Arşavir Acterian, profilo e ricordi di un amico di Emil Cioran

Arşavir Acterian è stato protagonista e testimone diretto della tânăra generație, quella giovane generazione di scrittori, filosofi e teologi che nel periodo interbellico si formò sui banchi dell’Università di Bucarest, sotto l’influenza carismatica di Nae Ionescu. Costui fu docente di metafisica e di logica, e sebbene non abbia lasciato alcun’opera scritta, il suo insegnamento eminentemente ʻoraleʼ plasmò profondamente la Weltanschauung antimoderna e antipositivista di molti suoi studenti.

Biografia di un sopravvissuto

Arşavir Acterian nacque a Costanza nel 1907 da una famiglia di origine armena. La madre era originaria di Kayseri, città della Cappadocia da cui emigrò per installarsi successivamente nella regione romena della Dobrugia. Il padre, Aram Acterian, lavorò come commerciante di cereali nella città portuale del Mar Nero. La minoranza armena, insieme agli ungheresi, ai tedeschi di Transilvania e del Banato, agli székely, agli ebrei e alla comunità rom, costituisce ancora oggi un tassello importante di quel mosaico multilingue che contraddistingue la storia della Romania.
Arşavir frequentò la scuola evangelica della sua città natale, per proseguire gli studi presso il Liceo «Spiru Haret» di Bucarest. Qui conobbe Constantin Noica, con cui condividerà, nel 1960, la condanna a diversi anni di prigionia. Si iscrisse successivamente alla Facoltà di Legge, laureandosi nell’Ottobre del 1933. Durante il periodo universitario entrò in contatto con Mircea Eliade, Eugen Ionesco ed Emil Cioran, i protagonisti dell’esilio culturale romeno. Prese parte alle riunioni dell’Associazione degli Studenti Cristiano-Ortodossi, dove conoscerà Mircea Vulcănescu, filosofo d’ispirazione cristiana morto in carcere nel 1958, e Nae Ionescu, figura controversa ma fondamentale per la formazione culturale della generazione interbellica. Negli anni ’30, come molti tra gli esponenti dell’associazione Criterion, simpatizzò per la Legione dell’Arcangelo Michele, senza però intervenire pubblicamente a sostegno del movimento guidato da Codreanu. Arşavir crebbe in una famiglia che contribuì notevolmente alla vita culturale bucarestina. Suo fratello, Haig Acterian, fu uno dei principali riformatori della drammaturgia romena, regista e direttore del Teatro nazionale di Bucarest. Dalle simpatie giovanili per l’ideologia socialista, finì in seguito per aderire al movimento legionario, ricalcando in questo un iter personale simile a quello di Petre Ţuţea, altra notevole figura della generazione del ’27. Sposato con l’attrice Marietta Sadova, Haig scrisse due importanti opere dedicate al teatro romeno: Pretexte pentru o dramaturgie românească (1936), După un veac de teatru românesc (1937). Dopo essere stato imprigionato agli inizi degli anni ’40, muore nel 1943 sul fronte russo, durante la seconda guerra mondiale. Nel 1991, Arşavir pubblicherà il diario personale del fratello, Cealaltă parte a vieții noastre.
Jeni Acterian, la sorella minore, studiò Lettere e Filosofia a Bucarest, sotto la guida di Nae Ionescu; lo scoppio del secondo conflitto mondiale le impedì di trasferirsi a Parigi per proseguire gli studi di dottorato. Nel 1947 si iscrisse al corso di regia del Conservatorio di Arte drammatica. Visse un’esistenza difficile, segnata prima dalla depressione e poi da una malattia degenerativa che la colpì negli ultimi quattro anni di vita. Morì molto giovane, a soli 41 anni. Sempre nel 1991 Arşavir renderà nota una raccolta di scritti, dal sapore diaristico ed intimista, che Jeni compose tra il 1932 e il 1947. Jurnalul unei ființe greu de mulțumit, questo il titolo dell’opera, offre uno spaccato della vita culturale romena di quel periodo, oltre a rivelare una personalità complessa ed intelligentissima, combattuta tra la ricerca dell’amore e uno scettico disincanto della vita. Cioran, nella corrispondenza epistolare con Arşavir Acterian, ricorda più volte l’enigmatica figura di Jeni, con quel misto di nostalgia e ammirazione che si prova dinanzi a un grande destino fallito.
L’esordio letterario di Arşavir avvenne soltanto dopo la caduta del regime di Ceaşescu, quando nel 1992, all’età di 85 anni, pubblicò il suo primo libro. Prima di questa data Acterian collaborò con diverse riviste letterarie, pubblicando articoli e saggi già a partire dagli anni ’30. Nel periodico «Fapta» pubblica alcuni interventi, tra cui ricordiamo una recensione al libro di Aldous Huxley Countrepoint, l’articolo Rădulescu-Motru și misticismul ed una critica alla posizione espressa da Nae Ionescu verso il cattolicesimo in Romania (D-l Nae Ionescu și catolicismul). Nella rivista «Axei» compare un articolo dal titolo Homo americanus, dedicato all’opera omonima di Petru Comarnescu, uno dei principali promotori dell’intensa attività culturale di Criterion. Nel 1935 («Ideea românească») e nel 1936 («Ani») pubblica un breve scritto dal titolo Despre originea lui Mihai Eminescu, in cui sostiene che il grande poeta romeno avesse origini armene. Nel ’37, su «Veac Nou», esce Visul lui Decartes, una recensione al libro di Constantin Noica, Viața și filosofia lui René Descartes.

La detenzione nelle carceri comuniste

L’evento determinante per l’esistenza di Acterian fu la detenzione nelle carceri comuniste, in cui trascorse diversi anni della propria vita. L’invasione sovietica della Romania, e la conseguente instaurazione del socialismo romeno, coincise con la repressione dell’élite culturale del paese. La prima condanna, di tre anni, avvenne nel 1949. Uscito dal carcere si reinserì nella vita sociale di Bucarest non senza difficoltà, lavorando prima come antiquario e libraio, poi come analista di dati statistici presso il centro di ematologia della capitale. A seguito della rivolta anticomunista scoppiata in Ungheria nel 1956, il governo romeno aumentò la pressione su tutti gli individui sospettati di trascorse simpatie filo-legionarie. Il 24 febbraio 1960 debuttò il processo «Noica-Pillat», meglio noto nei documenti ufficiali come «processo agli intellettuali mistico-legionari». Oltre al nome di Noica compariva quello di Dinu Pillat, autore di un’opera creduta persa, poi rinvenuta e pubblicata nel 2010 (Aşteptând ceasul de apoi), che gli costò la prigione. L’azione repressiva, in realtà, colpì indiscriminatamente il mondo intellettuale romeno: tra i condannati, difatti, figuravano anche Alexandru Paleologu e lo stesso Pillat, da sempre su posizioni antilegionarie, come anche Nicolae Steinhardt e Beatrice Strelisker, romeni di origine ebraica che non avrebbero certo potuto simpatizzare con l’accesso antiebraismo della Legione di Codreanu. Acterian fu arrestato per una seconda volta il 12 settembre 1958, e liberato nel luglio del ’64 dopo una condanna iniziale a 18 anni di lavori forzati.
Con il crollo del regime ceauşista, Arşavir Acterian cominciò la pubblicazione di scritti in parte inediti, in parte precedentemente apparsi sulle riviste culturali del periodo interbellico. Dopo il 1997, anno della morte di Acterian, ulteriori edizioni videro la luce presso diverse case editrici romene. Nel 1992 l’autore debutta con due opere: Jurnalul unui pseudo-filosof e Privilegiați și năpăstuiți. Quest’ultima è una raccolta di ricordi che evocano amici e protagonisti della vita culturale bucarestina degli anni ’30. A distanza di un paio d’anni compaiono due scritti di carattere religioso (Cum am devenit creștin e Jurnal în căutarea lui Dumnezeu), in cui l’autore ricorda l’incontro con la fede cristiana avvenuta nei dolorosi anni della detenzione. In quel periodo anche Nicolae Steinhardt visse un processo interiore simile a quello di Acterian, abbandonando la fede mosaica per abbracciare la vita monacale del cristianesimo ortodosso. Nel 1996 viene pubblicato Despre mirare, un libro dedicato al fenomeno della meraviglia quale chiave rivelatrice del mistero dell’esistenza, e Portrete și trei amintiri de pușcăriaș, in cui Acterian ricorda la liberazione dal carcere.
Dopo l’edizione di Neliniștile lui Nastratin, una raccolta di pagine di diario che vanno dal 1967 al 1982, nel 2002, a cinque anni di distanza dalla morte di Acterian, viene pubblicata una crestomazia dedicata a Nicolae Steinhardt (Amintiri despre N. Steinhardt), l’autore che in Jurnalul fericirii ci ha lasciato un vivido ricordo dell’esperienza carceraria nella Romania comunista. L’anno seguente, la casa editrice Eikon di Cluj presenta una raccolta di scritti che Acterian dedicò ai tre grandi esuli romeni, inclusa anche la corrispondenza epistolare con Cioran e un breve schizzo autobiografico (Cioran, Eliade, Ionesco). Nel 2006 è la volta di Corabia nebunilor, raccolta di pagine scritte tra il 1929 e il 1945 e ristampate nel Jurnalul (Diario) che Humanitas pubblicherà nel 2008: quest’opera riunisce per la prima volta gran parte del materiale edito in precedenza da Acterian. Nello stesso anno compare sugli scaffali delle librerie romene Intelectualitatea interbelică între ortodoxie și tradiționalism, arricchito dall’interessante articolo Criterioniștii – pagini de jurnal despre o generație pierdută.

Qui di seguito presentiamo la traduzione di Amintiri despre Emil Cioran, un ritratto dell’amico che Acterian scrisse attorno agli anni ’90: in esso rivivono i ricordi di un’antica amicizia che il tempo e la distanza geografica non sono riusciti a spegnere. Una longeva corrispondenza epistolare, che va dal 1933 agli inizi del 1990, ha mantenuto saldo il legame di prietenie (amicizia) tra i due vecchi studenti dell’Università di Bucarest. Acterian, tra le diverse testimonianze contenute in questo breve scritto, rievoca l’incontro con Cioran avvenuto nella biblioteca di Bucarest, la frequentazione dei simposi di Criterion e quell’eloquio «straripante» che ha sempre contraddistinto l’aforista di Raşinari.


In ricordo di Emil Cioran

Emil Cioran è stato uno degli amici con cui negli anni ’30 mi intendevo meglio, con cui condividevo pensieri e amarezze di ogni genere, pareri sui libri e sulla vita sotto il peso delle nostre piccole e grandi inquietudini, le quali a volte piombavano nella disperazione. Ci preoccupavamo intensamente di trovare un motivo all’ineluttabilità della sofferenza e della morte, cercando di convincerci reciprocamente che questa vita, a dispetto di tutti i suoi piaceri, i suoi godimenti, le sue gioie, le sue scoperte e le sue sorprese, non avesse alcun senso, che le persone nascono, crescono e muoiono – consapevolmente o meno – sotto il segno della precarietà, della fugacità, della fragilità e della vanità. Ci confidavamo l’un con l’altro, consolandoci nelle nostre conversazioni di tutto l’osceno, l’orrido, della decadenza che vedevamo e che ci spaventava come fosse un viso mostruoso. Di tutti i nostri dubbi e delle nostre incertezze (il massimo della follia – direte) ne facevamo una specie di convinzione – se si può dire – una forma di assoluto che, invece di confortare e rassicurare la mente, la svuotava.
Notai Cioran nella sala grande della Biblioteca della Fondazione Carlo (la Biblioteca Universitaria), dove ogni giorno trascorrevo alcune ore sfogliando libri, leggendo intensamente per scoprire – per così dire – il senso della vita e per chiarire il motivo essenziale della fatica e dello sforzo di vivere, della noia e del disgusto che in quel periodo molto spesso mi invadevano. Non volevo certo passare per una persona intelligente, non cercavo di impressionare nessuno. Mi sforzavo di trovare una via d’uscita dall’impasse in cui mi trovavo, dalla miseria di cui spesso mi compiacevo, dall’abisso in cui sprofondavo ogni giorno di più.
Il viso di Emil Cioran nella sala di lettura mi impressionava per il disgusto che vi era impresso. Si avviliva e osservava tutto con disprezzo. I suoi sguardi e i suoi gesti esprimevano un profondo senso di malessere. Sembrava determinato a non voler uscire dal proprio isolamento. Incontrandolo sempre nello stesso posto e con la solita espressione che lo distingueva dal resto dei frequentatori della biblioteca, ha cominciato a suscitare il mio interesse. Un giorno la curiosità mi ha spinto ad essere indiscreto. Ho voluto in qualche modo sapere che cosa leggesse quest’uomo, e ho dato uno sguardo ad una delle schede di lettura che di solito, invece di appoggiare, gettavamo sulla scrivania del direttore (allora i direttori erano il professore di filosofia Mircea Florian, i poeti Ion Al. Gheorghe, Mândru e a volte Tzigara Samurcaş). Con difficoltà sono riuscito a decifrare quella grafia confusa, dall’aspetto diradato, si direbbe una scrittura da nichilista. Cercava alcuni studi kantiani ed un’opera di Barres – Du sang, de la volupté et de la mort.
Non ricordo come e quando ci siamo conosciuti, ma sin dal primo momento ci siamo trovati d’accordo su tutti gli argomenti trattati. Dopo un po’ di tempo ho cercato di introdurlo nella cerchia di alcune mie conoscenze di allora, tra cui Emil Botta, Eugen Ionescu, Constantin Noica, Ştefan Ion George, Barbu Brezianu ecc. Non ci sono riuscito che in parte. I miei amici gli sembravano troppo introversi.
Quando non ci vedevamo in biblioteca, o quasi giornalmente in Calea Victoriei (tra Corso e Capşa), capitava che venisse lui da me o che io lo cercassi nello studentato in cui abitava (accanto alla chiesa e alla scuola evangelica), nelle cui stanze pareva di respirare tristezza e povertà. Era vestito in maniera sobria ma tutto sommato noncurante, con abiti dai colori scuri, tristi, senza alcuna preoccupazione particolare per ciò che considerava esteriore, privo di interesse per la sua attenzione. Emil – con un vago accento transilvano, figlio di un prete nelle vicinanze di Sibiu – aveva un eloquio straripante, a volte esplosivo, e un’espressione decisa, fulminante.
Il suo libro Pe culmile disperării (Al culmine della disperazione), premiato dalla casa editrice della Fondazione Reale, in breve tempo lo ha reso noto al mondo letterario. Nelle riunioni della gioventù di allora, come ai simposi di Criterion, le sue affermazioni esplosive lasciavano di stucco. I suoi punti di vista, solitamente pessimisti, stupivano o irritavano, suscitavano disorientamento piuttosto che entusiasmo tra tutti coloro che si sforzavano di classificarlo, come teosofo oppure cristiano, come un erudito, un poeta o un arrivista, di destra, di sinistra o di altro orientamento plausibile. Emil Cioran si distingueva e si faceva notare eludendo qualsiasi classificazione. Lesse con passione e sete insaziabile filosofia e poesia. La sua cultura e i suoi modi di fare dinamitardi hanno conquistato l’ammirazione, la simpatia, l’apprezzamento e di fatto l’amicizia di alcuni tra i rappresentanti della generazione di allora, come Mircea Eliade, Mircea Vulcănescu, Petru Comarnescu, Petre Pandrea, Petre Ţuţea, Haig Acterian, con cui ha mantenuto solidi legami di amicizia. Per quel che mi riguarda, una cosa che mi ha conquistato di Emil Cioran e mi ha avvicinato a lui, è stata soprattutto l’integrità morale, la lealtà, la correttezza. (Cioran era un ateo intransigente, ma al contempo un avido lettore di opere mistiche, proprio come Nietzsche e Lucian Blaga, tutti e tre figli di preti, ma allo stesso tempo convinti anticristiani).
Cioran ad un certo momento ha vinto una borsa di studio per Berlino, da dove mi scriveva piuttosto spesso. La nostra corrispondenza epistolare, sia al momento di lasciare Raşinari sia in Germania, o molto più tardi, quando ha ottenuto un’altra borsa di studio per Parigi, rifletteva le nostre inquietudini e le nostre scoperte di quel periodo. Col passar del tempo queste missive sono in buona parte andate perse. Che peccato! Erano lettere che coglievano ed esprimevano direttamente, in modo più semplice e autentico, i pensieri e i sentimenti del perenne disperato che è stato ed è Emil Cioran.
Preso dalle mie numerose sofferenze e inquietudini, per un bel po’ di tempo non ho più coltivato l’amicizia con Emil Cioran, che a sua volta si creò un cerchio di amici con cui parlava di tutto. Ne ho nominati alcuni più sopra. Un’amicizia appassionata è nata in quel periodo tra Sorana Ţopa e lui. Entrambi di temperamento impetuoso ma con visioni della vita differenti (l’una krisnamurtiana e proselitista, l’altro nichilista), le loro discussioni devono essere state affascinanti per chi le avesse ascoltate.
Emil Cioran aveva il culto dell’amicizia. Credeva che la vera amicizia fosse quella che superasse facilmente qualsiasi incomprensione, qualsivoglia differenza di idee e di ideali. Ho verificato personalmente questa notevole qualità di un vero amico. Era il periodo in cui cercava un editore per la stampa del suo libro Lacrimi şi Sfinţi (Lacrime e Santi). Presentò il manoscritto alla casa editrice «Vremea» che – per ragioni allora poco chiare (Cioran era un prezioso collaboratore della rivista «Vremea») – esitava a rispondere. Il motivo era che questo manoscritto conteneva delle considerazioni anticristiane, con attacchi irriverenti verso Gesù e la Madonna. Gli editori credevano di commettere peccato contro la propria fede nel momento in cui avessero stampato, presso la propria casa editrice, un’opera del genere.
Ero in un momento in cui mi impegnavo a divenire cristiano, che difatti già ero, ma non a sufficienza. Smisi di avere indulgenza verso il «nitzschianesimo» del mio amico, ma fedele all’amicizia non ho detto agli editori né si né no, lasciando a loro la decisione. In quel periodo ero segretario di redazione della rivista «Vremea» e Cioran mi pregò di intervenire a favore della pubblicazione dell’opera in questione. Lealmente gli ho confidato che non mi sarei dato da fare e non gli ho nascosto le mie ragioni. Ma gli ho promesso che non sarei intervenuto né positivamente, né negativamente a riguardo. Ho avuto l’impressione che la mia riserva non sia piaciuta a Cioran, avvertendo invece che ne era rimasto contrariato. Ma non mi ha portato rancore per questo. È qui che vedo l’onestà e la bellezza del suo animo.
Per mezzo di altri amici che esercitavano una grande influenza sulla casa editrice, ha cercato caparbiamente di convincere gli editori, ma tutti i tentativi sono stati inutili. Un favore è stato concesso, però. Dato che il manoscritto era già pronto per la stampa – nel frattempo uno dei tipografi aveva fatto notare ai titolari le ingiurie dell’autore – il testo è stato riconsegnato a Cioran, per farlo eventualmente pubblicare presso un’altra casa editrice, cosa che ha fatto.
In questa circostanza ho avuto l’impressione che il disperato e nichilista Emil era francamente in condizione di lottare – con una tenacia di cui non l’avrei ritenuto capace – per vedere stampata l’opera, come se questa impresa fosse stata di suprema importanza, e senza la quale non si potesse vivere. Mi è sembrato che la letteratura, l’orgoglio di avere un libro stampato, molto spesso possa costituire un conforto nella manifesta vanità di questa vita e di questo mondo.
Nel periodo compreso tra due partenze verso l’estero, Emil Cioran – mosso da un sincero entusiasmo per il destino romeno – ha scritto Schimbarea la faţă a României (Trasfigurazione della Romania), un’esplosione di orgoglio in cui avrebbe voluto che il genio romeno venisse proiettato su uno sfondo occidentale, aspirando alla grandezza e alla megalomania. In quel periodo ho scritto su «Vremea», a margine di questo libro, alcune considerazioni che tratteggiavano un’altra visione, distinta da quella di Cioran. Mentre quest’ultimo si batteva per una realizzazione temporale e una gloria storica, io presagivo un’altra comprensione del destino romeno, sotto il segno dell’anonimato e della volontà di perfezionamento spirituale, per mezzo di virtù quali la tranquillità e l’umiltà, in una percezione della vanità delle realtà mondane. Proprio nella rivista in cui pubblicai un mio modesto intervento a riguardo, gli ammiratori di Cioran di quell’epoca mi hanno condannato senza pietà.
L’autore di Schimbarea la faţă a României ha inoltre pubblicato in lingua romena Cartea amăgirilor, oltre ad un gran numero di saggi in diverse riviste quali «Mişcarea», «Gândirea» (sebbene non avesse nulla in comune con lo spirito della rivista), «Vremea», «Calendarul» ecc.
L’ho visto per l’ultima volta verso il 1939, prima della sua partenza definitiva per Parigi. Da quel momento è cominciato il destino francese di Emil Cioran. Con la sua passione per i libri – era e resta un accanito lettore – e con la tenacia che lo caratterizzava, il nostro romeno partito da Raşinari ha penetrato come pochi altri i segreti più nascosti della lingua francese, arrivando a scrivere con ricchezza di sfumature e grande raffinatezza, con una precisione e una chiarezza eccezionali, sorprendendo gli scrittori francesi per la bellezza e la finezza dello stile. Il clima francese ha fatto bene al suo genio letterario. Tra le idee espresse nei libri scritti in lingua romena e quelle cui ha dato voce in francese, non c’è una grande differenza, se non in termini di nuance e di essenze, che con cura esemplare ha stillato fino al termine della vita.
Il transilvano – campione della disperazione e teorico della decomposizione (di cui ha scritto anche un «trattato») – si è allontanato dal proprio paese verso cui ha nutrito, per breve tempo, un’ambizione smisurata – suscitando questa separazione il risentimento di molti suoi connazionali – ma i suoi pensieri sono tornati con nostalgia verso i luoghi natali, verso Raşinari, Sibiu e le zone circostanti.
Ecco una testimonianza, tra la molte altre ugualmente significative, tratta da una lettera inviata da Dieppe il 14 Agosto 1970 (scriveva da tempo esclusivamente in francese, non solo per non interferire con la lingua che lo ha reso un grande prosatore, ma anche per impegnarsi ad apprendere l’inglese e lo spagnolo, sforzo che alla sua veneranda età lo ha portato a dimenticare la lingua materna):
« … la langue roumaine est d’une richesse et d’une puissance d’expression inouïe … il faut lire Dante en italien, en s’aidant d’une traduction : celle de Marcu me semble utile. Ne prends jamais une version française, car le français est une langue totalement inapte à rendre le souffle des grand-œuvres poétiques. L’Iliade, en roumain, est extraordinaire, en français, comique (…) Nous n’avons qu’une seule excuse: notre langue … C’est elle qui nous rachète … Ezra Pound écrivait un jour qu’il avait envie d’apprendre l’araméen, parce qu’on ne le parle plus que dans un seul village, et le roumain. Dans l’absolu, il importe peu qu’un idiome soi répandu à travers les continents ou confiné dans un hameau. Cette consolation n’est pas négligeable, et il faut recourir, sous peine de devenir fou» [1].
Se avessimo realmente la pretesa di rapportare le cose mondane – per quanto notevoli esse siano – ad un assoluto (di qualsiasi genere), prenderemmo un abbaglio o ci troveremmo smarriti. Faremmo meglio – secondo me – a rimanere modesti.
Fino alla sua scomparsa Emil Cioran ha goduto di una fama straordinaria, il che spiega l’affermazione di Jean-François Revel nella rivista «Express» del 16 novembre 1979, secondo cui l’autore di molti libri scritti in lingua francese – si parla di Cioran – «a mio modo di vedere (ovvero secondo Revel) è certamente il più grande prosatore francese contemporaneo». Le riviste «Viaţa Românească» del giugno 1983 e «România Literară» del 15 dicembre 1983, hanno pubblicato, a firma di Ionel Brandabur e Radu Florian, articoli sul valore delle opere e delle idee di Emil Cioran.
Allo stesso modo, non molto tempo fa ho letto – in traduzione – in un numero della rivista «Vatra» del febbraio ’84, una professione di fede letteraria di Emil Cioran, in cui criticava lo stile delle opere composte in gioventù, preferendo una scrittura sobria e una maggiore semplicità nell’espressione, chiaro segno di maturità intellettuale. In «Revista de istorie şi teorie literară» del gennaio-marzo 1984, Nicolae Florescu pubblicò una raccolta di frammenti epistolari, con una prefazione a mo’ di presentazione. Sulla stessa linea, Radu Enescu ha presentato nella rivista «Familia» due ampi saggi: una fine esegesi dell’opera di Cioran.
Mi ricordo che intorno al 1934, Mircea Vulcănescu – facendo parte della giuria istituita dalla casa editrice della Fondazione Reale per la pubblicazione di giovani scrittori – si è opposto con diversi argomenti alla riserva espressa da Tudor Vianu e da Şerban Cioculescu verso Nu di Eugene Ionescu e Pe culmile disperării  di Emil Cioran, rispondendo al sorriso di costoro e degli altri membri della giuria con un intervento ricco di numerose considerazioni, da cui citiamo alcune righe: «… la posizione spirituale di Eugen Ionescu, così come si evince dal Fals itinerar, è imparentata con quella di Emil Cioran nel manoscritto presentato alla giuria dal titolo: Pe culmile disperării. Vi è lo stesso scetticismo radicale – in cui probabilmente deve risuonare qualcosa che ha a che fare con le condizioni di formazione dell’attuale generazione sotto i 35 anni, in quanto lo ritroviamo sotto diverse forme in tutti i suoi protagonisti – scetticismo nato dalla lucida constatazione della relatività dei valori e allo stesso tempo dal sentimento del tragico, che persistono oltre le negazioni dell’intelletto e della necessità di valori assoluti, considerati inaccessibili all’uomo. Se in Cioran tale scetticismo ha una base erudita e una caratterizzazione filosofica di stampo vitalista e irrazionale, in Eugen Ionescu esso è l’effetto di una reazione di amarezza, a causa dell’impotenza di formulare un giudizio critico universalmente valido … »     


A cura e traduzione di Francesco Testa

(n. 1, gennaio 2014, anno IV)


* Ringrazio la professoressa Consuela Vilaia per i preziosi consigli e per la revisione della traduzione.


NOTE

1. «La lingua romena è di una ricchezza e di una potenza d’espressione inaudita… bisogna leggere Dante in italiano, aiutandosi di una traduzione: quella di Marcu mi sembra utile. Non prendere mai una versione francese, perché il francese è una lingua totalmente inadatta a rendere il respiro delle grandi opere poetiche. L’Iliade, in romeno, è straordinaria, in francese comica (…) Non abbiamo che una sola scusa: la nostra lingua… È lei che ci riscatta… Ezra Pound scriveva un giorno che aveva desiderio di apprendere l’aramaico, perché non lo si parla più che in un solo villaggio, e il romeno. Nell’assoluto, poco importa che un idioma sia propagato attraverso i continenti oppure confinato in un borgo. Questa consolazione non è di poco conto, e ad essa bisogna fare appello, con il rischio di diventare folle».