Lucidità e vergogna: intorno alle lettere giovanili di Cioran

Tra i vari eventi che hanno avuto luogo al recente Salone del Libro di Torino, è da segnalare la presentazione del volume di Emil Cioran Lettere al culmine della disperazione, ad opera del curatore Giovanni Rotiroti (traduzione di Marisa Salzillo, Mimesis Editrice, 2013). Pubblichiamo il testo della presentazione, che il professor Rotiroti ci fa pervenire, corredato della seguente gentile premessa, di cui gli siamo grati: «Desidero ringraziare Afrodita Cionchin e Giovanni Ruggeri per lo sforzo immane che stanno conducendo nel sostenere a proprie spese questa rivista. Senza il loro fondamentale apporto, anche in termini di tempo e di risorse psichiche impiegate, l’Italia e la Romania perderebbero una base indispensabile per la promozione e il dialogo di entrambe le culture. È importante dire con forza che senza l’impegno finanziario da parte delle istituzioni pubbliche e private dei due Paesi non si può continuare a fare scienza. Non è più sufficiente, per una rivista come questa, il positivo riconoscimento solo in termini sociali».

In occasione della presentazione del libro di Emil Cioran, Lettere al culmine della disperazione, desidero ringraziare gli editori della Mimesis, Luca Taddio e soprattutto Pierre Dalla Vigna e Aurelia Delfino, la quale ci ha aiutato tantissimo per la promozione del libro. Li ringrazio anche perché si sono presi con noi l’impegno di continuare in futuro ad aiutarci a far conoscere l’opera inedita di Cioran in Italia.

Questo libro non avrebbe visto la luce se la mia bravissima allieva Marisa Salzillo in questi ultimi anni non si fosse così tanto impegnata e dedicata a tradurre con grande passione, competenza e coinvolgimento emotivo, queste straordinarie lettere di Cioran, e se Antonio Di Gennaro non ci avesse fornito alcuni suggerimenti essenziali – grazie alla sua profonda conoscenza del pensiero di Cioran – che ci hanno permesso di sciogliere alcuni nodi cioraniani «indecidibili» presenti un po’ ovunque nel testo originale. Ringrazio inoltre la mia allieva Irma Carannante, che ha tradotto stupendamente le poesie romene di Tzara e Fundoianu, e che è stata, anche in questa situazione, di prezioso aiuto nel lavoro redazionale.

Le valenze delle missive di Cioran

Le missive di Cioran, redatte al tempo della composizione e della pubblicazione del suo primo libro in Romania, Pe culmile disperării, non hanno solamente una valenza storica e documentaria, non appartengono solo agli archivi, ma sono lettere appassionate, aggressive oppure tenere e affettuose, in cui il discorso privato e lo scritto di circostanza si accompagnano a un percorso di elaborazione filosofica e retorica, e anche a una ricerca di stile poetico.
Ogni volta che si leggono le lettere di Cioran è possibile notare la strana parentela che c’è tra la vita e la morte. La posta in gioco per il Cioran di quegli anni è quella di scrivere al culmine della disperazione. Questo tratto etico, che attesta la sua passione per il reale, è un aspetto che non va affatto misconosciuto, ma va contestualizzato all’interno dell’esperienza associativa di Criterion di cui facevano parte Mircea Eliade, il futuro storico delle religioni, Eugen Ionescu, meglio noto col nome di Ionesco, il padre del teatro dell’assurdo in Francia, e il più importante filosofo del secondo Novecento romeno, Constantin Noica.
In questi primi anni di attività scrittoria che ruotano intorno alle opzioni culturali dell’associazione Criterion, Cioran adotta un modo particolare di filosofare per lettera sia nell’articolazione delle proprie idee che nella manifestazione del desiderio di essere riconosciuto come esponente di rango dell’associazione stessa. Gli amici di Cioran sono fondamentalmente i destinatari dei suoi pensieri, e le lettere richiedono contrattualmente la complicità amichevole del lettore. Oggi ci si può chiedere se queste prime lettere di Cioran fossero destinate alla pubblicazione, o se avessero una funzione esclusivamente privata. Vediamo più da vicino la questione. Ion Vartic ricorda che nel 1991 Cioran, quando venne a sapere come furono scoperte le sue lettere indirizzate all’amico d’infanzia Bucur Ţincu, ebbe «una reazione molto espressiva, emozionata, divertita», e per alcuni tratti «umoristica». Cioran esclamò: «Dodici lettere ai culmini della disperazione!», ridendo fino alle lacrime, e subito dopo aggiunse: «Dovrebbero essere pubblicate come un libricino di versi». Cioran sembra dunque esprimere una volontà testamentaria che non sia solo postuma. E, a distanza di tempo, intende annullare così la linea di demarcazione tra il pubblico e il privato.

Ciò che maggiormente colpisce in questa corrispondenza è la soggettività del giovane Cioran che si mostra e si ritrae misteriosamente nella lingua. In queste lettere è infatti ancora possibile osservare il processo di verità esposta sulla scena epistolare, e cogliere sul vivo l’attività performativa della parola.
Le dodici lettere spedite a Bucur Ţincu tra il 1930 e il 1934 non mancano di ricordare gli anni dell’università, il freddo della casa dello studente, il rifugio nelle biblioteche riscaldate di Bucarest, il tentativo di sconfiggere la melanconia, di rifuggire la poesia e i problemi sociali attraverso lo studio delle questioni filosofiche astratte e impersonali. C’è la difesa dell’arte contro la prevaricazione della morale, il progetto della preparazione della tesi di laurea su Kant, proposta dal suo maestro Nae Ionescu. Ci sono le letture di Croce, Hegel, Hartmann, Taine, Pascal. In queste lettere incomincia a delinearsi la sua singolare vocazione nichilistica proprio a partire dalla scrittura di Dostoevskij, Nietzsche, Chestov, Bloy e Thomas Mann. Il giovane Cioran si scontra, in questi anni, con le antinomie del pensiero tragico tedesco e con l’impossibilità di risolverle in un sistema normativo di pensiero.
Per Cioran, la scrittura del dolore è imprescindibile dall’esperienza soggettiva della conoscenza. Le missive di quel periodo mostrano l’emergere della sua passione eccessiva per la lucidità, e precisano il contesto emozionale intorno a cui hanno preso campo le idee, o meglio le ossessioni, che anticipano di qualche anno il suo primo libro, Al culmine della disperazione.
Qualche anno prima della pubblicazione del libro, Cioran sembra rivolgere la sua ricerca verso il campo della clinica fenomenologica e della psicopatologia descrittiva attraverso la letture di Schopenhauer, Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche, Freud, Heidegger, Jaspers e altri. Nel 1933 scrive un articolo dal titolo La Melanconia di Dürer e, sempre nello stesso anno, pubblica il saggio Sugli stati depressivi. Studia la «melanconia giovanile di Kant» e le sue sintomatiche «difficoltà respiratorie». Afferma che non si tratta dello «stesso caso di Michelangelo, Kierkegaard o Tolstoj», in quanto questi ultimi sono da considerare dei «depressi organici». Questo è forse uno dei tanti motivi per cui abbandonerà il progetto di scrivere la sua tesi di laurea su Kant, perché ritiene che la melanconia di Kant non sia autentica, cioè non organica, quindi non una vera depressione.
Sempre in questo periodo Cioran cerca nuovi interlocutori per la pubblicazione dei suoi lavori sui periodici nazionali e stringe in questa direzione una particolare amicizia con l’influente promotore di Criterion, l’americanista Petru Comarnescu, anch’egli filosofo. Il giovane pensatore dichiara di non amare molto scrivere, ma sente il bisogno di sopravvivere, dal punto di vista intellettuale, in attesa di trovare una collocazione sociale più consona al suo talento, e di rendersi così visibile al pubblico delle lettere romene. Il giornalismo, anche se non gli permette di abitare a Bucarest e di partecipare a tutte le attività e alle serate organizzate dal gruppo Criterion, gli consente comunque di stare decorosamente a Sibiu. In questa città, dove aveva frequentato il liceo, vi erano biblioteche prestigiose e ben fornite, che gli permettevano di stare al passo con il pensiero filosofico del tempo. Sibiu, inoltre, gli consentiva di fare quelle esperienze capitali che appassionatamente trascriverà nelle pagine del suo primo libro.
Le lettere che spedisce da quest’incantevole cittadina della Transilvania gli garantiscono poi di conservare vivi e inalterati i contatti, che aveva stretto durante il periodo universitario, con gli amici della capitale. Tuttavia la situazione sociale in Romania è drammatica per i neolaureati. I posti all’università sono già occupati dagli esponenti della generazione intellettuale precedente, e anche nelle scuole non c’è tanta disponibilità di impiego. I colleghi di Cioran non se la passano meglio di lui. La speranza allora è quella di ricevere qualche borsa di studio per l’estero dalle persone che contano, e tentare di pubblicare un primo libro anche a proprie spese.

L'abbaglio del totalitarismo nazista

Passa qualche mese e Al culmine della disperazione è già pronto a candidarsi per il premio della Fondazione Reale. Grazie agli amici di Criterion, che sono in giuria, Cioran ha buone possibilità di vincerlo. Ma ecco che, in maniera del tutto insperata, il giovane autore parte in borsa di studio per Berlino presso la prestigiosa Fondazione Humboldt. Qui ha la possibilità di conoscere nuovi maestri del pensiero. Frequenta all’Università i seminari di Nicolai Hartmann, le conferenze di Ludwig Klages e anche un corso di psichiatria. Da Berlino, Cioran comunica ai suoi amici di Bucarest che si è messo a studiare il buddhismo e ha incominciato ad ascoltare molta musica classica per non «lasciarsi intossicare o contaminare dall’hitlerismo», impresa che, tuttavia, risulterà vana e totalmente inefficace: il fatto di aver assistito in presa diretta alla scalata del nazismo al potere, che prometteva un nuovo stile di vita, dirotterà le sue idee verso il culto dell’irrazionale e l’esaltazione del totalitarismo antidemocratico, facendogli toccare l’apice negativo della sua esistenza.
Cioran menziona questo evento in un articolo giornalistico del 1937, intitolato La rinuncia alla libertà, dove ricorda il forte impatto emotivo che Hitler esercitava sulle masse affluenti al suo cospetto. Cioran scrive: «Mi sembrò che tutti tendessero le mani verso di lui, implorando un giogo capace di contenerli, come se aspirassero con impazienza al castigo. Ogni dittatore ha un’anima di boia messianico, macchiata di sangue e di cielo. La folla chiede di essere comandata. Le visioni più sublimi, le estasi versate dal flauto angelico non saprebbero infiammare quanto una marcia militare».
Di questo abbaglio del totalitarismo nazista abbiamo una testimonianza, colta sul vivo, in una lettera spedita da Berlino il 27 dicembre 1933 a Comarnescu, che è contenuta in questo volume. Qui il giovane borsista segnala il suo cambiamento di rotta e il progressivo estraniamento dovuto ai momenti in cui la melanconia e il dolore morale attraversano potentemente le fibre interiori della vita psichica. Nell’impossibilità di sostare in quest’angoscia in cui il soggetto si sente venir meno, ecco farsi avanti l’opera parossistica del delirio che fa emergere la strana idea di avere una missione da compiere.
A questo punto ci si può chiedere cosa sia avvenuto al borsista transilvano, sradicato e trapiantato quasi di forza in Germania, dopo la composizione del suo primo libro. Dagli scritti giornalistici, soprattutto quelli più freneticamente politici, che spedirà di lì a poco in Romania a partire dal 1934, si può osservare ciò che fu un evento straordinario per tutta la storia dell’Occidente. Sembra proprio che il giovane Cioran a Berlino sia stato affascinato dalla società dello spettacolo allestita dalla propaganda del nazismo.
Dal punto di vista soggettivo, ciò che è avvenuto al giovane borsista non è affatto indolore. Nonostante l’apparente trionfalismo dei suoi articoli provenienti dalla Germania, qualcosa in lui ha ceduto. È cambiato l’immaginario soggettivo di Cioran. Si può dire che la vista della Berlino nazificata, rispetto allo scenario sociale offerto dal suo paese in preda alla corruzione politica ed economica dilagante, abbia segnato in lui un punto di rottura irreversibile. Il vuoto della democrazia esposto in maniera oscena dal nazismo, è ora colmato dalle parate di massa, le marce, i canti, la folla che acclama, l’isteria collettiva davanti alla figura carismatica di Hitler. Si ha a Berlino l’avvento della supremazia dell’immagine spettacolare. Il registro immaginario copre tutta la scena e il giovane borsista subisce una sorta di fascinazione alienante. Egli non è più in grado di riconoscere il proprio desiderio, e si consuma all’interno di un’illusione generalizzata, come in specie una trance ipnotica collettiva.

Per tutta la vita Cioran proverà vergogna intellettuale per il cedimento psichico patito a Berlino. Nel capitolo di apertura del suo primo libro scritto in francese, il Précis de décomposition, farà una spietata requisitoria contro ogni forma di fanatismo. L’analisi che fa lo stesso Cioran nei testi postumi di Mon pays e dei Cahiers riguardo a quegli anni di delirio è di tipo psicologico e sociologico e lo inchioda alla sua inestricabile responsabilità.
La contingenza storica premeva e dettava le sue condizioni che apparivano come necessarie. La rivoluzione in Romania era avvertita come imminente. Roma, Mosca, Berlino picchiavano potentemente alle porte di Bucarest. Il suo maestro, Nae Ionescu, dopo un soggiorno estivo in Germania nel 1933, era entusiasta della rivoluzione nazista.
Nei Cahiers e in Mon pays l’auto-requisitoria di Cioran è molto stringente. Il punto vivo dell’analisi che fa Cioran sta nel domandarsi perché, potendo scegliere, si scelga sempre per l’inesorabile. Il giovane borsista transilvano opta a Berlino per l’inevitabile, ovvero ha dato a ciò che gli sembrò la necessità storica il carattere della libera scelta.
In fondo, Cioran non si è mai allontanato dalla sua missione, cioè dal suo compito etico, che è stato quello di scrivere e di relazionarsi in un certo modo con il mondo. Cioran ha testimoniato per tutta la vita questo abbaglio, questo smarrimento soggettivo patito in Germania, ed è stato in grado di individuare, nel tempo, la posizione che il soggetto del desiderio occupava nel campo della parola.
La sua scrittura non è stata solo uno strumento di liberazione, come ha sempre dichiarato sin dai suoi primi articoli giovanili, ma è stata una modalità di trattamento del reale, della morte e dell’orrore angoscioso che è apparso nella cruda dimensione nell’inconsistenza, del non senso, del venir meno dell’Altro e del soggetto stesso. Si tratta di inserire la questione della scrittura di Cioran in quella che Lacan diceva essere l’etica del bien dire, cioè il tentativo di mettere in risonanza il tornaconto sintomatico con l’accordo della parola, e quindi nell’accerchiare, stringere, nel campo del sapere e della scrittura, quindi nel simbolico, ciò che non può dirsi, ciò che il sistema morale dominante, fondato in maniera difensiva sul compromesso tra cultura e natura, non permette di dire. La questione soggettiva di Cioran non è stata altra se non questo movimento continuo di ri-soggettivazione della «necessità» del passato storico in vista di una nuova «biografia», di una nuova «lingua» (forse più dimissionaria rispetto a quella romena), ossia l’eventualità per il soggetto di dischiudere nella parola un suo altro avvenire, una sua altra possibilità. La straordinaria opera di Cioran scritta in francese, ripubblicata da qualche anno nel prestigioso volume della Pléiade,è là per provarlo.
«Essere giusti» con Cioran non significa che questo: ascoltare l’enigma del soggetto, cogliere l’avverarsi di una vocazione e serbarne il suo segreto. Il resto riguarda la storia, la psicologia, la sociologia, e al limite il diritto. Per questo la questione scabrosa di quegli anni di Cioran in Germania deve rimanere aperta. Dopo Auschwitz – dice Cioran – nessuno è più innocente.


Giovanni Rotiroti
(n. 6, giugno 2013, anno III)