«Numele trandafirului», l'impresa di Grigore Gonta al Teatro di Bucarest. Un libro e un'intervista

Nel 1998 Grigore Gonţa, noto regista romeno, mette in scena per la prima volta al Teatro Nazionale di Bucarest Numele trandafirului, spettacolo teatrale basato sul celebre romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa.
Impresa volta ad un'efficace resa drammaturgica e scenica di un’opera molto complessa per tema, struttura e linguaggio, lo spettacolo di Gonţa costituisce il tema e l’orizzonte del volume del professor Armando Rotondi dell'Università di Napoli «L’Orientale»:
«Il nome della rosa» a teatro - Aspetti scenico-letterari di «Numele trandafirului» da Umberto Eco a Grigore Gonţa (Ed. Nuova Cultura, Roma 2015). Tra i diversi temi, il saggio sviluppa anche una riflessione teorica sul rapporto romanzo-teatro, che chiama in causa tra l'altro i concetti di adattamento e di «riscrittura» nelle varie forme in cui questi si attuano.
Di seguito, un'’intervista del professor Rotondi a Grigore Gonţa, tratta dal volume citato.



Maestro Gonţa, Il nome della rosa può essere definito un giallo, in fin dei conti. Tuttavia, carico com’è di descrizioni ambientali, di conversazioni di carattere erudito, teorico e teologico, e di elementi storici, è anche uno dei romanzi forse più difficili per una trasposizione teatrale. Alcuni lo avrebbero anche ritenuto impossibile. Perché ha scelto proprio questo libro?

La mia attenzione è caduta su Il nome della rosa, in primo luogo, per il suo valore in sé da un punto di vista artistico. È un grande romanzo. Quindi per la sua spettacolarità che era una sfida nell’atto stesso di pensare a metterlo in scena. Vi è tuttavia anche un altro aspetto che mi ha colpito. Si tratta di echi molto evidenti presenti nel romanzo e che ritrovano riferimenti alla e nella contemporaneità. Il nome della rosa romanzo e poi Numele trandafirului per la scena erano testi che dimostravano l’assurdità della censura, perché tutto ruota intorno a un libro censurato. Per il lavoro di drammatizzazione del romanzo ho impiegato un tempo abbastanza lungo. Vi ho iniziato a lavorare subito dopo il 1990. Il comunismo e Nicolae Ceaușescu erano crollati da pochissimo tempo, e venivamo da un periodo in cui la censura e il censurare la cultura erano all’ordine del giorno.

Qual è secondo lei l’elemento più importante del libro da trasporre sulla scena?

In realtà non vi è un momento o una parte specifica del romanzo che abbia catturato la mia attenzione più delle altre. Per tutto lo spettacolo ho cercato di conservare l’evoluzione del testo di Eco riportandolo sulla scena, facendo diventare il romanzo come uno spettacolo assoluto.

Quindi si è trattato di una riscrittura e di un adattamento integrale?

Sì, integrale, e che avrebbe dovuto rispecchiare pienamente il romanzo, non soltanto la narrazione e i dialoghi di Eco, ma anche le sue descrizioni degli ambienti, che le abbiamo letteralmente fatte vedere, pur nei limiti dello spazio teatrale. Da questo punto di vista la scena e il palco del Teatro Nazionale sono stati di fondamentale importanza, perché erano grandi in tutto, e hanno reso possibili scene come quella finale quando la scenografia prende fuoco, la biblioteca brucia e c’è un complesso lavoro di stuntman. Narrazioni non avevano più senso, si vedevano. La scena/il palco del Teatro Nazionale era una scena grande in tutto, nel finale dell’opera prende fuoco, ci stavano gli stuntman in fiamme quando prende fuoco la biblioteca. Poi c’erano i migliori attori di Romania: e c’erano i miglior attori di Bucarest e del paese come Radu Beligan e Gheorghe Dinică.

La drammatizzazione ha comunque investito il romanzo di Eco nella sua integrità. L’adattamento prevedeva dei tagli?

Sì, per forza di cose. Non potevo certo farne un romanzo, ma allo stesso tempo non potevo soffermarmi solo su di una parte.  Il mio spettacolo mostra, o anche suggerisce, cose che in Eco sono descritte.
Chi non era riuscito ad assistere allo spettacolo mi ha chiesto, cito, «La parte poetica l’hai conservata?» Certo, l’avevo mantenuta. Insistevano: «E la parte filosofica?» Certo. La componente politica? Certo. Ho mantenuto la letteratura specifica del romanzo conservando le peculiarità, le caratteristiche e gli elementi di un testo teatrale. 

Il linguaggio di Eco è molto complesso. Ha attualizzato il linguaggio in un romeno contemporaneo o lo ha comunque semplificato?

No, si è cercato di trasporre il testo esattamente alla Eco. Il traduttore era molto bravo e ha badato fortemente alle parole. Il pubblico comunque non si è lasciato per nulla intimorire o distrarre nonostante la difficoltà. Si pensi alla scena d’amore tra Adso e la ragazza. Lei sembra completamente nuda. Eppure vi sono dei dialoghi e il pubblico invece di concentrarsi solo sulla nudità vuole ascoltare le singole parole per coglierne il valore. Perché in Eco ogni parola ha un valore straordinario. Il pubblico era sempre molto attento e invitava rigorosamente al silenzio.

Spostiamo la nostra attenzione sulla componente visiva. Come è stato possibile ricreare sulla scena l’abbazia in tutta la sua complessità?

Sono partito dalla chiesa che è stata ricreata in teatro travalicando i confini del palco e coinvolgendo direttamente il pubblico sin dal suo ingresso. Gli spettatori entrano in sala e si ritrovano, sipario alzato, già all’interno dell’abbazia e della chiesa, nel momento della funzione della messa. Durava circa venti minuti, il tempo che il pubblico si sistemasse ai propri posti e poi avesse inizio l’azione vera e propria. In tal modo, le persone erano già immerse nell’atmosfera dello spettacolo e in un ambiente.

Poi vi sono gli altri spazi, come la fondamentale biblioteca o il refettorio, che di volta in volta prendono posto sulla scena. Probabilmente proprio il gestire un tale impianto scenografico è stata la cosa più difficile come regista.

Era uno spettacolo enorme, luministicamente bellissimo. E l’uso delle luci così tagliate era anche dovuto allo stile gotico dell’epoca tardo medievale che richiamava espressamente questi giochi di fari. Avevamo anche ricostruito delle vetrate da cui la luce poteva penetrare. L’impatto visivo era eccezionale senza dubbio.
La cosa più difficile da gestire sono state sicuramente le soluzioni scenografiche che dovevano cambiare, anche con ritmi diversi. Tutto doveva partire con un ritmo lento e divenire pian piano accelerato. E non parlo solo della scenografia propriamente detta. Bisognava che i personaggi fossero ben delineati, non soltanto da un punto di vista drammaturgico, ma anche da un punto di vista visivo, come se fossero degli affreschi. Per non parlare del gioco di luci o della musica che non era pre-registrata ma dal vivo. Quindi un’ulteriore difficoltà da gestire.

Ho trovato molto interessante l’utilizzo delle luci, che creano atmosfere che immergono lo spettatore nell’ambiente e delineano con forza lo spazio. Hanno elementi molto pittorici, con un grande lavoro di chiaroscuro.

L’atmosfera era molto forte, oscura, come d’altronde l’atmosfera di Eco è volutamente fredda. È per fare questo mi sono dovuto documentare molto sulla pittura, come hai detto per il chiaroscuro, e mi è stato di enorme aiuto sia per le luci che per i cambi di scena, che scorrevano uno dopo l’altro come se fosse un film. Ho letto e mi sono documentato molto e su diverse fonti. La documentazione sul quel periodo è stata globale: pittura, letteratura, riti, elementi grafici.

Per la chiesa si è ispirato a una specifica e reale?

Devo dire di no. Quando trasponi le cosa sulla scena non puoi fare un lavoro di «archeologia». Fai un’interpretazione. Si deve creare un’atmosfera di chiesa, stilizzata anche per necessità. In teatri si lavora in economia il più delle volte e si deve puntare sulla suggestione, molto pittorica in questo caso e con un sapiente uso di luci. Al di là delle vetrate e dell’architettura della chiesa, seguendo lo stile gotico dell’epoca, ci sono elementi di decoro. Ad esempio soltanto un albero spoglio senza foglie che ricrea l’esterno spaziale ma anche temporale con l’idea di un mese freddo, come novembre è il mese in cui si svolge il romanzo. Anche gli altri ambienti sono realizzati così attraverso elementi che creano un insieme. Si pensi agli scrittoi dei monaci che copiano i manoscritti o alla scrivania dell’abate. Un’atmosfera semplice ma suggestiva.

Nel 1986 Jean-Jacques Annaud realizza la sua versione cinematografica dal romanzo di Eco. Il testo della drammatizzazione o la messa in scena del suo Numele trandafirului sono stati in qualche modo influenzati dal film?

No, assolutamente no. Annaud ha modificato molte cose, anche troppe, aggiungendo elementi che non sono per niente pertinenti. A me, ad esempio, il finale della pellicola non è piaciuto affatto, perché il finale del film non c’entra nulla con quello di Umberto Eco, con il ritorno della ragazza con cui Adso ha passato una notte di amore e il fatto che il significato di «nome della rosa» possa essere attribuito a lei. Io ho voluto essere fedele, anche se il finale, anche per motivi tecnici, è dovuto essere posto all’incendio della biblioteca e della chiesa, con il taglio degli ultimi dialoghi. Avevamo pompieri per proteggere la scena, per non far prendere fuoco nel finale all’intero teatro! Era spettacolare perché lo stuntman era in fiamme e bisognava lasciare che lui desse la sensazione che stesse prendendo fuoco per davvero. Si doveva avere la sensazione che si sprigionasse fumo e fuoco, e che tutto bruciasse.

A proposito di Numele trandafirului, vi è anche un aneddoto di un incontro a sorpresa di Umberto Eco, un episodio che ha ricordato anche Radu Beligan in una sua intervista.

Nel periodo in cui lo spettacolo era già in scena, mi trovavo alla fiera internazionale del libro di Bucarest, «Gaudeamus», e camminavo per gli stand. Mia figlia all’epoca era ancora piccola e vide un libro che attirò la sua attenzione. Così mi fermai. Si trattava di un libro per bambini a firma di Umberto Eco. Lo comprai senza farci molto caso. Poi, quando aprii la prima pagina, notai che mi era stato firmato e scoprii che colui che mi aveva segnato l’autografo sulla mia copia era Umberto Eco in persona. Ero molto sorpreso. Non sapevo che Eco fosse a Bucarest, né tantomeno sapevo che era ospite della fiera. Pur lavorando sulla drammatizzazione de Il nome della rosa, non avevo instaurato una corrispondenza direttamente con lui. Colsi l’occasione, mi presentai, gli dissi chi ero e gli chiesi dieci minuti per parlare di Numele trandafirului. Mi disse che ne aveva a disposizione solo cinque. Gli ho detto che avrei voluto che il nostro incontro avesse luogo nello studio televisivo, perché così avrei potuto mostrare almeno parte dello spettacolo che avevo filmato. Così accadde che, invece di trattenersi solo cinque minuti, è rimasto per ben tre ore, l’intera durata dello spettacolo, dopo le quali mi ha dato con grandissimo piacere la sua approvazione.
Lo pregai di fare una dichiarazione pubblica a favore dello spettacolo. Chiamò quindi un operatore e concesse la sua dichiarazione elogiando lo spettacolo. Fu un vero punto di svolta.

Come è stato il riscontro da parte della critica giornalistica? So che ci sono state «due fasi», se possiamo dire così.

Dopo aver ottenuto l’approvazione anche di Umberto Eco, la critica fu molto favorevole e ben disposta. Elogiò molto lo spettacolo. Invece prima, quando non avevo ancora avuto questa pubblica approvazione, si interrogava piuttosto di come fosse possibile fare lo spettacolo senza alcun appoggio politico, eppure riscuotendo grande successo. E in effetti, il successo vero è stato riscontrato con il pubblico, che era preparato al fatto che si sarebbe trovato di fronte a un testo e uno spettacolo complesso, difficile, non commerciale, un testo profondo con molti spunti che riguardavano anche l’attualità, almeno per la Romania.
L’ho messo in scena più di cento volte con la sala strapiena, ben mille e duecento posti tra platea e posti, seduti e in piedi (loggione), uno spettacolo grandioso, uno spettacolo in cui il finale ha richiamato applausi a scena aperta per più di venti minuti.

Uno spettacolo così impegnativo scenograficamente è stato allestito in uno spazio grande come il Teatro Nazionale di Bucarest. Come è stato possibile portarlo in altre città romene?

Abbiamo fatto tappa a Cluj, Timişoara, Braşov. Ci adattavamo in tutto. Non solo dal punto di vista della scenografia. Anche con alcuni elementi attoriali e le comparse. Per esempio andavamo prima e sceglievamo localmente il coro che recitava la parte in latino, gran parte del coro era in latino. Sceglievamo lì un coro, lo mettevamo a provare, arrivavamo con i costumi, posizionavamo il coro sul palco dove ritenevamo più opportuno a seconda dello spazio a disposizione, davamo indicazioni. Quindi prendevamo comparse del posto. Non potevamo portare di certo con noi tutti questi elementi da Bucarest. Era troppo caro.

Si è avuto necessità di un grosso budget per la realizzazione dello spettacolo?

No, il budget non era grande. Gli unici elementi davvero difficili, da un punto di vista realizzativo, erano l’iconografia della chiesa e del monastero. Il resto erano elementi. Posso dire, ad esempio, che tutti i costumi erano sacchi di tela dipinti come quelle dei monaci, e che nella scena dell’inquisizione abbiamo aggiunto un po’ di rosso e viola. Non è stato molto costoso.

Il risultato è stato colossale.

Sicuramente. La sala era sempre piena in ogni ordine, con 1200 posti occupati e più di 100 repliche, con 160 bis. Non è una sciocchezza di certo. È un allestimento spettacolare e credo che Umberto Eco meritasse una tale versione scenica. Non si tratta tuttavia di una semplice descrizione visiva del testo. Si tratta di qualcosa di molto più profondo, più doloroso. Ritorno sul tema della censura del sapere, del pensiero e della cultura, ma esso va al di là della censura comunista con la quale io e noi abbiamo potuto fare un parallelo. Il romanzo e poi lo spettacolo hanno giocato e giocano con la Storia, che è contemporanea, perché valida ovunque e per sempre.




Intervista realizzata da Armando Rotondi
(n. 3, marzo 2016, anno VI)