ștefan. Mi accendo una sigaretta, prestando attenzione a non disturbare il filo del racconto. Con voce sprofondata nella tristezza, Ștefan prosegue la sua commovente storia.
«Era il quindici di settembre… Tra pochi giorni sarà di nuovo il quindici settembre. Ogni anno, in questa data, rivivo un dolore vicino alla follia. Ho provato con gli stupefacenti, l’alcol, il tabacco, la clausura: niente, niente funziona in quel giorno, quando si compie un nuovo anno. Devo vivere con questo dolore».
Ștefan sorride. Una lacrima cade nella cicatrice che ricorda l’incontro con la Morte, poi scivola nell’altra cicatrice, quella che ricorda il legame col suo violino: il segno sul collo. Ștefan ha lo sguardo fisso da qualche parte verso le Alpi, che si ergono imponenti all’orizzonte, e si dispiegano nel grandioso panorama al quale ho accesso dal balcone del mio piccolo appartamento in affitto a Torino.
Immagino che sapore amaro debba avere quella lacrima. Continua sottovoce.
«Mi faceva così male la ferita, quel giorno… era ancora fresco il taglio, e il freddo e la pioggia aumentavano il dolore della guancia. E mi vergognavo. Ero ancora fasciato. Iniziavo a chiedermi se non mi fosse rimasto il segno o non si sarebbe rimarginato da bravo. Già m’immaginavo assieme a lei. Che stupido! Ci saremmo rivisti durante un incontro formale.
Aveva incominciato a piovere, come sempre il quindici settembre, giorno in cui, nella mia infanzia, iniziava puntualmente la scuola e in cui è nata, anche, la persona più preziosa per la mia anima: la mia bisnonna.
Pioveva, dunque, e faceva molto freddo. A un certo punto, l’ho notata. Aveva una borsa bianca e le scarpe… sempre bianche. Odiavo le calzature bianche. Le detestavo. Ma lei, credo, anche se fosse apparsa sotto le sembianze della Morte, del Diavolo, l’avrei amata lo stesso, completamente e in modo definitivo.
Ci conoscevamo da sei anni. Ex compagni di università, che mai avevano avuto l’occasione di bere un caffè insieme. E anche questo incontro sarebbe stato formale. Veniva a ringraziarmi per averla aiutata a portare a termine una ricerca giornalistica riguardo a uno dei fenomeni più discussi del mondo sportivo romeno di quell’epoca.
È arrivata e abbiamo deciso di restare ancora un po’ nel parco. Abbiamo deciso noi o il tramonto autunnale? Non lo so. Almeno io ero ipnotizzato dal colore di quel crepuscolo. La pioggerella si era fermata di colpo. L’odore di bucato fresco mi aveva invaso i polmoni. Un profumo forte di pioggia, bucato, fresco, foglie umide, autunno. Nel cielo, solo le nuvole nere erano protagoniste. Ma a un certo punto, dietro al Mausoleo del parco, un frammento di cielo si è aperto e abbiamo visto il sole insanguinato, nascosto per tutto il giorno, che si dispiegava, lì, in un buco siderale, riempito di giallo-rossiccio. Alcuni soldati, poi, ci hanno offerto uno spettacolo gratuito: il cambio della guardia al Mausoleo del Parco.
Era così il giorno in cui sono rinato. In cui ho conosciuto lei.
Ci siamo seduti, da prima su una panchina carica di fregi, apparentemente, di innamorati, perché le iscrizioni sul legno che ci sorreggeva parlavano d’amore, in parole concrete: «ti amo, Robert! Irina». Suonava così uno dei messaggi ancora leggibili. Il resto era stato cancellato dal tempo. Quella panchina stava per diventare nostra, per lo stesso principio secondo il quale tutti gli innamorati s’impossessano del mondo: qui ci siamo conosciuti. È nostro!
A partire da quel giorno, sono diventato un altro uomo. Avevo perso la testa. Per sempre, e fatalmente.
Era imbrunito ormai. Il freddo era diventato insopportabile. Siamo entrati in un piccolo bar del parco e abbiamo ordinato, ciascuno, un bicchiere di vin brûlé. Da quel momento, è stata mia.
Sono seguiti bei giorni, solo che quanto più sentivo di amarla, tanto più sentivo di perdere la ragione. Avevo iniziato a essere geloso, terrorizzato dai momenti in cui pensavo di poterla perdere. Lei incominciava a dar segni di stanchezza, di stress, la sfinivo psicologicamente, e me ne rendevo conto. L’amore era ormai troppo grande perché si potesse spezzare. Solo che in quella sera, lei non se n’è andata così come ti avevo detto.
Si avvicinava Natale. Mi aveva promesso che avremmo passato le feste assieme, ma nel weekend precedente è partita con una delegazione. Era mia moglie, era mia, sapevo bene quali fossero i suoi principi, ma, nonostante questo, ho permesso che la disperazione mi prendesse in ostaggio. Lunedì mattina, solo pochi giorni prima di Natale, è tornata. Spargeva felicità per i momenti passati assieme al suo team. Sentivo la gelosia avvolgermi come una morsa, mi corrodeva da dentro con così tanta forza da aver la sensazione di svuotarmi di qualsiasi cosa potesse essere umano, naturale.
Credo fermamente che alcune persone non dovrebbero mai incontrare l’amore. Alcune anime non sanno negoziare con la felicità comparsa all’improvviso sulla loro via e finiscono, sempre, in perdita. Ancor peggio, portano in perdita anche gli altri… Alcuni dovrebbero essere privati dall’amore per tutta la vita.
Abbiamo iniziato a litigare. In passato, avevo provocato innumerevoli litigi che, alla fine, erano finiti per il meglio. Il più delle volte, le discussioni si concludevano facendo l’amore.
Quella sera, invece, l’ho colpita. Colto dalla furia, l’ho colpita. È stato un Natale triste. Mi aveva minacciato di divorziare. Poi, si è detta che il mio gesto di violenza fosse solo una forma di gelosia acuta, per la quale era colpevole lei stessa, per non avermi prestato sufficiente attenzione. Ci siamo riappacificati. Il gesto, però, faceva male lo stesso e le cose non erano più come prima. A Santo Stefano, il 26 dicembre, per il mio onomastico, ha ricevuto una telefonata. Le chiedevano se potesse sostituire una collega proprio la notte di Capodanno. Avevano bisogno di un reporter. Ha accettato. Naturalmente. Nel team c’erano solo uomini. Lei, l’unica donna. Il caso si ripeteva per l’ennesima volta e ho sentito, ancora, che una febbre fortissima mi pervadeva le guance e una furia mi incrudeliva l’intero essere. Bruciavo di gelosia».
Questi accadimenti mi erano estranei. Sapevo solo che la moglie di Ștefan se ne era andata via di casa, una mattina, dopo le feste invernali, nel 2003, stufa delle sue scene di gelosia. Mi aveva ripetuto più volte delle violenze psicologiche, me lo aveva confessato un giorno. La violenza fisica, finora, non l’aveva mai nominata.
D’un tratto, Ștefan è diventato silenzioso. La testa china, si preme gli occhi, come se volesse chiuderli per sempre. Li riapre. Si accende una sigaretta. Gli tremano le mani.
«È arrivato anche Capodanno. Ero da solo, da qualche ora, e guardavo l’orologio sul muro col sentimento che sarei stato capace di sfidare tutti gli orologi della terra. Sapevo che a mezzanotte sarei rimasto senza di lei. La gelosia cresceva. Il mio problema non era che lei fosse al lavoro. Io stesso ero stato, tante volte, costretto a lavorare nelle giornate meno opportune. D’altro canto, ero anch’io un giornalista. Conoscevo bene gli inconvenienti della professione. Ma quella sera iniziavo a smarrire la ragione, a smarrire di nuovo la pace. Stavo impazzendo. Conoscevo bene uno degli operatori con cui lei lavorava. Un donnaiolo. Ama, però, non era il tipo di donna con cui tentare facilmente un approccio. La conoscevo bene. Anche se lo sapevo, le mie paure dilagavano acuminate, trafiggendomi la pelle, mutilandomi.
Non ha dato nessun segno fino all’una, quando mi ha telefonato. Era contenta. La puntata era venuta bene e si scusava per non essere riuscita a contattarmi proprio a mezzanotte. Avevano fatto le riprese, non aveva potuto. E poi, le linee erano occupate.
Eravamo già nel 2003. Quando è entrata in casa, al mattino, avevo già svuotato due bottiglie di champagne e alcuni bicchieri di whisky.
Suonavo il violino. L’immagine, con ogni probabilità, era desolante. Bicchieri rovesciati, la tovaglia sporca, io ubriaco, con il mio violino. Il quadro del primo giorno dell’anno. Ama, tipo impulsivo, ha preso a urlare rinfacciandomi il disastro che avevo combinato e il modo in cui la trattavo. Ho visualizzato mentalmente ciascun momento della nottata, pezzi di un Capodanno passato da solo. La furia è tornata. Non per la situazione in sé, ripeto. Ma perché il mio amore per lei mi aveva reso un uomo disperato e, senza rendermene conto, ho perso il controllo. L’ho colpita. Verbalmente, fisicamente.
L’ho colpita anche col violino. Poi, con un coltello. Probabilmente volevo solo spaventarla quando ho impugnato l’arma, ma la lama le ha trafitto il soprabito che non aveva fatto in tempo a togliersi. Ero ubriaco all’inverosimile e preso nelle grinfie avvelenate della gelosia. Non mi uscirà mai dalla testa il suono e la sensazione vissuta quando il soprabito ha ceduto con un innocente “frr”, e la lama del coltello ha raggiunto la carne di mia moglie.
Preferisco non entrare nei dettagli della scena, ma non posso sorvolare, per quanto lo voglia, quell’istante: lei, stesa sul tappeto, e i rivoli di sangue che escono dall’addome, il soprabito che si impregna di sangue, lo oltrepassa e raggiunge il supporto dell’abete, penetrando il parquet. Le luci dell’albero di Natale continuavano a luccicare multicolori. Imperturbabili: era festa.
Ama ha aperto gli occhi e con un soffio d’odio ha bisbigliato:
«L’hai ucciso, bastardo, hai ucciso nostro figlio. Sono incinta».
Ho iniziato a ridere, a urlare, a cozzare contro gli oggetti che incontravo nel muovermi. Non trovavo più il coltello. Avrei avuto, sicuramente, il coraggio di ammazzarmi. Ma non l’ho trovato. O forse non ho nemmeno pensato a un coltello. Credo di aver perso completamente la ragione.
Non so quando e nemmeno come, ho telefonato a un amico che, a sua volta, ha chiamato i soccorsi. Come reporter, avevo telefonato io stesso al 118, milioni di volte, ma in quel frangente non ne ero capace. Pochi minuti dopo – il tempo in cui mi sono disperato, ho chiamato i vicini, volevo buttarmi dalla finestra – ho sentito, finalmente, le sirene dell’ambulanza. Un vicino mi ha portato via con forza dalla stanza, mentre continuavo a ripetere ossessivo ai medici: l’ho uccisa.
Li sentivo parlottare tra loro: il polso batte ancora, è viva, non l’hai ancora ammazzata, ubriacone. Prega che si riprenda ché se no marcirai in galera.
Non sono andato all’ospedale, anche se qualcuno mi aveva chiesto se volessi accompagnarla. Non so cosa abbia risposto. So solo che non sono andato con Ama all’ospedale. Ero in stato di shock.
Dopo, due giovani in divisa mi hanno invitato a seguirli. Sono uscito di prigione due anni fa, questo lo sai. E da poco sono in Italia.
Quello che non sai è che un giorno, prima di partire per l’Italia, sono andato in visita da un amico. Destino, era ancora autunno. Ottobre. Sempre freddo. Mi è sembrato contento di vedermi. Ma ha cambiato subito umore quando mi ha detto di dovermi dare una cosa. E mi ha passato un libro. Il nome dell’autore mi è balzato all’occhio: Amalia Enescu – si era firmata col cognome da sposata, nonostante avessimo divorziato. Titolo: Amore ucciso da un violino.
Sapevo che Amalia intendeva pubblicare qualcosa; mi aveva informato lei stessa di aver concluso il manoscritto. L’aveva portato personalmente all’editore, prima di Natale, del nostro Natale.
Ho lasciato in fretta il mio amico, impaziente di leggere. Sono arrivato al parco Carol I, verso le sedici, c’era ancora luce. Ho cercato la nostra panchina. Era lì, sempre piena di messaggi scolpiti dagli innamorati nel legno quasi putrido. La notte mi ha colto nel parco, mentre leggevo a fatica, sotto la luce dei lampioni che circondavano il viale davanti al Mausoleo. Tutta la nostra storia era impressa lì, nelle pagine che giacevano come testimoni davanti ai miei occhi. Eravamo esistiti un tempo. Ștefan e Ama erano stati una coppia, un amore, una storia uccisa dalla lama di un coltello da cucina.
In prigione ho avuto tempo per meditare. Ora lo so. Non è la violenza ad averci uccisi, ma l’incapacità di comunicare. Questo ha prodotto il crimine. Ho sempre rifiutato di ascoltare Ama, immedesimarmi in lei, entrare nella sua pelle. Eravamo troppo diversi. L’unica cosa che ci legava sembrava essere un filo invisibile chiamato “giornalismo”. Ma anche la professione era divenuta insufficiente. Io ero affascinato dalla sua passione smisurata per il giornalismo, lei, invece, era dispiaciuta quando vedeva che preferivo i lavori ben pagati, a discapito del giornalismo vero. E per questa strada quotidiana, dalla quale eravamo partiti consapevoli, allora, davanti all’altare, eravamo diventati solo due creature che avevano scordato la bellezza della vita. Vivevamo in una specie di salsa tossica, nella quale, a un certo punto, affamati com’eravamo, abbiamo rovesciato troppo di quell’ingrediente chiamato amore. Siamo morti intossicati dall’amore.
Ciascuna lettera del suo libro ha impresso nella mia anima un unico messaggio: ho ucciso con le mie mani un amore reale nonostante tutti gli handicap coi quali eravamo nati… Ho ucciso mio figlio e il mio unico amore perché non ho saputo negoziare con la felicità, non ho saputo mettermi dinanzi alla libertà dell’anima, dinanzi a quella libertà che solo amando puoi conquistare.
A volte, l’essere umano si comporta come fosse uno dei più selvaggi animali incapace di gioire della libertà della propria anima. E si suicida commettendo un crimine contro l’amore personale.
Io sono morto. Sono solo carne e ossa. Per il resto, la mia anima vacilla avvinghiata ai ricordi. Nessuna vibrazione, nessuna felicità trova spazio sotto le giunture delle mie ossa. Sono ancor più triste di uno scheletro.
Quando ho finito di leggere il libro, mi ha colto una inquietudine interiore, simile a quegli stati che ti colgono quando leggi un bel romanzo. Era naturale. Ama era l’autrice del mio amore. Grazie a lei era nato in me un sentimento tanto grande. Un buon romanzo è quello che ti aiuta a discernere tra bene e male, quello in cui trovi te stesso. Nel romanzo di Amalia ero completo. Ancor più completo di quanto mi fossi mai conosciuto. Sembrava che lei avesse sempre posseduto il segreto della nostra felicità, ma io rifiutavo di ascoltarla, di comprendere, comunicare. Era così. Era vero.
Il romanzo è dedicato a me, ma è stato anche pubblicato con la speranza di poter infondere dosi di coraggio alle donne sensibili, che soffrono per amore e per colpa delle violenze domestiche. Ama è una combattente instancabile dei diritti delle donne. Passa giornate intere a documentarsi. Milita in difesa delle donne e non si fa sfuggire nessun caso di violenza senza segnalarlo alle autorità o senza raccontarlo al pubblico. Leggo ingordo i suoi articoli anche oggi. Adesso, scrive per un importante giornale di Bucarest. È tornata al suo primo amore: la stampa. Ha una bella carriera. Ma nemmeno lei ha più incontrato l’amore. D’altronde, era assurdo riuscirci. Sono io l’assassino del suo amore.
Il romanzo ha avuto un grande impatto. Le poche copie della prima edizione sono state vendute subito, e la richiesta di una ristampa è stata più che lusinghiera per una scrittrice esordiente. Di tutte queste cose mi sono informato da solo.
Non l’ho mai più rivista, da allora, da quel Natale».
«L’hai amata molto, Ștefan!».
«Sì, di un amore creatore di morte…».
Ștefan prende il violino tra le sue dita lunghe e scure. Sembra stia scavando il passato. Ma in quel tremolio nevrotico, la carne ha potuto toccare solo le corde del violino che non emettono alcun suono.
Scende, lenta, lenta, la sera.
Le Alpi sono, ora, celate dietro una coltre di nebbia. Non si vedono più. Come non fossero mai esistite. I segreti della città non sembrano più tesori. Gli abitanti se ne sono andati e torneranno solo in autunno. Anche i romeni hanno abbandonato in fretta la città. Per loro Ferragosto è diventata una festa ancor più importante del Natale, è l’occasione per rivedere con rimpianto le loro case in Romania, un tempo accoglienti e confortevoli. Anche loro torneranno in autunno.
Ora la città è in vacanza, una vacanza durante la quale, impazziti per il dolore, se ne sono andati persino gli angeli. Una metropoli senza padroni. E l’anima è senza protezione. Il canto del violino inonda le strade, indisturbato, in gara con la pioggia che inizia a picchiettare l’asfalto. Si sente un tuono. L’anima risuona vuota. La pioggia aumenta il passo. Scende a fiotti, lasciandosi dietro pezzi di carta, mozziconi di sigaretta e bottiglie un tempo piene dei liquori della felicità improvvisata.
In un angolo, le nuvole si sono lacerate e hanno fatto spazio al sole, ma altre nuvole si avventano rapide, ancor più nere e pesanti. Si sentono le sirene di una pattuglia che si perdono subito nella fuga verso l’altro lato della città. E questa si addormenta sotto la pioggia torrenziale d’agosto.
«Quest’acquazzone non ha nessun potere» ho sentito la voce della vicina che era uscita a guardare uno delle ultime tempeste estive.
Le corde del violino cominciano a suonare nuovamente. Ștefan chiude gli occhi come in una eterna sinfonia di dolore. Gli scendono le lacrime. Ballata per violino è il brano preferito anche dei vicini. Qualcuno si affaccia alla finestra. La pioggia continua con forza. Le poche persone alle finestre sorridono. Due vecchietti si baciano, al termine, sulla fronte, nel riquadro di un balcone stile anni ’60. La tempesta li colpisce fino alla pelle, ma loro se ne fregano. Sembra che persino la pioggia conosca la loro storia. Si amano sin dall’infanzia.
Esistono (ancora) amori che non spariscono alla prima tempesta, persone che non hanno paura di loro stesse, creature che cercano l’amore. E non lo temono.



Luiza Diculescu
(n. 7-8, luglio-agosto 2014, anno IV)