Romania letteraria da tradurre: Andrei Pleşu e i suoi «Minima moralia»

Andrei Pleşu, scrittore e saggista, personalità di spicco della cultura romena contemporanea, in Italia è ancora quasi un signor sconosciuto. Eppure la sua prosa – animata da un contrasto formale tra una problematica impegnativa (morale, teologica, esistenziale) e un approccio diretto, spesso ludico e ironico – si segnala per l’inconfondibile stile, elegante e insieme accessibile anche ai non addetti ai lavori. Horia-Corneliu Cicortaş, traducendo alcuni brani del testo di Plesu, Minima moralia: elementi per un’etica dell’intervallo (prima edizione 1988), intende invitare l’editoria italiana a prestare attenzione a questo significativo autore.



[…] Il bisogno di essere guidati è più di una volta il bisogno di vivere per delega, di trasferire a qualcun altro la responsabilità della propria vita. Quel che possiamo fare è di approssimare in maniera descrittiva la geografia dell’etica, i suoi contorni, i termini essenziali in cui va svolto il dibattito etico. Se proprio dovessimo proporre una norma, l’unica su misura delle nostre intenzioni reali è questa: uscire dallo stordimento etico, dalla sua meccanica gregaria, rendersi consapevoli del fatto – decisivo, pressante, inquietante – che l’etico esiste.
Ma c’è forse qualcuno che lo mette in dubbio? Non è l’etico un costante riferimento di ciascuno? Noi pensiamo di no: in genere, l’esistenza dell’etico è registrata solo raramente, nelle situazioni limite, quando ci s'impone con una specie di (non desiderata) obbligatorietà. Per il resto, prendiamo come «ordine etico» la stretta convenzionalità dei costumi, la più scialba stereotipia sociale. Non percepiamo l’immoralità che dallo «scandaloso» in su. Fino a questo livello, tutto ci sembra più o meno in regola e, come tale, fuori di ogni interesse e di ogni discussione. Stando così le cose, ci sembra a maggior ragione che un certo «minimalismo» etico sia opportuno, se inteso come analitica della mediocrità morale, distinta dalla fenomenologia della catastrofe morale, delle colpe supreme, di cui si occuperebbe, diciamo, la «grande» etica.

Statisticamente, la deriva morale di ogni giorno non consiste in un demente accumulo di «peccati che gridano vendetta al cielo». La materia prima dell’etico quotidiano non è formata dall’assassinio, dalla persecuzione dei minori o dalla sodomia; quando questi fatti vengono segnalati, sono di tale radicalità e di tale ovvietà da scoraggiare ogni teorizzazione. I «peccati che gridano vendetta al cielo» tendono a rientrare, spesso, piuttosto nella sfera del patologico che non in quella della «colpevolezza» morale ordinaria. Il crimine di Raskolnikov ondeggia – come tutti i crimini dostoievskiani – da qualche parte tra il morboso ed il religioso, e per tale ragione è molto difficile da misurare con gli strumenti propriamente detti dell’etica. Molto più eloquente eticamente ci sembra l’immoralità dei personaggi di Gogol, il loro piatto demonismo, la mostruosità incolore delle loro anime addormentate. Questo è il territorio in cui l’etico si rivela veramente: la sonnolenza diurna, la prudenza irrespirabile dell’atteggiamento, il grigio dei valori. In breve, la placidità etica dell’uomo mediocre. Guardato da lontano, costui non commette nulla di grave: ma è proprio questo il suo peccato mortale, quello che lo ripara dall’attacco della comunità e dal risveglio della propria coscienza. Contraddistinto più da quanto omette che non dall’azione commessa, tranquillo nella sua inespressività, invulnerabile dal punto di vista della «grande» etica, perché, ripetiamo, egli non fa nulla che sia brutalmente rimproverabile, l’uomo mediocre è il depositario più perfido della miseria morale. Egli dimora in ciascuno di noi, sottraendosi, proprio per mezzo della sua palese e sfacciata banalità, a qualsiasi processo. La grande colpevolezza morale, il disastro morale sembrano quasi paradisiaci paragonati alla vigorosa anestesia morale dell’uomo mediocre. Il suo peccato non consiste nel dire grandi bugie, ma nel non evitare la più evitabile delle piccole bugie; non nel rimandare il grande gesto di autenticità, ma nel non provare nemmeno il gesto della minima decenza. Questo «nemmeno» è il problema centrale, la colpa capitale del «minimalismo» etico. Esso circoscrive l’incapacità comune di risolvere non il dilemma morale dalle dimensioni monumentali, bensì «lo stretto necessario» della moralità. Segnato da quest’incapacità, l’uomo si rende colpevole non tanto per il male cui è costretto (da circostanze aspre, da paure incontrollate e cose simili), quanto per il male al quale aderisce non costretto, dal quale potrebbe dunque tenersi senza rischi a distanza. Non gli si chiede di fare l’impossibile, ma di fare quel poco che è in grado di fare. Altrimenti, questo poco resta non fatto, in virtù di un’inerzia che contamina, come un veleno residuale, l’atmosfera morale adiacente.

L’imperativo comportamentale proposto dal «minimalismo» etico che abbiamo come obiettivo non è, dunque, quello dei grandiosi sforzi intrapresi sotto la regia cosmica del decalogo. Si tratta piuttosto del dettaglio etico, di una stilistica dell’irrisorio, delle opzioni non necessariamente fondamentali, ma in ogni caso rilevanti. Si tratta di non fare del tema etico un tema festivo, invocabile unicamente nella tensione delle grandi «occasioni» etiche: in una vita umana, queste occasioni possono anche non presentarsi mai. E allora, il problema è quello di fare della piccola responsabilità quotidiana – la grande occasione.


Andrei Pleşu
Traduzione italiana a cura di Horia Corneliu Cicortaș
(n. 6, giugno 2013, anno III)