«Gli invitati di Smaranda Bratu Elian»: Mihai Mălaimare, regista e attore di spicco del teatro romeno

Personalità di spicco del teatro romeno, Mihai Mălaimare si è formato come attore e regista presso l’Istituto di Arte Teatrale e Cinematografica «I. L. Caragiale» di Bucarest e la Scuola Internazionale di Teatro «Jacques Lecoq» di Parigi; ha conseguito il dottorato di ricerca in «Storia e teoria del teatro» e ha insegnato all’Università Nazionale di Arte Teatrale e Cinematografica di Bucarest, alla Scuola di Teatro Pygmalion di Vienna e alla Gallaudet University – Washington USA. Fra il 1973 e il 1989 è stato attore nella compagnia del Teatro Nazionale «I.L. Caragiale» di Bucarest e collaboratore permanente della Televisione Romena alla sezione Teatro e alla sezione delle trasmissioni per ragazzi. Nel 1990 ha creato il Teatro Masca che continua a dirigere. Ha ricevuto varie distinzioni e onorificenze fra cui quella di cavaliere dell’Ordinul Naţional Serviciul Credincios «per la sua devozione e per il suo talento artistico messi al servizio del teatro romeno». Prima di lasciare la politica è stato membro di vari partiti come pure del Parlamento Romeno (1996-2004) e del Consiglio Nazionale dell’Audiovisivo (fino al 2013). 
Finora Mihai Mălaimare ha messo in scena, in quanto regista, più di venti spettacoli e ha interpretato innumerevoli personaggi cinematografici e teatrali. Inoltre è autore di quattro volumi di prosa. La sua creazione più consistente, il Teatro Masca, è caratterizzata da una visione propria, derivata in gran parte dalla tradizione teatrale italiana e legata al repertorio italiano.



Mihai Mălaimare, in un’intervista dove ti si chiedeva perché eri entrato in politica rispondevi: «Perché ho voluto congiungere il teatro alla gente che del teatro se ne infischia». Qui non parleremo di politica, che peraltro hai già disertato, ma di questa congiunzione che, a quanto a me pare, sta alla base del Teatro Masca, un teatro «diverso». Perché hai creato il Teatro Masca e perché l’hai creato così?

Io sono stato assunto al Teatro Nazionale di Bucarest subito dopo la facoltà in quanto premiante. Per sei mesi non mi è stata assegnata nessuna parte teatrale, perciò ho avuto tutto il tempo per osservare e per capire il sistema. Quello che ho capito allora non è cambiato negli anni seguenti, quando ho interpretato molte parti. L’istituzione era una macchina burocratica, il budget non era distribuito secondo un progetto estetico e mancava una strategia del progresso dell’attore. Il budget di un teatro deve essere amministrato con la responsabilità e la correttezza con cui si amministra il proprio denaro. Il personale del teatro, dal direttore e fino alla donna di servizio, deve sentirsi ed essere implicato nel progetto teatrale, cioè nella realizzazione e nello svolgimento dello spettacolo, cioè non è ammissibile, secondo me, che alcuni siano attori e altri funzionari o che il direttore si isoli in una torre d’avorio. Ho desiderato un teatro che funzioni come una famiglia. In questo posso dire che sono riuscito; ma non del tutto; paradossalmente, la parte in cui ho fallito è anche una delle mie principali conquiste: la sede. La sede del teatro, per cui ho tanto lottato e vedi anche tu quanto è bella, mi costringe tuttavia a una formula istituzionale e mi rapisce la libertà e la creatività che mi dava il teatro di strada – perché gli inizi del Teatro Masca sono stati in strada. In quei primi tempi l’inventività era illimitata e il rapporto con il pubblico sempre nuovo ed imprevedibile. Allora, all’origine, l’approvazione di funzionamento e di sovvenzione, da parte delle autorità, di un teatro senza locale è stata un’intuizione geniale: l’intuizione che, non avendo sede, io farò ciò che vorrò, cioè sarò spinto a riinventarmi di continuo. Quando è apparsa la sede del teatro, è apparso, evidentemente, anche un assetto istituzionale che per me, personalmente, ha significato e significa una serie di obblighi e lo spreco di molto tempo e che non mi permette più di dedicarmi, come facevo all’inizio, al progetto fondante. E tale progetto era un teatro in cui avvenga una cosa essenziale nel campo dell’arte dell’attore; io ho desiderato attori che si formino e sviluppino nel teatro, attori che possiedano molteplici mezzi espressivi, attori capaci di recitare in strada, non spostando semplicemente lo spettacolo in strada, bensì adattandosi al posto e al pubblico e dominandoli. Questa cosa supponeva un altro tipo di formazione dell’attore: un attore cimentato in danza, in tip-tap, in acrobazie, in giocoleria, in pantomima ecc., un attore che si avvicini alla fonte d’oro del teatro universale che è la commedia dell’arte.

A proposito della commedia dell’arte, il Teatro Masca costruisce gran parte del suo repertorio su questo genere teatrale, sia con commedie specifiche del genere, come quelle di Carlo Gozzi, sia con commedie interpretate da voi in chiave commedia dell’arte come Arlecchino, servitore di due padroni e I pettegolezzi delle donne di Goldoni o Le furberie di Scapino di Molière. Che valore ha, secondo te, la commedia dell’arte che altrove chiamavi «il momento astrale del teatro universale»?

La commedia dell’arte ha segnato l’apogeo dell’arte dell’attore. Un Arlecchino che non poteva entrare in scena con un salto mortale non era Arlecchino. Gli attori della commedia dell’arte non avevano solo una preparazione fisica eccezionale, ma anche menti brillanti, e citerei solo Isabella Andreini, una ben nota scrittrice e un’attrice compiuta, e i lazzi verbali, che includevano moltissime citazioni, erano la sua specialità. La commedia dell’arte è stato un territorio favoloso che noi oggi possiamo soltanto immaginare ma non ricostituire del tutto perché nessuno sa con precisione come era effettivamente. Noi desideriamo di avvicinarci alla commedia dell’arte per recuperare la condizione dell’attore di allora, la condizione che rende l’attore non solo un artista completo, ma anche un modello di comportamento e di incitamento all’opinione. 

In varie dichiarazioni, tu proponi una distinzione, se non addirittura un’opposizione,  fra teatro «di gesto» e teatro «di parola», propendendo per il primo. Perché ritieni che il teatro deve essere anzitutto gesto?

Perché all’origine il teatro è stato gesto, l’attore indossava una maschera e si muoveva, ballava, prima di pronunciare parole. Il linguaggio è un mezzo espressivo essenziale, ma che ha delle barriere: di lingua, di cultura, di codice sociale. Il gesto non ha barriere. E io sono convinto che uno spettatore amante del teatro di parola non respingerà un teatro di gesto ispirato, per esempio, a Borges, un autore eminentemente verbale. Ma la forza della sua parola mi permette di costruire uno spettacolo di gesto, di immagini, che non ha bisogno di parole. Si può fare teatro non verbale di qualsiasi cosa. Abbiamo fatto anche Romeo e Giulietta senza parole. Perché il teatro significa prima di tutto emozione, e, secondo me, l’emozione scaturisce più facilmente e in modo più persuasivo dal gesto. Il pensiero si serve di parole ma, ulteriormente, nel mio lambicco esso si trasforma in immagine, e il gesto è immagine. Mettendo in scena Romeo e Giulietta io non ho buttato il testo di Shakespeare; al contrario: lo avevo davanti e gli attori, a loro volta, conoscevano il testo. Ma poi ho tradotto il testo in gesto. La parola è suscettibile di duplicità, essa può dire la verità, ma può anche mentire. Nella costituzione fisica dell’uomo il volto può mentire, il corpo mai. Il gesto non mente. E il mondo teatrale di oggi in Europa e in America ha un enorme appetito per il teatro di gesto. La Romania entra anch’essa a poco a poco in questo spazio. È entrata prima con noi, perché il Teatro Masca è stato il primo a proporlo, ma adesso ci sono tante altre compagnie che ci seguono. E a questo fenomeno corrisponde un altro: la trasformazione del teatro di parola, che diventa più breve, più essenziale, più concentrato sull’azione. Il nostro interesse per il teatro di gesto non significa che noi non abbiamo nel nostro repertorio anche tanto teatro di parola. Ed è naturale che sia così. Io devo costruire un repertorio svariato per attirare il pubblico. Ma se il nostro teatro fosse collocato nel centro di Bucarest, sono sicuro che i nostri spettacoli di gesto farebbero il tutto esaurito.   

Ho potuto constatare che voi tentate di spingere il teatro di parola verso il teatro di gesto. Per esempio, recitate Goldoni come se fosse commedia dell’arte. Ma a suo tempo Goldoni ha fatto una riforma teatrale che praticamente cacciava la commedia dell’arte. Ritieni che abbiamo bisogno di una riforma della riforma, ossia di ritornare al teatro di prima di Goldoni?

Sì e no. Nella nostra preparazione la pronuncia teatrale ha un’immensa importanza. Probabilmente hai visto come pronunciano gli attori britannici: si sente ogni minimo suono in qualsiasi posto o posizione si trovassero. Nei nostri teatri raramente succede questo: in molti casi le parole vengono bofonchiate e metà del testo non si sente o non si capisce come si dovrebbe. La pronuncia teatrale è essenziale, ma essa è strettamente legata al gesto. Ti voglio fare un unico esempio: per quasi dieci anni ho fatto allenare i miei attori solo per il teatro di gesto; quando mi sono deciso di mettere in scena uno spettacolo verbale, Il signor di Pourceaugnac di Molière, sono stato sorpreso e contento di constatare che la pronuncia dei miei attori era diventata un’altra: la gestica li aveva avviati a un’altra pronuncia, migliorata.
Ma tornando a Goldoni: Goldoni ha fatto la riforma teatrale quando la commedia dell’arte era già stanca e puntava sulla volgarità più che sul brio dell’arte dell’attore; e la riforma non è stata fatta contro la commedia dell’arte, ma all’interno della commedia dell’arte. Molti dei suoi personaggi sono maschere bell’e buone della commedia dell’arte. Il problema non è di tornare indietro ma di andare avanti, recuperando mezzi espressivi validi del passato.

Ricordo con grande piacere lo spettacolo che avete organizzato al Salone Internazionale del Libro di Torino, nel maggio 2012, dove la Romania era ospite d’onore: teatro di gesto, statue viventi, pantomima, musica e recitatore, che proponevano un percorso inedito della storia di Roma. E dato che parliamo di nuovo dell’Italia, vorrei chiederti della collaborazione con il regista veneziano Michele Modesto Casarin.

La commedia dell’arte è uno dei principali programmi del Teatro Masca. Noi ci siamo proposti di analizzare il fenomeno e di definirlo tramite i nostri spettacoli. Io so fare commedia dell’arte ma mi son detto «perché non tentare con un „nativo”». Michele l’ho incontrato per caso, abbiamo discusso su ciò che fa ciascuno di noi e abbiamo pensato di tentare di farlo insieme. Lui è venuto qui, a me è piaciuto come lavorava così che abbiamo deciso di concepire un progetto a lungo termine. E così abbiamo fatto. Lui continuerà a venire da noi e a mettere in scena commedia dell’arte con noi. Alla fine di una delle tappe del programma ci siamo detti: «faccio io un Goldoni e fai tu un Gozzi», per concludere con la celebre disputa di questi due grandi commediografi con concezioni teatrali apparentemente opposte. E così sono venuti fuori i due spettacoli che ti sono tanto piaciuti. Ma il progetto va continuato: abbiamo nuovi attori giovani e da Lecoq sono venuti specialisti di tale genere e di maschere. Dunque abbiamo con chi lavorare e abbiamo anche l’entusiasmo della sperimentazione. Michele tornerà quest’autunno al festival «Maschere europee ... a Masca», X edizione, dove presenteremo maschere di molti teatri e dove faremo venire anche un celebre maestro di maschere, evidentemente italiano. Pensiamo, per il futuro, di mettere in scena forse un Ruzzante.

Benché abbia lottato per avere uno spazio teatrale che lo definisca, il Teatro Masca usa programmaticamente anche spazi non convenzionali: sono ormai famose e tradizionali le vostre rappresentazioni nella metropolitana e in strada. Come le realizzate e cosa sperate di ottenerne?

Prima di tutto bisogna chiarire che gli attori che vengono da noi direttamente dagli istituti di arte teatrale non hanno la preparazione necessaria per questo genere di spettacolo. Io gli faccio fare un corso breve o un allenamento concentrato per farli fronteggiare una tale provocazione. Noi abbiamo realizzato l’animazione stradale al festival Sinaia for ever: ho portato lì 60 persone, attori, tecnici, funzionari, tutti; siamo i soli, e non solo nel nostro paese, a fare ciò: giocolare, camminare sui trampoli, statue viventi, clownerie, suonare strumenti a fiato ecc. In un certo senso, noi siamo degli extraterrestri e, malgrado i vari premi ricevuti in quanto teatro alternativo, io non so in che misura il mondo teatrale tradizionale accetti veramente di avere in grembo un tale bambino. Che cosa speriamo? Che diventi amica del teatro quella gente che è troppo comoda per attraversare la strada ed entrare nel nostro teatro, ma che, in realtà, smania per spettacoli e per una forma di cultura che la  soddisfi.

Ho l’impressione che non solo la commedia dell’arte, ma tutto il vostro repertorio inclini verso la commedia. Che succede? Il pubblico di oggi non ha più interesse per la tragedia?

È una buona osservazione. Me ne sono accorto anch’io. Il teatro di oggi generalmente e il mio teatro particolarmente preferisce la commedia: forse perché la gente la tragedia la vive e non vuole rivederla anche sul palcoscenico; il pubblico ha bisogno di commedia forse come compenso. O forse si ritrova solo nel derisorio. D’altra parte, la scommessa con la commedia è anch’essa una grande provocazione. È più difficile fare commedia che tragedia: perché il comico, il riso, deve servirsi della verità, solo la verità fa ridere, e tu devi essere convincente quando trasmetti quella verità al pubblico. E devi dosare sapientemente quando e quanta gliela offri, per non finire in buffonata.

Come ben sai, io cerco di offrire ai lettori romeni, nella collana bilingue Biblioteca Italiana dell'editrice Humanitas, anche volumi di teatro italiano con apparato critico. Quale utilità credi che abbiano, per voi uomini di teatro, questi testi?

Il testo corretto, autentico e corredato di note, offerto da un’edizione come le tue, è per noi il necessario punto di partenza, cioè quello della comprensione e della penetrazione nell’atmosfera e nella cultura dell’epoca rispettiva. Poi, nel secondo momento, lo spettacolo ci richiede di adattare il testo alle attese, alla durata e al ritmo del pubblico di oggi: con poche eccezioni, i testi teatrali scritti secoli fa vengono rimodellati sul palcoscenico. Ma per penetrare il loro spirito, le loro caratteristiche espressive, nel processo che precede la messinscena, c’è bisogno di ciò che fate voi nella collana bilingue: ciò per non tradire l’autore e non danneggiare il suo messaggio.




Intervista realizzata e tradotta da Smaranda Bratu Elian
(n. 12, dicembre 2014, anno IV)