Alice dietro il muro delle meraviglie. Una pittrice abruzzese e le sue opere

Nel suo atelier di Mosciano S. Angelo, in Abruzzo, Alice (Adelina di Sabatino di Diodoro) mi apparve come un messaggero inatteso, però non meno abilitato e, quindi, performante, di un mondo definitivamente perduto; ossia disperso negli angoli della memoria e che lei, l’artista, con un’insopprimibile vivacità, si decise a trasferire in racconto. Perché comunque, diciamolo pure con Nietzsche, il mondo, attraverso dolorose metamorfosi – mistificatrici o no – è «finito» per diventare Racconto. Però come fare oggi a cogliere, nell’orizzonte della massificazione gratuita, qualcosa – essenziale e allo steso tempo valido, credibile – dell’essenza del mondo di ieri? Una via regale, in quanto verificata e, quindi, attestata sarebbe l’appello alla Memoria. Per ricordare che cosa? Il passato? Qualcosa di ciò che è già stato? Gli affreschi non sono nati con tale scopo? E poi, che cosa spinse l’uomo preistorico a incidere, sul muro nelle caverne oppure su pietre, ossa o sabbia calda sulla riva dei fiumi, figure e contorni, se non il desiderio-necessità di lasciare tracce? 
Il percorso artistico di Alice trova, credo, il suo assillo in questo stimolo-pulsione: di cercare inventando, creando e ricreando, nelle strie murali delle immagini-chiave che, mettendo in luce, possa offrire allo spettatore quali prove (ermeneutiche) della memoria di ciascuno e, prima di tutto, della Memoria; come animus e anima, referenti archetipici di Jung.

Nel suo atelier della località abruzzese (dove entrai in qualche modo intempestivamente e poco preparato), vissi all’improvviso la sensazione di uscire da un tempo (quello presente) per entrare, non in un altro tempo, bensì in altri / diversi tempi-mondo, tempi-cosmi. Da tutti gli angoli lo sguardo era letteralmente «colpito» da volti, figure, silhouette, occhi (soprattutto) dei quadri che conservano qualcosa dell’alone delle vecchie icone; tele (termine improprio in quanto, tecnicamente, la sua arte richiede il travaglio con pezzi di muro, con pigmenti e lastra, sabbia e intonaco) in cui il disegno, strutturato essenzialmente in grafica, abbinato ad un esemplare gusto della policromia, offre, con una disponibilità quasi miracolosa, delle linee infrante / ripide che sembrano ritrovate negli strati / strie murali e che intersecano, in maniera non meno miracolosa, dei volti che sembrano di essere stati lì da sempre e conservati così come sono; arte murale, quindi? Sì, in quanto l’artista si fa portare («manipolare») da essa, coscientemente e con un piacere non dissimulato; No, in quanto, prendendola come punto di partenza, filtra tutto, rimodella, ricrea e, alla fine, ci offre un universo esclusivamente suo. In più, in Alice le opzioni cromatiche, il gusto della distribuzione, sempre selettiva, mai fortuita, dei colori che si trovano in una concorrenza che ri-connota l’universo stesso conservato nella memoria, costituisce, a mio avviso, la sua piena scommessa: il forte vantaggio che la singolarizza allineandola nella grande tradizione abruzzese autonoma.
Muro, quindi: come ostacolo e allo stesso tempo apertura; punti di riferimento spaziale e nessi della Memoria; ferite (cicatrizzate) dell’Essere (come Dasein) che è passato, una o più volte, per le dogane dell’Oblio e che, adesso, grazie al gesto restauratore (fittizio, però, in quanto immaginario) dell’artista, non solo viene a galla, ma anche abbandona, per così dire, il suo ripostiglio, con tutto il dolore del gesto, come un animale inseguito che lascia la sua tana. L’atto artistico di questa italiana mobile e esuberante sarà un gesto recuperatore di un mondo, del Mondo che non c’è più ed è diventato Racconto? Per me, non c’è ombra di dubbio. Le meraviglie che scopriva l’altra Alice, grazie al talento di Lewis Caroll, nel suo «giardino», Alice di Mosciano S. Angelo (e di Abruzzo) le scopre, reinventandole, grazie al suo proprio talento, nel Muro, condividendole. E se le sue Madonne sembrano delle effigie di una femminilità umile, la loro pietà mi pare la prova indubitabile che la Speranza ancora c’è. E che essa deve essere comunicata. A tutti i costi. Perché, come ammette l’artista stessa, per lei il Muro e, quindi, l’Arte, significa comunicare.     


Passare per un muro

Per Alice

Passare per un muro è una specie di suicidio:
devi rinunciare al proprio volto ed essere pronto
a indossare diversi altri volti di chi, una volta,
anche se non sapevano le meraviglie del giardino
della famosa Fiaba, hanno dimenticato proprio lì
le loro impronte di mortali senza Memoria.
Le pieghe che vedete sono resti di sangue, resti di amore,
resti di dolore: prove di un rituale con il quale
noi ripercorriamo gesti, movimenti, abbracci in un
feedback di vicissitudini cristiane. Come se, qui,
nella radura che la mia mano la lascia nella materia
il pensiero murato e l’ombra della Madonna diventassero
la nostra ragione di affrontare i capricci di un destino smisurato.



   


 

George Popescu
(n. 2, febbraio 2013, anno III)