Incontro con Lea Contestabile e le sue installazioni artistiche

Una casa, da qualche parte in Aquila, trasformata in atelier, o viceversa; dappertutto i segni, come tracce ancora calde, di un travaglio artistico che non tradisce i suoi limiti: quadri più vecchi, olio su tela, acquerelle, disegni, nature morte, lavori sconvolgenti non solo per le loro dimensioni, ma anche per una scala cromatica densa e plurale, con una preferenza visibile per le tinte scure, nero, ad esempio, o rosso terra. Tra loro, molto mobile – e volubile – nella sua fragilità di dea ferita, Lea Contestabile indica, in fretta, le tappe; come il corridore fermatosi poco prima della linea d’arrivo a contemplare, con un pubblico benevole, le tappe percorse di una gara-viaggio: l’esistenza stessa. E, verso la fine, da qualche parte al pianterreno trasformato in laboratorio dove sperimenta i suoi sogni e incubi, come nella scenografia di uno spettacolo dal vivo, segni-residui di una ricerca con forti aloni iniziatici: tele, cartoni, carte di tutte le dimensioni e tinte, strumentario di antico artigiano della campagna pronto a tagliare, incollare, aggiungere, rifare, buttare. E foto. Vecchie. Molto vecchie. Ordinate secondo le strutture (mentali e affettive) ancora dissimulate. Sono i volti dei compaesani dell’artista, di Ortucchio, il suo paese natale, non lontano da Aquila, immortalati da suo padre, il primo fotografo del villaggio. Ivi portate, assieme a molti altri arnesi, strumenti, resti di un’esistenza quasi scomparsa.
Conservate nelle loro vesti rudimentali, queste foto hanno il fascino particolare dei frutti di bosco e dei fiori di campo: la ragazzina con volto sereno e un sorriso grave – l’artista stessa, poi la madre, i vicini, le vicine, il falegname, il barbiere, il fabbro, centinaia e centinaia di identità perdute che sembrano gridare, da quella carta fotografica a basso prezzo, il rischio della dissipazione nel vuoto dell’Oblio. Mentre io, povero Dante senza Virgilio, perduto in questo Purgatorio di un ricordo che potrebbe benissimo essere mio, sono colpito dalla rivelazione di un pensiero che mi scopre, così, la dimensione di quell’avventura di un’artista eccezionale: far rivivere un mondo comunitario, familiare, attraverso lo sforzo doloroso di tornare alle radici e di portarle (mondo, famiglia, radici) alla luce del presente con gli artifici miracolosi dell’arte. Con la sua esperienza didattica universitaria, con i suoi vari sperimenti spettacolari (teatro-musica-poesia), Lea Contestabile ha fatto la prova suprema del sincretismo artistico ed è arrivata, naturalmente, organicamente, a un modello in cui sembra iscrivere il suo stesso messaggio testamentario: l’installazione artistica. Ciò richiede, in un ordine aleatorio, scelta (di foto), lavorazione tecnica dello strumentario di modo che le immagini diventino contorno-profilo, con un’identità nascosta, di solito in negativo, proiettate però in una struttura visuale, con la silhouette, anch’essa appena distinguibile, dell’artista stessa in centro, mentre nel «paesaggio» ci sono quella del padre, della madre, della sorella, del falegname, del fornaio, del fabbro e così via.                     
Sconvolgente opzione artistica, temeraria – se non proprio liminare – avventura assunta da Lea Contestabile, di risuscitare, dalla cellulosi appassita di alcune foto vecchie, il mondo di una comunità rurale, ora trasportato, come memento, con un codice di ombre soltanto, nel gioco misterioso di una trasparenza-opacità. Gioco di luci e ombre, ossia di ombre proiettate-riproiettate, sul filo di una memoria operante con i filtri di un cuore generoso, à rebours, la radice, ovvero l’identità perduta. Gioco, quindi, della memoria e della rimembranza: Giano bifrons che guarda al passato come ad un paradiso oramai dissoluto e allo stesso tempo guarda, come in un abisso, ad un futuro che non è altro che il passato stesso.    




Dell’inconveniente di sentirti orfano

Per Lea Contestabile

E d’improvviso mi son svegliata vicino alla più santa luna,
a casa, dove l’erba e la terra mi sanno il parlato.

«Non esiste gioia senza dolore»: così mi sussurrava
il lillà selvatico nel quale mi sono germogliati
i primi desideri, quegli stellari, come quello di affiorare
l’eternità di un attimo sacro, con il padre nel mezzo di una schiera d’’angeli.

«Esiste sofferenza»: così mi parla
il mio vecchio grillo che accompagna le mie insonnie
– l’ombra e testimone del mio litigio con me stessa.

Quanto futuro, guardate queste foto: i miei ricordi
della vita che fu con volti anneriti dal tempo
trasfigurati nella memoria dalla quale si è perso
il profumo dell’erba, il calore del pane fresco appena uscito
dalle mani della madre riscaldando la gioia della vecchia casa:

il futuro non c’è più qui – è oltre la carta fotografica
nella densa nebbia del mattino la quale vi supplico di battezzarla
col mio nome: Lea Contestabile come una costellazione fugace
sul cielo di un Abruzzo che lo regalo alla vostra immaginazione.








George Popescu
(n. 7-8, luglio-agosto 2014, anno IV)