Ruxandra Cesereanu: «La mia Venezia, di anima e di corpo»

«Volevo descrivere la mia Venezia, così come io l’aveva percepita. Era la mia ricerca al suo interno: frugando dentro Venezia, frugavo nella mia stessa mente, nella mia stessa anima e forse anche nel mio stesso corpo». Così la poetessa Ruxandra Cesereanu nell'intervista, che qui pubblichiamo, rilasciata a Cristina Gogianu in occasione della presentazione a Venezia, lo scorso 17 ottobre, del suo volume Venezia dalle vene viola. Lettere di una cortigiana (Aracne 2015, a cura di e con un’introduzione di Giovanni Magliocco, postfazione di Ilona Manuela Duţă). Sul volume, si veda anche la nostra intervista al traduttore Giovanni Magliocco.


Il suo rapporto con l’Italia, e con Venezia in modo particolare, data ormai da qualche decennio. Punto di partenza è una vicenda familiare, da cui prende vita, come testimoniato nel suo recente volume, un legame poetico, di cui i lettori non conoscono ancora molto. Può raccontarcelo?

Il mio primo contatto con Venezia è avvenuto nel 1981. Avevo finito il liceo ed ero già ammessa alla Facoltà di Lettere (presso l’Università Babeș-Bolyai di Cluj-Napoca, ndr), quando mi è stata concessa la possibilità di visitare mio nonno paterno, prete greco-cattolico ed ex detenuto politico, che si trovava in esilio a Roma, protetto da Papa Giovanni Paolo II, il quale, essendo originario della Polonia, mostrava un interesse particolare per le chiese greco-cattoliche e i suoi preti giunti dai Paesi comunisti. Non è stato un viaggio facile. Io e mia madre abbiamo preso il treno per Roma, dove siamo rimaste quasi due settimane, il tempo che ci era stato permesso per la visita. Al ritorno, ci siamo fermate a Firenze perché ovviamente volevamo goderci i musei e mia madre desiderava mostrarmi cosa significassero l’Italia e la sua cultura. Ci siamo rimaste per un intero giorno, poi abbiamo preso un treno di notte e la mattina dopo siamo arrivate a Venezia, dove abbiamo trascorso sempre una giornata. Ma la Venezia che ho visto allora è stata una Venezia diurna e ufficiale: il centro storico, Piazza San Marco, i musei, e tutto questo in gran fretta, e in una sola giornata. Non era stato sufficiente. Mi è piaciuta, ma non ho sentito quell’impatto che spinge una persona a pensare che sarebbe rimasta legata a quel posto per tutto il resto della sua vita.

E questo impatto è avvenuto nel secondo incontro con Venezia o c’è stato bisogno di una conoscenza più lunga?


Sì, nel 1983, quando sono arrivata per la seconda volta a Venezia, e in quell’occasione ho visto tutta un’altra Venezia. Nel treno che ci portava da Vienna a Venezia avevo fatto amicizia con un gruppo di giovani viennesi che andavano anche loro a visitare la città e volevano girovagare, peregrinare per Venezia durante la notte. All’epoca provenivamo da un Paese povero e le nostre risorse finanziarie erano modestissime: non avevamo soldi per alloggiare in un albergo, tanto meno in una città come Venezia. Mia madre è rimasta nella stazione con i nostri bagagli, mentre io ho peregrinato per tutta la notte con quel gruppo di viennesi. Questa seconda volta non ho vissuto più la Venezia ufficiale, ma quella non turistica, notturna, affascinante, momento in cui per la prima volta mi sono resa conto che fra me e questa città si stava intessendo un intimo legame. La paragonavo, a causa di tutti i vicoli e le viuzze che la intrecciano, a un cervello e mi stavo domandando se per caso, attraversando questa città, non viaggiassimo infatti dentro di noi stessi e cercassimo di ritrovarci in qualche modo. Sono rimasta con questa idea incisa nella mente. E sempre allora, molto probabilmente, ho visto su qualche locandina oppure su qualche muro il nome di La Malcontenta, che però dopo ho dimenticato, ed è rimasto in qualche angolo del mio inconscio. Alcuni anni dopo, quando ho cominciato a scrivere il libro e nella seconda parte compariva questo personaggio femminile con il nome La Malcontenta, ero convinta di averlo inventato io. Solo molto più tardi mi sono resa conto che in realtà mi era rimasto nella memoria da quella notte. E sempre più tardi sono venuta a sapere della villa La Malcontenta di Palladio, che ho anche visitato in seguito. L’essenziale è che questo secondo incontro del 1983 ha rappresentato per me un momento chiave, quando ho capito che volevo far scaturire qualcosa da questo legame che era nato fra me e la città lagunare. Dopo essere tornata in Romania, ho cominciato una sorta di documentazione libresca, ma che non mi è stata di grande aiuto perché ho compreso che non avrei mai voluto scrivere un saggio oppure fare uno studio classico, razionale, ma che ciò che mi interessava era far emergere tutta un’altra prospettiva su Venezia.

Perché c’era bisogno di un archetipo per poter costruire questa prospettiva di cui sta parlando e perché, fra tutti quelli che la storia di Venezia mette generosamente a disposizione, si è fermata su quello della cortigiana?


Per me ora la risposta è chiara. Volevo scrivere sulla passione e tentazione, quindi non mi era di nessun aiuto scrivere dei dogi, dei musicisti veneziani, di Vivaldi per esempio, o di chi sa quali altri patrizi. Avevo bisogno di un essere umano dentro il quale corpo e inconscio facessero accadere un tumulto di cose, m’interessava il rapporto fra l’anima e il corpo di questo essere. Ed è questo il momento in cui entra in scena la figura della cortigiana, una cortigiana istruita, non necessariamente erudita, ma colta, raffinata, forse anche di origini nobili, in nessun modo una prostituta della strada. Il libro ha cominciato a crescere man mano, però mi sono resa conto di aver bisogno di due voci, una femminile e l’altra maschile, ma che entrambe parlassero della stessa cosa, cioè la passione. Ma anche se metà del libro viene raccontata da una voce maschile e l’altra metà da una voce femminile, il volume porta comunque il titolo Venezia dalle vene viola. Lettere di una cortigiana perché la cosa essenziale è stato appunto l’archetipo della cortigiana e non quello dell’uomo, dell’innamorato passionale.

Non ha temuto che, scegliendo un tale archetipo – da un lato estremamente generoso dal punto di vista artistico, poetico, ma dall’altro è anche uno dei topos più visitati della letteratura ispirata da Venezia – il pubblico avrebbe avuto un orizzonte d’attesa già costruito, con un’immagine già concepita a priori?


Sì, certo, ma allo stesso tempo sapevo e sentivo che questo libro avrebbe contenuto tutta quella decadenza che esiste anche dentro di me, che sarebbe stato un libro passionale, e non uno espositivo, non un libro-orpello, ma un libro fatto di carne, di epidermide, e solo dopo di spirito. Non ho scritto questo libro ininterrottamente, ma ci ho lavorato per tredici anni, non mi sono affatto lasciata prendere dalla fretta, sapevo che aveva i suoi strati che mi potevano stimolare a scrivere solo allora quando arrivava il loro momento.

Prima del 1989, ha avuto modo di visitare Venezia solo per due volte?


Sì, solo in queste due occasioni. E io ho cominciato a scrivere nel 1987, probabilmente perché mi mancava Venezia. I tempi si erano inaspriti, non si poteva più viaggiare all’estero, mio nonno era morto e sepolto a Roma, quindi non avevo più nessun motivo legittimo per chiedere un altro visto per andare in Italia. La Romania era completamente isolata a quel tempo.

Desiderava giungere di nuovo a Venezia per nutrire questo coacervo di sentimenti e, implicitamente, anche il suo lavoro attorno al libro? C’era bisogno della presenza fisica, tangibile della Laguna per sostenere e portare avanti la sua scrittura?


No, mi sono resa conto che ciò che contava era il mio potere di finzione, perché non volevo descrivere Venezia in modo generico, ma la mia Venezia, così come io l’aveva percepita. Era la mia propria ricerca al suo interno: frugando dentro Venezia, frugavo infatti nella mia stessa mente, nella mia stessa anima e forse anche nel mio stesso corpo.

D'altronde, si tratta di un libro iniziato nella prima gioventù, negli anni della sua formazione e maturazione.


Appunto. Certo che a tutto questo hanno contribuito anche vari personaggi della mia biografia, ma questo non riguarda nessuno e non conta in nessun modo. Al centro si trova la mia esperienza diretta con questa città, trasferita poi nel libro. Dunque, nel 1987 ho cominciato a scrivere effettivamente, mentre a Venezia sono ritornata solo nel 2000.

Quindi, per diciassette anni, cioè il periodo della gestazione e della stesura vera e propria del libro, Lei non ha più rivisto Venezia.


Esatto. E nel 2000 ci sono arrivata con mio marito, Călin Braga, che, sapendo quanto io avessi giocato con la finzione, ha avuto la cortesia e la generosità di accompagnarmici per visitare ogni posto di quelli che io avevo scritto nel mio libro, affinché non rimanesse solo la finzione. Certo, si trattava di luoghi non ufficiali, di varie chiese poco conosciute, di innumerevoli campielli e campi che non si trovano nelle guide turistiche e così via. Dopo questo viaggio di tre giorni a Venezia, mi sono resa conto che ormai il mio libro era finito, che non c’era nient’altro da scrivere o aggiungere, tranne un epilogo relativo alle cortigiane, su quello che sono o potrei essere io attraverso di loro. Nel 2002 il libro è stato finalmente stampato.

E adesso abbiamo fra le mani la sua versione in italiano, anzi, una splendida edizione bilingue. Come è iniziata la collaborazione con il professor Giovanni Magliocco, traduttore del volume?


Ho conosciuto Giovanni Magliocco nel 2007. Avevo già fatto tradurre un paio di poesie del volume da un mio collaboratore romeno, erano imperfette, ma le avevo portate sia a Venezia, sia a Roma. Quando ho fatto conoscenza con Giovanni, che è un decadente per eccellenza e mostra una passione particolare per Eminescu, Macedonski, Mateiu Caragiale, lui mi ha detto che voleva tradurre questo libro perché gli calzava come un guanto. Ho avuto la grande fortuna di incontrarlo, anzi è stato lui a offrirsi di tradurre nel tempo la mia intera opera poetica, non però anche quella in prosa.

Nel momento in cui, come oggi, si trova di nuovo a Venezia, quali emozioni prova?


Il sentimento che sto incontrando una mia città, una città che ho colonizzato e che posso inviare al mondo da tutta un’altra prospettiva. Che sono la sua padrona.

Le capita di avere un sentimento simile a proposito di una città romena?


Non lo so, forse di Cluj-Napoca, la mia città natale. E in estate forse mi sento padrona delle isole greche, meta dei miei viaggi da venti anni. Ma Venezia è l’unica città straniera di cui mi sento veramente padrona.

Il legame che stabilisce con Venezia nel suo libro rende molto trasparente questo sentirsene padrona. Il lettore si trova di fronte a una Venezia fortemente personale, alla quale ha libero accesso ma dove si potrebbe anche sentire come un ospite in casa altrui: è accolto fastosamente, gode tutto quello che gli viene servito, ma sa che al momento della partenza la casa non gli apparterrà.


Non necessariamente, c’è pure del fascino in questo libro. Non scaccio il lettore che accolgo nella mia casa, ma gli dico: se ti è piaciuto, raccontalo altrove, trasmettilo anche agli altri. Non allontano il lettore, ma gli rendo molto chiaro il fatto che si trova sul mio territorio, che è ben ricevuto in questo spazio, e se gli piace e ci si trova bene, allora che anche lui prosegui la storia.

Come è stato accolto il libro in Romania?


Ha avuto una buona accoglienza, anche se non straordinaria. Dico questo perché all’inizio è stato accolto solo come un volume d’erudizione e non come un libro sulla passione. Anche Marin Mincu, noto italianista, l’ha percepito unicamente come un libro decadente ed erudito. Il che, secondo me, è un errore, perché io non ho voluto scrivere un’opera dotta e, sebbene il volume inizi con Borges, con Pavese, con de Chirico, per poi far entrare in scena anche Corto Maltese, la parte erudita è solo una questione epidermica, una falsa pista.

D’altronde è vero che Venezia, avendo una tradizione artistica e culturale così complessa ed ampia, può nascondere a una prima lettura il tema della passione, del corpo. Come spiega questa accoglienza del volume sotto l'esclusivo aspetto dell’erudizione?


Esisteva, forse, un certo pudore nella lettura, non me ne rendo conto. Eppure nel libro ci sono momenti molto passionali, dove la gente uccide per passione, si fa a pezzi, si morde. Ripeto, il volume è stato ben accolto, ma in una chiave classica, quasi accademica, libresca, la qual cosa non era insita (o lo era solo parzialmente) nel mio libro. Non mi sono ribellata, ho accettato questa lettura e il modo in cui la critica ha percepito il mio volume. Tanto più che, ecco, ho trovato lettori anche altrove, in Italia per esempio.

So che sta lavorando a un secondo progetto letterario collegato sempre a Venezia, ma che vorrebbe pubblicare direttamente in Italia, un volume in prosa con il titolo La Dogaressa. Ci può svelare qualche dettaglio?


È il mio unico libro in prosa che Giovanni ha accettato di tradurre, appunto perché collegato a Venezia. Forse tradurrà anche un altro mio racconto, si tratta di una novella (legata in qualche misura sempre alla Serenissima) dal volume La nascita dei desideri liquidi, un epistolario d’amore, che comunica d’altronde con Venezia dalle vene viola, collocato però nel XX secolo. La Dogaressa è un libro neogotico e penso che in Romania non avrà grande successo, ho la sensazione che non ci siano lettori per un libro di questa fascia, mentre in Italia ce ne sono. Inoltre, ogni libro che sta traducendo, Giovanni Magliocco lo pubblica in versione bilingue, dato che per lui è essenziale che il lettore abbia anche il testo originale a fronte. Per questo ho pensato di pubblicarlo direttamente in Italia, tanto più che oltre la metà del libro l’ho scritta qui, a Venezia, nel 2007, in vari campielli e campi non turistici, vuoti di gente, dove mi sedevo ai piedi di fontane svuotate e mi annotavo tutte le idee su un quaderno. È la storia di un club di lettura nel periodo del Carnevale di Venezia, che ha diversi narratori – uno di questi è Casanova stesso – che raccontano solo storie gotiche, tutte riferite a varie leggende urbane di Venezia, che ho letto in tanti altri libri, ma che adesso vengono di nuovo calate nella finzione.

Un ultimo pensiero per i suoi lettori che non hanno mai visto Venezia o che stanno pensando di rivederla. Dove li inviterebbe ad andare, per quali luoghi consiglierebbe loro di girovagare con il suo libro in mano, evitando i soliti itinerari affollati da turisti, per conoscere un’altra Venezia?


Innanzitutto li indirizzerei verso il sestiere di Dorsoduro, alle Zattere, da dove si può vedere l’isola della Giudecca e da lì forse farci un salto per visitarla. Uno dei miei posti speciali è sulla scalinata della chiesa di Santa Maria della Salute, ma questo è ancora uno di quei luoghi del solito circuito. Invece un altro mio luogo preferito, con uno splendido spazio intorno, è la chiesa di San Zanipolo (ossia la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo), dove si trova il vecchio lazzaretto e da dove, dall’altra parte, si scorge il cimitero di Venezia, l’isola di San Michele, cioè un mondo completamente diverso.      



Intervista realizzata e tradotta da Cristina Gogianu
(n. 12, dicembre 2015, anno V)