Impressioni di un viaggio a Timisoara

Come ogni città che si rispetti, anche Timisoara non sfugge alla regola che impone a chi la visita di volgere lo sguardo verso l’alto, col naso all’insù: la classica posa del turista, per l’appunto, quella che lo rende immediatamente riconoscibile tra le centinaia di persone che lo affiancano e lo circondano, altrimenti affaccendate. D’altronde, le aristocratiche facciate dei palazzi che si aprono sulle sue ariose piazze valgono bene un torcicollo.

Poi l’occhio comincia a soffermarsi, quasi incredulo, sullo scempio che decenni e decenni di incuria hanno inferto a quello splendore che ai tempi di Francesco Giuseppe le aveva meritato l’appellativo di «Piccola Vienna». Ma l’armonia dell’architettura non si arrende agli intonaci scrostati, alle vernici sbiadite, ai tetti malandati, agli infissi divelti o sbilenchi e comunque fuori tema. Ne è offuscata, non cancellata e sembra invitare alla rinascita come una voce amica che ti scuote in un momento di triste abbandono e ti incita a lottare, a sperare. Sono volti sorridenti, infatti, quelli che vedo intorno in questa soleggiata domenica di giugno. Tra la folla volteggia, proprio come una farfalla, una giovane donna bionda ed esile, molto bella. Si capisce che è psicologicamente instabile, per questo sono ancora più commoventi la grazia e la leggerezza delle sue movenze che le fanno ondeggiare la lunga gonna a fiori, e l’aria trasognata da fata catapultata in un mondo non suo, come è capitato alla gente di questa nazione, obbligata al lungo buio della dittatura.

«Spero di vivere abbastanza a lungo da vederla rinnovata questa città» ha detto la mia amica Veronica che assieme al marito Ioan (che però io chiamo Giovanni) fa da cicerone. Ecco, l’amore per la propria città, per le proprie radici, è tutto lì, in quelle parole, nel tono di premurosa sollecitudine come quello di una madre verso un figlio.

Timisoara annovera numerosi primati sia all’interno dell’Impero Austro-Ungarico che in ambito europeo, e dunque non poteva farsi mancare quest’ultimo, il più importante: quello della prima città della Romania in cui si è accesa la scintilla della libertà. Ioan Matasaru racconta che qui, proprio davanti al monumentale Teatro dell’Opera, nella piazza principale di Timisoara, la sera del 20 dicembre si era radunata tanta di quella gente da riempirla tutta. La sua voce è così evocatrice che riesco a sentire il fremito dell’attesa, la gioia trattenuta dal timore della delusione. Nel recarci alla splendida Cattedrale ortodossa, uno dei simboli della città, racconta ancora una volta di quella sera del 18 dicembre 1989, quando dalla finestra della sua casa ha visto la furia cieca dell’odio abbattersi sui civili inermi: donne e bambini che cantavano inni natalizi.

La prima volta che ho ascoltato questa storia dalla sua voce è stato nell’agosto del 1991 quando, finalmente libero, è tornato in Italia insieme alla moglie. Quel giorno, dunque, accompagnandosi con l’inseparabile chitarra, lui, poliedrico musicista e compositore, nonché storico fondatore e direttore del gruppo corale e strumentale Flores, aveva dato voce al dolore del suo popolo con la canzone Buona notte, bambino di Timisoara.

Oggi sui primi gradini della scalinata, strisce di vernice rossa ricordano l’orrore. Sarebbe oltremodo sconfortante se in futuro, turisti distratti scambiassero quel rosso con la conseguenza del gesto maldestro di qualche imbianchino inesperto. È un esercizio salutare per l’animo umano non dimenticare mai le aberrazioni e i guasti prodotti da chi, non importa sotto quale colore o presunto ideale, nasconde con l’arroganza e l’inganno, la brama di esercitare il potere sul prossimo.


Irma Di Patre
(n. 10, ottobre 2012, anno II)