«Quei mastri architetti italiani che han fatto bella Bucarest e non solo». Intervista a Nicolae Lascu

Ci sono in Romania edifici che tutti conoscono e apprezzano per la loro bellezza e interesse architettonico, come l’Ateneo Romeno, la chiesa Domniţa Bălaşa, i palazzi reali di Cotroceni e di Calea Victoriei, il castello Peleş di Sinaia, la cattedrale di San Giuseppe e molti altri. Non sono in molti, però, a sapere che alla bellezza di tali opere hanno lavorato con un contributo del tutto speciale due fratelli italiani, Pietro e Giovanni Axerio, originari di un paesino del Nord, alle pendici del Monte Rosa.
Di questa splendida pagina di architettura italo-romena, parliamo con Nicolae Lascu, architetto, professore, coordinatore di dottorato di ricerca presso l’Università di Architettura e Urbanistica «Ion Mincu» di Bucarest di cui, per molti anni, è stato vicerettore, cancelliere, direttore del Consiglio universitario per il dottorato di ricerca. Specialista in storia urbana, storia dell’architettura e dell’urbanistica romena, architettura moderna e contemporanea e tutela dei centri storici, Nicolae Lascu ha avuto compiti e funzioni di grande responsabilità nel suo campo (membro del Consiglio Direttore dell’Ordine degli Architetti, vicepresidente dell’Unione degli Architetti di Romania, vicepresidente della Commissione Nazionale dei Monumenti Storici, perito, membro o presidente di varie altre commissioni di specialità e di molte giurie nazionali e internazionali). La sua attività di ricerca (che oltre a numerosissimi articoli e relazioni scientifiche, conta ben 10 volumi di teoria dell’architettura, storia dell’urbanistica e dell’architettura romena e di alcune monografie su architetti romeni) ha ricevuto i più prestigiosi premi e riconoscimenti romeni nel campo dell’architettura.
All’Italia, Nicolae Lascu è legato non solo da un’inconsueta familiarità con la storia, la cultura e la lingua della Penisola e da un amore visibile per queste, ma anche da una prolungata collaborazione con l’Università di Milano, con la Biennale di Architettura di Venezia, con il premio internazionale Gubbio, come pure con numerosi colleghi architetti, professori, ricercatori italiani. Fra tutti questi fili invisibili che legano lo specialista in urbanistica e patrimonio romeno all’Italia abbiamo scelto di dipanare insieme quello che l’ha portato a una ricerca molto interessante sull’attività, poco conosciuta finora, di alcuni maestri italiani nella Romania al passaggio dall’Ottocento al Novecento. Il progetto, realizzato da un nutrito gruppo di specialisti romeni e italiani coordinati da Enrica Ballarè e Nicolae Lascu, si è concretizzato in un volume monumentale, bilingue, splendido nel contenuto e nella forma: La via del marmo artificiale da Rima a Bucarest e in Romania tra Otto e Novecento (a cura di Enrica Ballaré, Zeisciu Centro Studi, Magenta, 2012), volume pubblicato con l’aiuto di numerose istituzioni e con l’appoggio della Regione Piemonte e dell’Università di Architettura e di Urbanistica «Ion Mincu».

Professor Lascu, il volume di cui andiamo a parlare racconta la saga di una famiglia di maestri decoratori partiti da un piccolo villaggio della Valsesia a conquistare il mondo, e insieme presenta lo spettacolare sviluppo dell’architettura romena alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento. Cominciamo con la prima: chi erano questi maestri e che cosa li ha spinti a girare il mondo?

Pietro Axerio e suo fratello, Giovanni, cioè quelli che hanno lavorato in Romania, venivano, è vero, da Rima, un villaggio situato a 1420 m di altitudine, vicino alla frontiera svizzera, alle falde del superbo Monte Rosa. Rina, località che durante l’Ottocento non ha superato che raramente i 200 abitanti e che, pure adesso, durante l’inverno rimane quasi isolata a causa della neve, ha una storia affascinante, derivante dal destino dei grandi maestri del marmo artificiale nati là e operanti sin dagli albori del Settecento. Alcune famiglie – Axerio (con i suoi due rami: Cilies e Piazza), De Toma, Viotti, Dellavedova – hanno creato delle imprese che, a partire dalla metà dell’Ottocento, sono diventate le maestre incontestabili di questo tipo di decorazione. In una prima fase hanno lavorato in Francia, Germania, l’Impero austro-ungarico, Svezia, Norvegia, Svizzera, Olanda, Romania, Russia, Bulgaria, Serbia e, in un secondo momento, in Spagna, Marocco, Algeria. Dappertutto hanno realizzato lavori di grande portata – in palazzi reali o imperiali, cattedrali, residenze nobiliari ecc. – che li hanno resi famosi e gli hanno procurato sempre nuovi lavori in altre parti del mondo. Il marmo artificiale è uscito di moda da quasi un secolo, eppure, grazie ad un gruppo di artisti, quest’attività artigianale è tuttora vivente. Ho avuto il piacere di conoscere Silvio Dellavedova che, dopo un’intera vita di opere all’estero, ora, a un’età venerabile, risiede nel villaggio natio e dirige un laboratorio che forma nuove generazioni di specialisti in marmo artificiale.
L’esodo di questi mastri-artisti coincide con la grande ondata dell’emigrazione italiana della seconda metà dell’Ottocento in cerca di lavoro. Però i fratelli Axerio, arrivati in Romania alla fine di quel secolo, non sono venuti in cerca di lavoro, ma sono stati chiamati in qualità di specialisti in un’arte praticamente sconosciuta nel Vecchio Regno. E bisogna sapere che essi vi hanno detenuto il monopolio assoluto di quest’arte fin dopo la Grande Guerra, cioè quando questo tipo di decorazione è uscito di moda e dal gusto del pubblico e dall’architettura.

Che cosa è il marmo artificiale, e quando e perché è apparso? Quanto si è diffusa questa tecnica o arte in Europa e nel mondo?

Il marmo artificiale è un materiale ottenuto dalla mescolanza, in certe proporzioni, del gesso con acqua e con un adesivo. Dopo 12 ore la pasta così ottenuta viene integrata con pigmenti di colore, nella composizione desiderata, e viene spalmata su una superficie orizzontale (un tessuto di juta) e si lascia indurire. Solo dopo si attacca alla parete, al pilastro o alla colonna; acqua e adesivo permettono una perfetta aderenza alla superficie rispettiva. Dopo l’essicazione completa si esegue la levigatura, con pietre gradualmente più fini, finché si ottiene una superficie perfettamente lucida. Se dal punto di vista tecnico, con un po’ di pratica, le operazioni descritte possono essere realizzate senza grande difficoltà, il modo in cui vengono introdotti i pigmenti di colore è una vera arte, perché si deve ottenere un aspetto identico a quello del marmo naturale, tramite l’associazione dei colori, la scelta delle venature ecc. Qui la personalità e l’ingegno artistico si rivelano essenziali, perché le variazioni sono infinite, sia che riproducono un tipo autentico di marmo sia che lo imitano e lo inventano. Non a caso il nome italiano di questo prodotto è «marmo finto».  
Il marmo artificiale è apparso nel Cinquecento, ma il suo impiego corrente risale da una parte, al barocco bavarese, dall’altra all’«esplosione» edificatoria dell’Europa centrale nell’Ottocento. Il marmo finto è ed è stato impiegato praticamente in tutti i paesi europei. È un materiale meno costoso del marmo naturale, molto più facile da ottenere e da lavorare e che associa i colori al disegno secondo le esigenze del cliente e delle caratteristiche dell’edificio.

Perché si è diffuso questo genere di decorazione nell’architettura romena del periodo ricordato? O, in altre parole, perché gli Axerio si sono diretti verso la Romania?

Come già menzionato, i fratelli Axerio non sono venuti in Romania come parte della massiccia emigrazione italiana che ha avuto un ruolo così importante nell’edilizia romena intorno al 1900. Il loro arrivo è legato al rifacimento, tra il 1880 e il 1885, della chiesa Domniţa Bălaşa di Bucarest, secondo il progetto degli architetti Alexandru Orăscu, Carol Beneş e D. Hartman. Cercando la migliore rifinitura degli interni, il metropolita ha chiesto dei campioni di marmo finto dalla Francia, dall’Italia e dall’Austria, scegliendo alla fine quelli mandati dai fratelli Axerio, che in quel momento lavoravano presso la ditta del loro cugino, Antonio De Toma, sui suoi cantieri di Vienna. Il contratto firmato dai due Axerio in dicembre 1882 per la decorazione della chiesa ha significato l’inizio del loro lungo soggiorno romeno e di una carriera delle più spettacolari. A quel tempo Pietro Axerio aveva appena 27 anni. Dopo pochi anni i fratelli hanno creato la propria impresa, hanno comperato a Slanic Prahova una fabbrica di gesso (materia prima per il marmo finto) e sono diventati sempre più apprezzati. La loro attività principale è rimasta quella della decorazione in marmo finto e in mosaico. All’inizio degli anni 20, quando il marmo finto cominciava ad essere meno richiesto, l’impresa Axerio si è riorientata verso l’edilizia propriamente detta. In questa veste, nel 1948, sotto la pressione del nuovo regime politico, l’impresa, passata a Giovanni Axerio, figlio di Pietro, è stata chiusa e il suo proprietario è ritornato in Italia.

Quali sono le più belle opere degli Axerio in Romania, fra le tante presentate nel vostro volume?

La più alta delle loro realizzazioni romene è senza nessun dubbio l’Ateneo Romeno. È la loro seconda opera in Romania, dopo la chiesa Domniţa Bălaşa, conclusa prima che Pietro avesse compiuto 35 anni. Il nostro volume presenta, in seguito a una minuziosa ricerca, ben 15 lavori degli Axerio, molto diversi l’uno dall’altro: oltre le due già ricordate, ci sono quelle dei palazzi reali di Cotroceni e di Calea Victoriei, quelle del castello Peleş di Sinaia, la cattedrale di San Giuseppe, il Ministero dei Lavori Pubblici (oggi Palazzo del Comune), il Palazzo di Giustizia, la Banca Nazionale e la Banca di Sconto, l’albergo Athenée Palace, il famoso ristorante «Carul cu bere», come pure alcune residenze signorili: Monteoru, Vernescu e Turnescu. La dimensione degli interventi varia, ma non varia la straordinaria importanza di ciascuno per l’insieme dell’edificio. Ognuno di essi testimonia la scienza e la comprensione da parte degli artisti italiani del significato del rispettivo edificio, riuscendo ogni volta ad ottenere effetti capaci di mettere in risalto gli intenti dell’architetto e di esaltare le qualità dell’edificio.  
La nostra ricerca non ha aspirato a essere esauriente, ma solo a illustrare, tramite i casi studiati, alcuni fra i più rappresentativi edifici che recano l’impronta dei fratelli Axerio. Però nei quattro anni passati dalla pubblicazione del volume abbiamo continuato a identificare altri edifici nobilitati dallo splendore dei marmi finti. Si tratta di abitazioni di famiglie abbienti dove una o più colonne, oppure altri elementi architettonici, sono decorati con marmi finti su piccole superfici. Altri edifici, invece, sono monumenti di importanza pubblica, come per esempio la Camera dei Deputati (oggi Patriarchia), il Circolo Militare Centrale di Bucarest, entrambi progettati da Dimitrie Maimarolu, l’Università «Al. I. Cuza» di Iaşi, progettata da Louis Blanc, la Borsa di Commercio di Bucarest, progettata da St. Burcuş, la Prefettura di Galaţi, progettata da Ion Mincu, oppure l’elegantissima e raffinatissima residenza di Gh. Cantacuzino di Bucarest, opera dell’architetto Ion. D. Berindei. Ma la nostra ricerca continuando, veniamo a scoprire tanti altri lavori dello stesso tipo. Chi sa se a un certo momento non si riuscirà a pubblicare una monografia con tutti i lavori in marmo finto dei fratelli Axerio…
Ritornando però all’illustre esempio dell’Ateneo Romeno, qui possiamo constatare la perfetta coerenza fra la spazialità del foyer ideata da A. Galeron e l’arte del marmo artificiale: la trasparenza tra atrio centrale e parti laterali, filtrante attraverso le colonne rosa, la superficie murale circolare dalla quale si staccano i quattro massicci piedritti che sostengono le eleganti scale a spirale che conducono al piano superiore, il mosaico del pavimento che riprende motivi classici e, in fine, la parte di fondo (realizzata qualche anno più tardi) con le due scalinate nobilitate dalla presenza del marmo finto, di vario colore e sfumatura, delle colonne, dei balaustri ecc.

Quali sono, secondo Lei, i principali contributi della vostra ricerca circa quest’arte, portata e diffusa in Romania dagli artisti italiani, e come se ne può assicurare la sopravvivenza?

Un primo passo in vista della conservazione di queste opere è, se si può dire così, conoscerle e renderle note. In questo senso un ruolo non indifferente l’ha avuto proprio la nostra ricerca. L’attività dell’impresa Axerio, prima del nostro volume attestata solo dalle cartoline mandate a Rima dai due fratelli o dai loro collaboratori oppure dalle informazioni piuttosto scarse della famiglia, si è rivelata molto più ampia e complessa di quanto immaginavamo all’inizio. La nostra ricerca è un contributo non indifferente alla comprensione delle relazioni, incredibilmente vaste e varie, fra l’Italia e la Romania e specialmente del ruolo avuto dai mastri-artisti italiani alla realizzazione di alcuni degli edifici-simbolo della Romania moderna.
Poi, la nostra ricerca ha rivelato l’importanza del marmo artificiale nella’architettura romena: un materiale poco studiato, spesso scambiato per marmo vero, che è passato quasi inosservato nei pochi studi seri dedicati agli interni del periodo. Credo perciò che, in questo senso, il merito essenziale, e che spetta ad Enrica Ballarè che ha curato e coordinato il volume, è stato quello di aprire nuove direzioni di ricerca, studiando con coerenza e accuratezza la decorazione degli interni di edifici tanto pubblici quanto privati. La nostra non è stata, è vero, una ricerca di grande estensione: lo scopo, il tempo e i fondi a disposizione, piuttosto scarsi, non ce l’avrebbero permessa. Ma i nostri risultati hanno dimostrato l’eccezionale rilevanza degli interni nell’architettura di fine Ottocento e inizio Novecento.
In fine, la nostra ricerca ha evidenziato il carattere ben più complesso di quanto si sapeva finora dell’architettura eclettica, dell’architettura della così-detta «belle époque». In Romania, l’eclettismo architettonico conosciuto, non a torto, come «prodotto» quasi esclusivo del forte influsso della cultura e architettura francesi, ora, grazie agli esempi contenuti in questo volume, si rivela debitore di fattori vari, fra cui anche l’arte e la tecnica dei maestri italiani. In altre parole ora ci si potrebbe interrogare sulla veridicità del mito, tanto conclamato, dell’assoluta impronta francese sulla nostra architettura. Al di là della cultura Beaux-arts, che detta i principi composizionali, l’eclettismo, attraverso maestranze e imprese provenienti dall’Italia, dalla Germania, dall’Austria ecc. nonché autoctone, sembra aver aperto l’architettura romeno verso quello che oggi potremmo chiamare «internazionalizzazione».
In quanto al problema della sopravvivenza: trattandosi di un’arte non più richiesta da parecchio tempo dal mercato dell’edilizia, il marmo artificiale, in Romania, non conta più specialisti capaci di assicurare la conservazione e il restauro di simili decorazioni. In uno degli edifici da noi studiati abbiamo osservato degli interventi grossolani, al pennello e a banale vernice comune, che cercavano di completare i frammenti alterati... Dunque si sente un acuto bisogno di nuovi maestri capaci se non altro di conservare in ottime condizioni l’esistente.

La collaborazione fra Romania e Italia nel campo dell’architettura conosce oggi vie e forme diverse da quelle di allora. Che esperienze potrebbero scambiarsi gli specialisti dei due Paesi e in che misura lo stanno facendo?

Non è una novità che l’Italia è il Paese la cui conoscenza – più approfondita possibile – è un obbligo per qualsiasi architetto, anche per il professionista del secolo XXI. Nessun altro Paese ha dimostrato una tale forza di continuo rinnovamento nel campo dell’architettura, offrendo incessantemente al mondo intero valori innegabili, personalità eminenti e nuove direzioni alla pratica, alla teoria e alla storia dell’architettura. Credo che per noi romeni la formazione dei giovani architetti in contatto con l’ambiente professionale e culturale italiano sia essenziale (e quelli che l’hanno sperimentato hanno risultati eccezionali), però la collaborazione istituzionale, assolutamente necessaria, va accompagnata da quella «informale», come è stata la nostra ricerca che ha portato alla «scoperta» dei fratelli Axerio.




Intervista realizzata e tradotta da Smaranda Bratu Elian
(n. 2, febbraio 2015, anno V)