«Passione e morte. Claretta e Ben». Intervista a Pierfranco Bruni

Con il titolo Pedepsiţi în iubire (Ed. Capriccio, Piatra-Neamţ, 2014) è stata pubblicata di recente la traduzione romena del romanzo Passione e morte. Claretta e Ben di Pierfranco Bruni, libro che ridisegna i contorni della storia d’amore tra Claretta Petacci e Benito Mussolini.. Con l’occasione, Ştefan Damian, che lo ha tradaotto, ha realizzato un’intervista all’autore sulle varie sfaccettature della sua scrittura. Bruni ha infatti pubblicato libri di poesia (tra i quali Via Carmelitani, Viaggioisola, Per non amarti più, Fuoco di lune, Canto di Requiem), racconti e romanzi (tra cui L'ultima notte di un magistrato, Paese del vento, L’ultima primavera, E dopo vennero i sogni, Quando fioriscono i rovi, La bicicletta di mio padre) e diversi saggi sulla letteratura italiana del Novecento e sulla cultura poetica della Magna Grecia.

Pierfranco Bruni, sei un autore complesso, nel senso proprio del termine: hai scritto e pubblicato finora volumi di versi, di narrativa, saggistica, note di viaggio «letterario»… Come vuoi presentarti ai nostri lettori?

Nella vita di uno scrittore ci sono tanti viaggi. Io amo viaggiare in articolati orizzonti. Il mio primo libro risale proprio al quarant’anni fa. Un libro di poesia. Poi sono nati altri libri di poesia e insieme studi sulla letteratura del Novecento. La narrativa è ciò che oggi mi raccoglie. Raccoglie le mie esigenze di uomo ma soprattutto di cercatore della parola come missione. Non sopporto l’ozio. Faccio sempre un elogio all’inquietudine e non amo la leggerezza. Continuo a non giudicare. Anche se in letteratura bisogna essere onesti, la mia scrittura è un gioco inesorabile e drammatico oltre che onirico tra la poesia e la prosa.

Quale genere letterario è più vicino alla tua sensibilità e cosa ti induce ad adottarlo? Si può dire che l'autore è «un lanciatore di sogni e d'alchimie», come affermi nel romanzo La bicicletta di mio padre?

Certo, lo scrittore è sempre un lanciatore di sogni e di alchimie, altrimenti dovrebbe fare altro. La cronaca appartiene a chi ha fatto della letteratura una ideologia e proprio per questo non rientrano nei miei processi di vita tra la scrittura e l’esistenza personaggi come Calvino, Pasolini, Moravia… Io sono cresciuto alla scuola dei Papini, di Eliade, dei Pavese, dei Berto, di Cioran… Il sogno, la forza della scrittura e il dannunzianesimo che è estetica.

A cosa si deve la spinta iniziale per scrivere un poema? Cerchi qualcosa nella «confusione delle parole»?

Lo scrittore passa inevitabilmente attraverso la confusione delle parole. C’è sempre un incipit che è quello dell’essenza della propria vita. Quando si smette di scrivere, per uno scrittore, si è interrotta quella confusione. Il grande scrittore, io che provengo dalla scuola di Proust e Pavese, non vive nell’ordine e tanto meno nella compiutezza. C’è sempre una «cerca» nella vita che diventa ricerca di altro e di sé… Non è necessario trovare.

Qual è il rapporto tra invenzione (fiction, sogno) e realtà nei tuoi romanzi? Il «vissuto», l'autobiografia, l'esperienza personale e dei propri cari traspare spesso nelle tue pagine, si trasforma in documento ed ha il sapore di autenticità, anche se tu dichiari programmaticamente che si tratta di «invenzione».

Io vivo di presente fortemente impastato nella memoria. Ed è la memoria che alla fine prende il sopravvento. Senza l’orizzonte della memoria la parola per me non ha senso. Lo scrittore scrive sempre la sua storia, anche se teatralizza il proprio vissuto e la fantasia ci aiuta ad attraversare il tempo. Parlo d'invenzione perché tutto alla fine si reinventa perché si ha bisogno di non far morire ciò che è stato.

La memoria «recupera» continuamente la storia/le storie. Perché si sofferma ad un suo momento «speciale»? È un atto voluto, o lo scrittore se ne sente invaso e vuole liberarsene?

Una domanda forte. Recuperare è decifrare il proprio cammino. Forse si ha necessità a volte di dimenticare. Ma non dipende da noi. La memoria vive a prescindere di ciò che pensiamo di vivere di scrivere e di essere. E la scrittura è memoria.

«Un popolo si salva quando crede nella salvezza e gli uomini trovano la loro salvezza se si misurano nella speranza della salvezza», scrivi in Passione e morte. Claretta e Ben. Alla letteratura che ruolo spetta?

La letteratura il più delle volte diventa salvifica. La letteratura ha il compito di porci davanti ad uno specchio. Forse diventiamo specchio. Attenzione però, perché corriamo il rischio di Dorian di Wilde. Non è morale non è etica non è ideologia. È creazione. Ed essendo tale diventa mistero. Dobbiamo affidarci sempre al mistero. Per chi viaggia nella Fede il mistero è la grande rivelazione. Ma senza la rivelazione, anzi senza il bisogno della rivelazione non saremmo in grado di creare e di essere vivi nella fantasia.




Intervista realizzata da Ştefan Damian
(n. 12, dicembre 2014, anno IV)