«Emil Cioran, il grande speculativo, clochard della filosofia». Intervista ad Antonio di Gennaro

«La filosofia, secondo Cioran, ha a che fare con ciò che propriamente siamo nella profondità del nostro essere. La filosofia ha a che fare con la radice più propria della soggettività: i sentimenti, le emozioni, le passioni. In questo senso essa è patosofia, pensiero della vita, ricerca di un senso nonostante l’assurdità del reale. Io credo che Cioran sia uno dei più importanti filosofi del Novecento, uno dei più profondi speculativi, uno dei più autorevoli metafisici, insieme a Martin Heidegger e Karl Jaspers, anche se, a differenza di Heidegger e Jaspers, Cioran non è mai stato un filosofo di professione, un accademico, un docente universitario, quanto piuttosto un pensatore privato, un libero scrittore, un ʻviandanteʼ o un clochard della filosofia». Uno sguardo a tutto campo sull'opera e sulla ricezione del pensiero di Cioran è la sostanza dell'intervista che il filosofo romeno Ciprian Vălcan propone ad Antonio di Gennaro, acuto e appassionato lettore dei testi del pensatore di Răşinari (Sibiu).


Come ha scoperto l’opera di Cioran?

Nell’ottobre del 1999 mi sono laureato in Filosofia all’Università di Napoli discutendo una tesi dal titolo Filosofia e storia della filosofia nel pensiero di Karl Jaspers. Successivamente mi sono iscritto ad un corso di perfezionamento in «Religione e cultura nella storia d’Occidente», sempre all’Università di Napoli. Ricordo che alla fine di una lezione chiesi ad un docente, che aveva appena parlato di Nietzsche, di fornirmi indicazioni su testi che avessero come tema il ʻdoloreʼ. Lui fu preso alla sprovvista e non seppe darmi informazioni precise o consigliarmi autori particolari. In quegli anni, il ʻdoloreʼ era per me un’urgenza, un’emergenza da affrontare. Avvertivo il dolore come una profonda verità, una ferita nell’animo. Per questo motivo ero alla ricerca di scrittori, poeti, filosofi che avessero posto al centro della propria riflessione o della propria scrittura questo tema. Cercavo un confronto, chiedevo risposte. Avvertivo che la filosofia, quella appresa all’Università, non era di alcun aiuto. Troppo astratta, teorica, non offriva risposte. Non mi era di aiuto la gnoseologia di Kant, lo storicismo di Weber o di Dilthey, l’ermeneutica di Gadamer e nemmeno la filosofia dell’esistenza di Jaspers, Sartre o Heidegger. Un giorno (era l’anno 2000, circa) un amico mi regalò una copia del volume La Chute dans le temps di Emil Cioran. Il libro, in un primo momento, non mi colpì particolarmente, ma le ultime pagine furono per me «folgoranti», «illuminanti», incentrate come sono sulla «coscienza del tempo». Da quel momento iniziò per me una lettura serrata e approfondita di tutte le opere di Cioran e sul suo pensiero. Ogni opera era per me un universo da esplorare. Scoprivo e mi innamoravo di un autore, che non trattava di concetti astratti o di astruse teorie, ma di concrete esperienze vissute (la noia, il dolore, la disperazione, l’insonnia, la solitudine, la morte). Era il «filosofo» che cercavo, il non filosofo di professione, il «saggio» che non insegna filosofia all’università, ma che è in grado di indicarti una via, un percorso esistenziale. Questo è l’aspetto affascinante di Cioran: in lui la filosofia è autentica consolazione dell’anima, ricerca di un senso nonostante l’assurdità della vita e l’inconveniente di essere nati.

Qual è la sua interpretazione dell’opera di Cioran?

Io credo che Cioran sia uno dei più importanti filosofi del Novecento, uno dei più profondi speculativi, uno dei più autorevoli metafisici, insieme a Martin Heidegger, insieme a Karl Jaspers, anche se a differenza di Heidegger e Jaspers, Cioran non è mai stato un filosofo di professione, un accademico, un docente universitario, quanto piuttosto un pensatore privato, un libero scrittore, un «viandante» o un clochard della filosofia. Cioran non ha mai insegnato filosofia, se non per un brevissimo periodo, in un liceo in Romania, ma ha scritto opere importantissime che testimoniano, autenticamente, cosa significhi fare filosofia, cosa significhi filosofare. Perché la filosofia secondo Cioran non è una ʻcosaʼ astratta. La filosofia, secondo Cioran, ha a che fare con ciò che propriamente siamo nella profondità del nostro essere. La filosofia ha a che fare con la radice più propria della soggettività: i sentimenti, le emozioni, le passioni. In questo senso essa è patosofia, pensiero della vita, ricerca di un senso nonostante l’assurdità del reale, e quindi, per dirla con Karl Jaspers, chiarificazione dell’esistenza (Existenzerhellung). Alla base della filosofia di Cioran vi è il negativo (la solitudine, il dolore, la sofferenza, la noia, l’angoscia), vi è insomma la coscienza come «sentimento della morte». Non a caso, la prima opera di Cioran, che risale al 1934, scritta all’età di soli 22 anni, si intitola Pe culmile disperării. È un’opera nella quale Cioran si allontana dalla filosofia ufficiale, e dove si consuma il suo «addio alla filosofia», perché la filosofia, secondo Cioran, elude i veri tormenti. Cioran avverte il distacco dalla vita, la repulsione, la non-integrazione e in tutte le sue opere egli racconta di questa esperienza, di questo sentimento di scissione e di lacerazione, di questa inquietudine esistenziale, di questo «esilio metafisico». Nelle sue opere, Cioran racconta il dolore. Il dolore è ciò che viene detto, ciò che viene trascritto, ciò che viene raccontato. Il dolore è dunque il fenomeno, ciò che appare, ciò che si manifesta. Ma cosa c’è dietro? Cosa c’è dietro questo grido di dolore? Cosa c’è dietro la disperazione di Cioran? La risposta, a mio avviso, la ritroviamo in un brevissimo frammento dell’opera giovanile Cartea amăgirilor del 1936: «Tout ce qui n’est pas bonheur est un deficit d’amour».

Quali aspetti dell’opera di Cioran hanno attirato la sua attenzione e considera più significativi?

Credo che il tema dell’amore sia di fondamentale importanza per comprendere la nascita e l’evoluzione del pensiero di Cioran. È possibile ipotizzare che dietro la sofferenza descritta da Cioran vi sia un bisogno d’amore, la nostalgia di un amore passato? In altre parole: quale amore ha segnato e sognato Cioran nel corso della sua vita? Quale amore impossibile è stato coltivato nel ricordo e nella immaginazione? Quale abbraccio è stato spezzato? Quale addio è alla base della sua Métaphysique de l’adieu? Ho l’impressione che dietro l’esperienza del dolore di cui parla Cioran si celi l’esperienza di un abbraccio non dato, di un amore perso. In vari luoghi, Cioran parla ad esempio di un amore giovanile (inconfessato, represso) verso una ragazzina di Sibiu: Cela Schian. A causa della sua timidezza, Cioran non riesce a conquistarla, poi un giorno la vede insieme ad un altro ragazzo e muore di gelosia. Riferendosi a quell’episodio adolescenziale, Cioran ricorda nel Cahier de Talamanca (1966): «Mais cet instant a décidé de ma ʻcarrièreʼ, de tout mon avenir. Des années de complete solitude s’ensuivirent. Et je devins celui que je devais devenir». Perché Cioran, a distanza di tanti anni, avverte il bisogno di rammentare il «primo amore»? Perché lega in maniera così indissolubile la delusione vissuta in giovinezza alla propria successiva visione del mondo? Egli rimpiange una possibilità irrealizzata, un amore vissuto in potenza, che preannuncia un destino di solitudine e di morte nell’anima. Ecco, io credo che l’intera opera di Cioran vada letta in quest’ottica «psicoanalitica», alla luce di un originario, irrisolto, «conflitto con l’eros». In Cioran amore e disperazione sono le due facce della stessa medaglia, nel senso che la disperazione nasce da un’assenza d’amore, da una richiesta d’amore inappagata. Cioran, al di là delle sue amare considerazioni sulla vita, ci lascia intravedere un grande bisogno di amore. Ne è testimonianza un bellissimo aforisma contenuto nei Syllogismes de l’amertume: «Nous  aimons toujours... quand même; et ce « quand même » couvre un infini».

Quale scrittore del Novecento potrebbe essere paragonato a Cioran circa a temi e stile?

Per quanto riguarda lo stile, non credo sia un problema particolarmente importante. Tra l’altro, non lo era nemmeno per Cioran, se leggiamo ciò che scrive nei Cahiers: «On parle de mon ʻstyleʼ. Mais mon style ne m’intéresse pas du tout. J’ai quelque chose à dire, je le dis, et c’est ce que je dis qui compte; la manière de le dire est secondaire. L’idéal serait d’écrire sans style; je m'y efforce, et j’y arriverai. Seule importe la pensée. Le reste est pour les littérateurs». Quindi, focalizzo la mia attenzione unicamente sulla questione dei temi, dei problemi. Penso innanzitutto, ovviamente, a Fernando Pessoa e al suo Livro do Desassossego, indiscusso capolavoro della narrativa del Ventesimo secolo. Ma anche all’italiano Cesare Pavese e allo svedese Stig Dagerman, entrambi morti suicidi. In tutti loro è centrale il tema della frantumazione della coscienza, della disidentità (io multiplo o «io diviso», per dirla con lo psichiatra e filosofo scozzese Ronald Laing), del caos e della finitudine umana. E poi, mi consenta questa divagazione, penso anche al regista polacco Krzysztof Kieślowski, morto nel 1996, famoso per il suo Decalogo e per la trilogia Film bianco, Film rosso, Film blu. Non credo Cioran lo conoscesse, ma sicuramente avrebbe apprezzato molto le sue opere cinematografiche. C’è qualcosa di profondo che unisce il pensiero tragico di Emil Cioran all’esperienza cinematografica di Kieślowski, molto filosofica, estremamente concettuale. Come Cioran, Kieślowski è molto introspettivo: nelle sue opere parla della solitudine dell’uomo, del destino avverso, del bisogno di Dio insomma della «interiorità» del soggetto. Se debbo citare altri autori contemporanei penso inoltre allo scrittore francese Joë Bousquet o al filosofo italiano Giuseppe Rensi.

Condivide l’opinione degli esegeti che ritengono che Cioran sia il principale continuatore di Nietzsche nel Novecento?

No, non sono di questo parere. Nei Cahiers, riferendosi a Nietzsche, Cioran scrive con una battuta concisa, lapidaria: «C’était un agneau qui se rêvait loup». Questa affermazione sintetizza un po’ quello che Cioran scrive nell’opera De l’inconvénient d’être né: «A un étudiant qui voulait savoir où j’en étais par rapport à l’auteur de Zarathoustra, je répondis que j’avais cessé de le pratiquer depuis longtemps. Pourquoi? me demanda-t-il. – Parce que je le trouve trop naïf... Je lui reproche ses emballements et jusqu’à ses ferveurs. Il n’a démoli des idoles que pour les remplacer par d’autres. Un faux iconoclaste, avec des côtés d’adolescent, et je ne sais quelle virginité, quelle innocence, inhérentes à sa carrière de solitaire. Il n’a observé les hommes que de loin. Les aurait-il regardé de près, jamais il n’eût pu concevoir ni prôner le surhomme, vision farfelue, risible, sinon grotesque, chimère ou lubie qui ne pouvait surgir que dans l’esprit de quelqu’un qui n’avait pas eu le temps de vieillir, de connaître le détachement, le long dégoût serein». Ora, in sintesi, che cos’è il superuomo (Übermensch)? In Also sprach Zarathustra, Nietzsche scrive: «Il superuomo è il senso della terra». Il superuomo è colui che non trema di fronte al nulla. È colui che ha percepito la nullità della vita, ma che non trema di fronte alla imprevedibilità del divenire, all’assurdità del reale, al fatto che nella vita non si dia un senso. Egli, anzi, realizza il proprio essere, creando nuovi valori, accettando con amor fati l’accadere insensato della vita. Il superuomo non si affida ad un al di là, ad una Trascendenza (Dio è morto!), ma vive in pieno la vita con spirito dionisiaco. Il superuomo di Nietzsche accetta il tragico della vita. Cioran non la pensa allo stesso modo. Per Cioran infatti l’uomo è un «animal vague», un «animal sumené», un «animal égrotant». Il nichilismo di Cioran è più radicale, estremo, insolubile. Cioran non crede nelle illusioni, nelle opportunità della vita, nelle potenzialità dell’uomo e nel cammino della storia. Cioran fonda la propria visione del mondo su di un semplice assioma: la vita è tormento. Tutto qui. Quindi, più che un seguace di Nietzsche, Cioran mi sembra più in sintonia con il pensiero di Leopardi, di Schopenhauer o di Philipp Mäinlander.

Qual è oggi la ricezione dell’opera di Cioran in Italia?

Cioran, purtroppo, è un autore ancora tutto da scoprire e da approfondire, soprattutto in Italia. Opere importantissime non sono state ancora tradotte nel nostro Paese: Cartea amăgirilor, Amurgul gândurilor, Îndreptar pătimaş, Singurătate şi destin. Publicistică 1931-1944; inoltre, i carteggi con Wolfgang Kraus e Armel Guerne, la corrispondenza con i parenti e gli amici in Romania, le conversazioni e le interviste concesse ad importanti giornalisti e scrittori. Tutto materiale inedito, sconosciuto, prezioso, che può condurre a nuove prospettive interpretative. In Italia le opere di Cioran sono arrivate inizialmente grazie al lavoro del Prof. Mario Andrea Rigoni, che per la casa editrice Adelphi ha diretto la pubblicazione delle maggiori opere del pensatore romeno. Parallelamente, in questi anni, sono stati pubblicati saggi critici molto interessanti che hanno affrontato il pensiero di Cioran da diverse angolature interpretative. Cito ad esempio i lavori di Rigoni, Vizioli-Orazi, Tripodi, Rodda, Rizzacasa, Castronuovo, Scapolo, Rotiroti. Alcuni di questi studiosi hanno partecipato nel novembre 2011 al Convegno «Cioran in Italia», che ho personalmente organizzato in collaborazione con l’Accademia di Romania a Roma, in occasione del centenario della nascita di Emil Cioran. È stato un importante momento di confronto tra filosofi, letterati, liberi ricercatori. In generale direi che in Italia c’è molta attenzione verso Cioran, ma mi piacerebbe che vi fosse una «rete» internazionale strutturata, un gruppo di ricerca trasversale per condividere informazioni e conoscenze su questo autore. È il solo modo per ricostruire in maniera rigorosa, «scientifica», l’esperienza storico-filosofica-ermeneutica di questo grande pensatore.



Intervista realizzata da Ciprian Vălcan
(n. 9, settembre 2013, anno III)