Dinu Flămând: «Petrarca, Leopardi, Montale... La poesia futura arriva dal passato»

Dinu Flămând è poeta, traduttore, saggista, critico letterario, giornalista, commentatore politico e diplomatico. Nato a Susenii Bârgăului, provincia di Bistrita Năsăud, nel Nord della Transilvania, è tuttora profondamente legato al paesaggio e ai valori della civiltà transilvana. Ha studiato filologia all’Università di Cluj e in quel periodo è diventato membro fondatore del cenacolo e della rivista «Echinox» che, alla fine del secolo scorso, ha segnato uno dei movimenti letterari più importanti della Romania.
Esordisce in quanto poeta sulla rivista «Tribuna», nel 1966, e continua a pubblicare tanto poesia quanto saggi critici, traduzioni, servizi, su riviste letterarie e pubblicazioni importanti del tempo.  Dopo la laurea lavora per le redazioni di vari giornali e riviste di Bucarest, fra cui «Amfiteatru» e «Secolul 20».  Nel 1971, per ragioni politiche, viene trasferito dalla «Centrale del libro» per aver rifiutato di implicarsi nella censura ideologica dei libri. Alla fine degli anni ’80 si stabilisce, come rifugiato politico, a Parigi dove, per venti anni, è giornalista a Radio France Internationale, per poi ritornare in patria, dove realizza trasmissioni televisive sull’attualità romena e internazionale. Nel 2011 è nominato consigliere del Ministro degli Esteri romeno e nel 2013 ministro consigliere dell’Ambasciata Romena di Parigi. Durante tutto questo tempo continua a pubblicare volumi di poesia, di saggistica e traduzioni dalla grande poesia universale, da varie lingue (francese, italiano, spagnolo, portoghese, inglese). Per fare un solo esempio, le sue traduzioni della serie Fernando Pessoa hanno aperto la cultura romena alla creazione di questo grande autore. I volumi di poesie di Dinu Flamand, molti apparsi anche in altre lingue presso case editrici di prestigio di vari paesi, i suoi saggi critici e le sue importanti traduzioni hanno ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali; nel 2011 gli è stato conferito il Premio Nazionale di Poesia «Mihai Eminescu» per l’Opera Omnia.
La mia amicizia con Dinu Flămând è iniziata nel 2007, all’occasione del progetto di un’antologia della poesia di Umberto Saba, La capra e altre poesie, apparsa nel 2009 nella collana bilingue «Biblioteca Italiana» della casa editrice Humanitas di Bucarest. È allora che ho capito che significa avere «la ghiandola della poesia», cioè penetrarci dentro e imbeversene. Così che, dopo, non mi ha più stupito la passione con cui leggeva le poesie di Pavese, oppure, di recente, quando incontrandolo nella libreria Kretzulescu, mi ha raccontato in estasi come, mentre fa gli esercizi ginnastici, ascolta nelle cuffie la voce cavernosa di Ungaretti che legge le proprie poesie.

Dinu Flămând, sei uno dei fondatori della rivista «Echinox», che agli italianisti evoca il nome di Marian Papahagi, personalità somma dell’italianistica romena. Che cosa ha significato – per voi, per te, per Marian, per la vostra amicizia – l’esperienza di «Echinox» negli anni ’70,  vista dal di dentro? 
 
Ci sono al mondo pochi uomini che aspirano a brillare nel loro intimo. Marian Papahagi era uno di questi. Non ho mai avuto la sensazione che voleva mettersi in mostra. Ho sempre riconosciuto con gioia le scintille del genio, per cui non pretendeva altro che un vago apprezzamento umoristico. Man mano che venivo a conoscerlo e a capirlo, mi affascinava sempre di più. Dopo i nostri primi contatti per il progetto della rivista «Echionx», guardavo sempre più ammirato la complessità spigliata di quel giovane quasi imberbe. Capiva tutto al volo e trovava la formula più sintetica e adeguata per esprimerlo. In due parole ha spiegato a me, a Eugen Uricaru e a Marcel Runcanu come dovevamo evitare la trappola del sistema ideologico comunista se volevamo creare un’autentica rivista letteraria. Dovevamo cominciare dal titolo stesso, che andava proiettato nelle sfere intemporali: Echinox! Si capisce che tutto quello che avremmo pubblicato sarebbe stato per lo meno geniale, senza compromessi ideologici e senza le costrizioni «estetiche» del tempo. Un programma vasto... Era così bello e semplice quanto diceva Marian, e suonava così profondamente autentico! E così ci sentivamo e eravamo anche noi, quelli del primo gruppo. La nostra purezza di allora ci spingeva a chiedere l’impossibile. E l’abbiamo ottenuto, anche se, ulteriormente, abbiamo negoziato drasticamente ogni centimetro di libertà. La testimonianza più recente dei nostri esordi è un libro apparso questi giorni a Cluj, presso la casa editrice Şcoala Ardeleană. Si tratta della corrispondenza tra Marian Papahagi, studente a «La Sapienza» dal ’69, e il giovane assistente universitario Ion Pop, rimasto a Cluj e diventato, a partire dal secondo numero, caporedattore della rivista. Noi eravamo fieri che Marian aveva vinto il concorso per la borsa di studio a Roma da autodidatta, dato che a quei tempi all’università di Cluj non si studiava l’italiano. Ma tutti noi l’avevamo avvertito che lui a Roma non andava solo per studiare, ma anche per lavorare per noi, per procurare alla rivista (alla quale aveva lasciato una bellissima traduzione di alcune poesie di Pavese) articoli, studi, poesie, servizi, insomma tutto quello che era umanamente possibile. E lui ha adempiuto con brio a questi doveri e ci ha portato, soprattutto dopo il primo contatto con il Portogallo, autori portoghesi e brasiliani. Lui era, come in un sonetto di Pessoa, una specie di «messo di un re sconosciuto» che doveva capire e definire da solo la propria missione.

Sono felice che tu colleghi la tua esperienza a «Echinox» a Marian Papahagi e ai suoi contributi mandati dall’Italia. Il tuo accostamento alla lingua e alla letteratura italiana ha a che vedere con Marian?

Senz’altro. Spinto dal desiderio di rassomigliargli, avevo cominciato a leggere in italiano, spagnolo e portoghese, ma senza dirlo a nessuno. Io non avevo l’istinto linguistico di Marian che – posso confermarlo – a un certo momento era sprofondato nella lettura comparata di alcune… grammatiche. Era un fenomeno. Una sera d’estate passeggiavamo per Cluj e un giovane straniero si era avvicinato a noi per chiederci un’informazione. Era italiano o forse spagnolo, filologo preparatissimo anche lui. In una mezzora, e dopo alcuni bicchieri di vodka, Marian conversava con il tizio in… latino! Noi altri ridevamo a crepapelle dello stupore di quell’occidentale che avrà pensato che il comunismo dell’Est non era poi così ignorante se incoraggiava una simile emulazione rinascimentale! Tengo pure a precisare che Marian è tornato in Romania quando non aveva ancora messo su famiglia e dunque poteva accettare il posto offertogli a Roma. Ed è tornato, probabilmente, perché a Cluj continuava ad esistere l’«Echinox». Ha pagato caro questa decisione, perché per lungo tempo all’università di Cluj ha occupato solo il posto insignificante di assistente, lui che sapeva più lingue romanze di tutti i docenti del dipartimento. Una sola volta l’ho sentito rimpiangere la mancanza di contatto con Roma, impostagli per più di un decennio. Lamentava di sprofessionalizzarsi! Non aveva più contatti con i recenti studi danteschi (a quel tempo non esisteva l’internet ed era quasi impossibile procurarsi libri o articoli dall’estero). Oggi quando si considera che l’«informazione» è solo un genere di merce che aspetta ad essere carpita, per chi non si accontenta semplicemente di mediocri riassunti, la sofferenza di allora di Marian potrebbe sembrare incomprensibile. Oh, tempora… quanto eravamo felici nella nostra infelicità…

A differenza di Marian Papahagi, tu hai scelto a un dato momento, come tanti altri intellettuali romeni, l’esilio. Come forse sai, alcuni dei recenti emigranti romeni – che, grazie a Dio, non si possono più chiamare esiliati – si cimentano nello scrivere letteratura nella lingua della seconda patria. Che cosa ha significato per lo scrittore che sei l’esilio? Sei mai stato tentato di abbandonare la tua lingua?

Io ho capito subito che non scriverò mai in una lingua di prestito, almeno non poesia. So che alcuni grandi poeti l’hanno fatto (Ungaretti, Huidobro, Pessoa e altri); ma è facile constatare che la loro poesia più alta è sempre quella nella lingua madre. I giovani di oggi sembrano vivere felicemente in una sorta di plancton plurilinguistico e non pochi tentano di scrivere poesia nella lingua di adozione, con risultati più o meno felici. Ho letto di recente buone poesie scritte direttamente in portoghese da Golgona Anghel, dunque ammetto che non è impossibile. Ma ho letto anche molta poesia scadente scritta da autori romeni in altre lingue, che non supera la soglia della semplice espressione corretta. La poesia ha bisogno di una rischiosa «scorrettezza» che, secondo me, non si può controllare se non nella propria madrelingua. Ma forse mi sbaglio. Molti risentono i limiti della circolazione e le difficoltà di traduzione cui ci obbliga il romeno. Forse hanno ragione. Io credo però che l’importante è che l’opera «resista» alla traduzione – lo so in quanto traduttore. Dicono che in prosa sia più facile – Nabokov ne è un buon esempio. Ionesco scriveva in francese da giovane, Cioran è rinato usando il francese in filosofia. In lui ha funzionato una reciproca influenza, come in Becket. Per me l’esilio, così come si è configurato nel primo anno e poi, con mia sorpresa, anche nel decennio successivo al cambiamento del regime politico in Romania, è stato un’esperienza complessa che quasi non so descrivere. Ma io ho avuto la fortuna di preservare il mio romeno, schietto e incontaminato, a causa delle trasmissioni radio da Parigi – anche se, sporadicamente, ho praticato anche il giornalismo in francese. Più tardi ho avuto la conferma che le mie poesie scritte in romeno erano recepite diversamente nei vari paesi in cui erano tradotte. Questo è il miracolo della poesia: non sai mai a quale sensibilità di rivolgi. Ma tu devi accertarti che la tua lingua travagliata – la lingua della tua creazione, che tu sospetti, corteggi, violenti per poi di nuovo adescarla – conserva la tua autentica sensibilità, la tua emozione genuina.

Sei, in questo momento, uno dei più importanti traduttori di poesia; in più, traduci da cinque lingue. Come sono arrivate a te tutte queste lingue? Come sei approdato alla poesia italiana?

Tutte le lingue dalle quali traduco sono arrivate a me attraverso la poesia. In portoghese, sono andato direttamente a Pessoa, non alla grammatica. Questo fa che, eccetto il francese, nel parlarle non ho grande scioltezza; io non tengo a esprimermi in esse, ne approfitto soltanto per assorbire passivamente le loro particolarità tramite la poesia. Con l’italiano le cose sono andate diversamente: la maggior parte dei collaboratori di «Echinox» (Papahagi, Uricaru, Adrian Popescu, Runcanu, Pia e altri) già sapevano l’italiano, e ho dovuto raggiungerli di nascosto. Ma non l’ho fatto sistematicamente, e ciò si vede non appena mi lancio in discussioni ampie e linguisticamente rischiose. Ma il primo contatto profondo l’ho avuto con Leopardi. Sono stato abbagliato dallo splendore di quel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dell’immensità di quel linguaggio semplice quanto solenne. Passi come: «Che fa l'aria infinita, e quel profondo/Infinito seren? che vuol dir questa/ Solitudine immensa?» ed io che sono? si sono impressi da sé nella mia memoria. Lo stesso sentimento di immensità l’ho ritrovato nel famoso distico di Ungaretti, «M’illumino/d’immenso», poema che raggiunge la plenitudine tramite una suprema condensazione. È interessante vedere come l’ampiezza romantica e la compressione ermetica possono arrivare allo stesso risultato, con mezzi espressivi tanto diversi. Quando sono riuscito a metter piede per la prima volta in Italia, ho avuto la fortuna di essere invitato alla cerimonia dei premi letterari «Viareggio», dove ho conosciuto Antonio Porta, poco prima della sua prematura scomparsa. Credo di avergli fatto una certa impressione quando gli ho recitato, con il mio accento dell’Est, parte del viaggio del pastore leopardiano. Se ne è divertito e mi ha regalato una pila di libri, fra cui anche l’allora recente antologia I Novissimi.

Inaspettato e felice per me questo esordio con Leopardi. Ma io so che tu conosci benissimo la poesia italiana del Novecento. Parlami delle tue preferenze.

Inizierei con la poesia di Pavese, che è un caso speciale e un buon esempio di raffinata narratività lirica alla quale ritorno periodicamente. Montale lo leggevo sui libri della biblioteca di Marian e anche grazie alle sue traduzioni. Quasimodo e Saba li ho scoperti quasi nello stesso tempo. Ma dato che ero appassionato di Ion Barbu e mi pareva interessante l’esperienza di Emil Botta, sono stato ammaliato dall’orfismo splendidamente oscuro e difficile di Mario Luzi, di cui ho tradotto e pubblicato qualcosa non mi ricordo dove. Ma il suo opuscoletto Avvento notturno mi sarebbe stato regalato dall’autore stesso il 21.03.2004, un anno prima della sua scomparsa, a Frascati, dove partecipavo, in veste di poeta francese, al convegno dedicato al grande ermetico. Rimasi stupito a vedermi collocato nella presidenza, accanto al poeta stesso, alla vedova di Montale e vicino a Carlo Bo, e questo perché avevo imprudentemente recitato a memoria, a uno degli organizzatori: «Ma tu continua  e perditi, mia vita,/per le rosse città dei cani afosi/convessi sopra i fiumi arsi dal vento», così che dimostravo di avere una qualche conoscenza del nostro poeta. E siccome una casa editrice di Genova, San Marco dei Giustiniani, aveva appena stampato una nuova edizione della fondamentale raccolta luziana apparsa nel 1940, il poeta me l’ha regalata «con un suo pensiero».   
Ma desidererei conoscere meglio la poesia italiana da Pasolini, Tonino Guerra, Sanguineti in poi. Però le mie preferenze vanno nella direzione dei nomi già citati, anche perché alcuni di questi poeti erano apparsi nella collana romena «Le più belle poesie» –  quelle traduzioni, più o meno riuscite, aiutavano noialtri, studenti liceali degli anni ’60, a sbirciare oltre il muro sterminato del «proletcultismo». Dopo, in ogni mio viaggio in Italia, comperavo libri di poesia. Ma io credo di essermi ormai liberato dalla sincronizzazione alla modernità; dieci anni or sono, per esempio, ho letto assiduamente Petrarca e la sua «formidabile» ascensione sul Monte Ventoso, dove mi illudevo di calcare le sue orme; l’ho persino un po’ deriso in un ciclo di mie poesie, ma con tenerezza. Ora leggo attentamente i suoi sonetti, che prima leggevo un po’ a caso, li leggo persino parallelamente a quelli di alcuni suoi «epigoni», come  Camões o di Quevedo. Tutti e tre stanno sulla mia scrivania e scandiscono il delicato endecasillabo in tre figlie della lingua madre latina, splendida musica dello spirito per me ormai irrinunciabile. Fatto sta che, se ci penso bene, credo di aver capito che la poesia futura la vedi arrivare dal passato, da dove arriva anche la luce delle stelle. In questo senso, la mirifica Italia, con le sue culture sovrapposte, è in un certo senso l’alma mater della mia profonda identità latina, che io coltivo secondo le mie forze e di cui vado fiero.

Ho assistito, in un certo modo, alla nascita del progetto La luce delle pietre, ossia l’antologia dalla tua lirica scritta fra il 1998 e il 2009, a cura di Giovanni Magliocco per la casa editrice Palomar di Bari. Parlami di questo volume e di quest’esperienza editoriale.

Non ricordo bene dove ho incontrato per la prima volta il giovane Magliocco, ma so che sono rimasto affascinato della sua abilità e disponibilità ad assimilare la cultura romena. Ne sono testimoni un suo saggio, molto serio, pubblicato ulteriormente, sul Circolo di Sibiu,  e i suoi studi di cartografia linguistica romena e le sue traduzioni, per cui noi romeni dobbiamo essergli grati. Il progetto di pubblicare quella antologia è nato, come ben ti ricordi, quando grazie a te ero stato invitato insieme ad alcuni illustri italiani a un convegno nella città francese di La Rochelle. E lì che ho conosciuto Gianfranco Cosma, direttore della casa editrice Palomar, che, dopo una breve conversazione, mi ha invitato a pubblicare da lui prima ancora di aver conosciuto la mia poesia. Per convincermi, mi ha fatto vedere la sua ultima edizione bilingue, quella delle poesie di René Char : mi stava bene?! A Magliocco ho lasciato piena libertà nella scelta delle poesie, idea ispirata poiché nel grande disordine delle mie poesie lui è riuscito a trovare un criterio unificante. Ma io credo che noi romeni non approfittiamo quanto potremmo della nuova generazione di virtuali traduttori dal romeno in italiano, formati presso alcune università italiane, soprattutto Pisa, Torino e Cosenza. Colpa della nostra tradizionale lentezza, mancanza di iniziativa e di continuità nei grandi progetti. Credo che non sarebbe proprio difficile di trovare una casa editrice italiana di prestigio che pubblichi sistematicamente letteratura romena classica e contemporanea, come invece avviene con la letteratura italiana grazie alla tua collana bilingue della casa editrice Humanitas. Mi congratulo sinceramente con te per questa meravigliosa serie con testo bilingue e apparato critico, che ha creato anche una emulazione fra i traduttori romeni. Traduzioni romene di capolavori della letteratura italiana non mancavano neanche prima, ma la tua collana ha offerto alle nuove generazioni un progetto articolato e lungimirante: cosa importante – perché la vita delle traduzioni è imprevedibile quanto quella della grande poesia e della letteratura in genere, che rinasce miracolosamente, inaspettatamente fresca, con ogni nuova generazione.  

La traduzione, si sa, significa penetrare nelle viscere di un testo per restituirle a un nuovo corpo riconoscibile e adottabile, insieme alla propria anima, da stranieri che, in genere, non conoscono il corpo originale. La necessità delle traduzioni per la circolazione della cultura non ha più bisogno di spiegazioni. Che significa però la traduzione per un poeta come te?   

Tutte le traduzioni che ho fatto mi hanno arricchito in modo decisivo, perché mi hanno obbligato a leggere i rispettivi testi dal di dentro e mi hanno facilitato un formidabile dialogo con i loro autori. Nei primi anni, miseri, in cui ci incontravamo in qualche taverna per stare insieme pur sempre in solitudine, e dimenticare, questo significava moltissimo. Più tardi ho imparato molte cose anche dalla difficoltà di entrare in testi difficili, per rivoltarli, come si rivolta un guanto, per vivisezionarli, scomporli e ricomporli, per conferirgli una nuova vita... E poi il complesso esercizio della traduzione ti placa in parte le proprie vanità, ti rende umile, pure ti insegna che nel corpo del testo devi circolare liberamente. Io credo che non è mai impossibile rendere l’intensità di un’emozione o un granello di geniale sensibilità a condizione che tu, traduttore, la viva con la stessa intensità.

Tu sei un gran lavoratore. E credo che tu possa condurre in porto tanti progetti perché te ne appassioni quasi sempre. E dove c’è passione non si parla di lavoro. Tra i tuoi progetti futuri non trova posto anche la poesia italiana? A Humanitas la mia collana ti aspetta!

Ti ringrazio di cuore per questo invito. Io non ho mai tradotto se non ho sentito l’urgenza di offrire al mio lettore romeno ideale la lettura decisiva che credevo di aver raggiunto io. Credo che io stia raccogliendo una collezione propria di grandi poeti e di letture importanti, creata per me e da me offerta al lettore romeno di oggi e di domani. Cosa posso dirti? Mi attira il difficile Luzi o il difficilissimo Ungaretti... ma per ora il vento del presente muove appena la banderuola sui loro tetti...

Non vorrei chiudere senza sentire da te un briciolo di poesia italiana in cui tu ti ritrovi del tutto.

Mi ritorna spesso in mente quell’inizio di una poesia di Saba il quale, come ogni poeta, si tirava fuori dalla propria inerzia, dal proprio strazio, per guardarsi allo specchio: e allora vedeva dietro di sé la statua del Commendatore, minacciosa e ironica, eppure si congratulava di essere... poeta: «Il poeta ha le sue giornate/ contate/ come tutti gli uomini; ma quanto,/ quanto variate».



Intervista realizzata e tradotta da Smaranda Bratu Elian
(n. 9, settembre 2015, anno V)