Ion Vinea, estetica del paradiso disperso

Ion Vinea è passato alla storia della letteratura romena non solo come un classico della modernità, singolare per la sua volubilità stilistica, ma anche come animatore e fulcro della nostra prima avanguardia. La rivista «Contimporanul» da lui diretta (1922-1932) diventa la principale rampa di lancio e di sincronizzazione europea degli scrittori e degli artisti romeni a scapito dei modelli esausti o inquinati da ossessioni nazionalistiche, ruraliste, ortodossiste ecc. Persino gli echi del futurismo italiano possono essere individuati nei manifesti pubblicati su «Contimporanul», in quanto l’arte del passato, provinciale e languente, viene respinta in nome del vitalismo, delle nuove emozioni e sfide tecnologiche. Questa risurrezione/rivincita dell’uomo (unanime), antisentimentale e protagonista delle grandi metropoli ha ispirato anche il giovane Ion Vinea, tanto nel suo Manifestul activist către tinerime (Manifesto attivista per la gioventù), quanto nelle poesie Soliloquio, Adamo, Whisky-Palace, Porte-voix ecc.
Fatto sta che accanto a noti scrittori romeni come B. Fundoianu, Ilarie Voronca, Ion Barbu, Geo Bogza, in «Contimporanul» troveremo anche autori stranieri di fama mondiale come Paul Eluard, Philippe Souppault, Robert Musil, Joyce, Trakl, mentre il direttore della rivista tiene assidua corrispondenza con membri dell’avanguardia europea (compreso F.T. Marinetti). Numeri speciali saranno dedicati all’architettura, al cinema, alle arti plastiche; (in) quest’ultima sede (facendosi notare) farà risaltare giovani artisti come Brâncuşi, Victor Brauner, Marcel Iancu.
Tornando al poeta prodigo Ion Vinea, possiamo dire che i suoi testi lirici plasmati da ritmi, incanti e stilemi ipnotici sembrano trarre origine da una profonda e dolorosa contemplazione del mondo, illuminata quasi da un astro che oscura più che rischiarare. La sua poesia può essere paragonata a ciò che Jean Pierre Richard chiamava «une entreprise abyssale» nel momento in cui mette a fuoco un universo misto di semitoni e chiaroscuri che focalizza cordoglio e lutto.
L’infanzia, i ricordi, il paesaggio, l’armonia, l’amore sembrano inesorabilmente minacciati. Una sorta di paura estatica spira nella poesia di Ion Vinea in vocaboli inerenti al repertorio della disfatta e del pentimento; se ne avverte quasi un’osmosi profumata di melodioso esilio, di vertigine e d’elegia.
L’immaginario di Ion Vinea non poteva sfuggire alle malattie dello spirito (un «mal du siècle» redivivo), soprattutto a quelle più appariscenti tra le due guerre, tanto in Romania quanto in Europa: la sconfitta e lo spavento esistenziale, il vuoto storico, lo smarrimento ontologico. I costrutti canori elaborati dal poeta si riproducono su un fondamento di discontinuità rivelatrice che spinge a invocare la ragione a cedere davanti all’avvertita avventura metafisica. Se gli accenti patetici di alcune confessioni un po’ teatrali sembrano rappresentare il tributo pagato ai grandi poeti della sua generazione (Tudor Arghezi, Lucian Blaga, Ion Pillat, George Bacovia ecc.), l’originalità dell’autore di un testo poetico come Paradiso disperso si avverte nel canto che impaurisce e vibra di presagi, brividi e iettature. La poesia di Ion Vinea è la monografia del deserto dei propri sogni defunti, celebrati negli accordi di un incessante pianto interiore.

Nato il 17 (o 30) aprile del 1885, Ion Vinea non fece in tempo a sfogliare il suo volume di versi Ora fântânilor (L’ora delle fontane), uscito qualche giorno prima della sua morte (luglio del 1964). Dopo gli studi di Diritto a Bucarest e Iaşi, preferirà «far nascere» giornali e riviste nonché di essere presente quasi quotidianamente sulla stampa del tempo, divenendo uno dei più temibili polemisti e pamphlettisti accanto a Tudor Arghezi e N.D. Cocea. Quindi, a soli 17 anni fonda insieme a future celebrità, Tristan Tzara e Marcel Iancu, la rivista «Simbolul» dove verranno stampate le sue prime poesie. In realtà, la sua vera carriera di «manager» di periodici raggiungerà il vertice con la pubblicazione nel 1922 della rivista «Contimporanul» che durerà fino al 1932 quale organo del «costruttivismo». Nel 1920 Ion Vinea riceverà in consegna da parte di N.D. Cocea il quotidiano «Facla», che porterà avanti fino al 1940 quando verrà sospeso dalle autorità.
Malgrado l’annuncio nella propria rivista (n. 64, 1924) dell’imminente uscita di un suo volume di versi, La morte di cristallo (con incisioni di Marcel Iancu) il poeta non si curerà di realizzare quel progetto. Il prosatore invece lo farà con Paradisul suspinelor (Il paradiso dei sospiri), libro che verrà considerato dal critico, poeta e editore Perpessicius un «breve romanzo selenico». Se dello stesso prosatore esordiente, il famoso critico e storico letterario G. Călinescu dirà che è un «surrealista», un «promotore dell’assurdo» e al tempo stesso dell’estetica «dell’autenticità», l’autore dei testi lirici, conosciuti solo dalla stampa, viene considerato un elegiaco le cui modulazioni e litanie sono «smaltate e cedevoli come i componimenti dei giapponesi». L’estetismo crepuscolare, delirante, affine a quello di Barbey d’Aurevilly, Huysmans, Villiers de L’Isle Adam, che verrà a ispirare il secondo romanzo, Lunatecii (pubblicato postumo), sarà complemento alla disperazione lucida della poesia, diario di un solipsismo in parte inspiegabile e gratuito, se si tiene conto del fascino secolare e mondano dell’uomo Vinea.
Caratterizza la tensione spettrale verso l’abisso la poesia Gemito, fuga impietrita nell’incubo del lutto e dello sfinimento: «Non trovi in me nemmeno uno strido/ che oltrepassi al di là di te,/ la pietra sia pietra e la quiete/ un mare immoto di sospiri,/ e sia vero che l’eternità/ si fosse già distesa tra noi due/ mentre il cordoglio sfascia il proprio lamento/ qual vento evaso tra gli alberi spogli,/ che non ci sia via di ritorno?»
Questo flusso di prosodia opprimente e nel contempo musicale scandisce un climax spirituale fatto d’allarme, ansietà, malessere. Dappertutto sibilano sussurri di cospirazione, disgrazie, malauguri della sorte e della natura contro la felicità della coppia. Dolorante come un sacro voto infranto, come un inabissarsi dentro una preghiera rinnegata per apostasia, la poesia di Ion Vinea è un crescendo graduale di rammarichi quanto più tardivi tanto più vani rispetto al contrattempo devastatore, allo sfasciarsi degli affetti e allo straniarsi della coppia nel ghigno agghiacciante dell’eternità: «…perché lasciasti/ la culla del sonno cullarci/ognuno di noi d’un sogno diverso…» (Rimproveri). Lo staccarsi dei due cuori è uguale alla morte stessa del nuovo essere fondato una volta dagli amanti. Il grido di rivolta è colto in sordina dal poeta che, prigioniero di una solitudine orgogliosa e di un’assillante lucidità, si rende conto della lotta ineguale tra un assoluto sovrumano e indecifrabile e un velleitario aspirante incapace a decifrarlo: «Sparge bisbigli e cenere/ il paradiso perduto./ Non ho saputo, non ho saputo/ Scacciar il pensiero, – ubbidire alla sorte./ Alle bianche mani/avessi dato le mie tempie/ alle bianche mani./ Presso i trofei sfioriti/della solitudine/sono oggi il vincitor intenebrato,/ intenebrato». (Vittoria).
Il montaggio di una prosodia classica mista a versoliberismo viene percepito quale necessità espressiva susseguente ai connotati lirici, alla melopea medianica, agli emblemi dell'esilio, come per esempio il testo intitolato Tuzla: «Onda pallida, scogli arsi,/ villaggio blu in un anello di calce/Le donne del lido dal viso di corallo/per strass e belletto si danno./ Vorrei restarmene a Tuzla/ presso i walzer morti nella casa bianca,/ che parton gli scolari rachitici/ e sulle spiagge sanguina il papavero,/ coagulo espulso nel frale meriggio./ La sera fa segni dal faro/ sopra le vaghe trombe di acqua/ che tornano i pescatori con stelle sulle mani,/ e passano i piroscafi e i pianeti”.
La risonanza del cuore del poeta si racchiude come in una conchiglia marina nel Declino, un monologo quasi liturgico, come anche in tant’altre poesie, che stanno dialogando simpateticamente con il fantasma del poeta romano Ovidio, mandato al confino dal potere imperiale a Ponto Eusino: «In margine al mare di lutto e lungo/ l'estinte orme dei miei smarrimenti,/ lungo i gemiti secoli fa dannati sott'astri/ a Ponte Eusino scacciato con pensiero e col vuoto…».
Ritagliati nell'illimitato crepuscolo universale e unici nella storia della poesia romena sono i suoi paesaggi marini, altrettanti autoritratti (benché il protagonista sia il grande esule Ovidio) e al tempo stesso quadri metafisici (Tomi, Tristia, Nauta, Desio di mare). Una singolare bellezza contraddistingue anche alcune icone della provincia transilvana e dobrugiana (La casa di Mangalia, Sighişoara, Viso ecc.)

Tornando alla metafora centrale della sua poesia – il paradiso disperso – e visto il perpetuo altalenarsi tra ribellione e perplessità, tra slancio d'angelo caduto e profondo scoramento, tra vanitosa insorgenza ed espiazione, possiamo credere che la stessa esistenza dell'incontaminata terra promessa non fosse altro che fatua illusione se non fatale disinganno. Ora e nell’ora della nostra morte, il poeta prega per addolcire il tormento delle persone separate, dei prigionieri e dei proscritti, murato vivo nella torre di veglia, in un gesto di scongiuro di promesse mancate: «In un finale estremo delle ore morte/ alta e aspra la torre ingrandì/ giorno per giorno, notte per notte/ imprigionandomi./ Vi veglio da solo. Nessun suono. Il mondo da me è lontano./ La voce grida nel deserto/ i sogni dove sono? dove le fonti? dove sei, mamma?/ Il pugno colpisce invano la pietra./ Chi, il colpevole? Chi mi divide?/ Nessuno mi sente. Nessuno mi chiama./ È tardi. La torre nella notte s’accresce» (Avorio).
Nelle notti illuminate da questo «Aldebaran della poesia romena», per citare le parole di Geo Bogza (famoso negli anni Trenta tanto per il suo Poema-invettiva quanto per il manifesto letterario Esasperazione creatrice), dovremmo recitare i versi di Ion Vinea ogni qual volta ci ritroviamo a Tomi, oppure nel Vicolo cieco, sul Rogo, sulla Soglia, e soprattutto quando sentiamo Pianto di Campane nell’Ora delle fontane.



Geo Vasile
(n. 2, febbraio 2016, anno VI)