Andrea Bajani: «L’arte è una relazione e la letteratura una macchina per stupire»

In occasione del Festival Internazionale di Letteratura di Bucarest (FILB), svoltosi dal 3 al 6 dicembre scorso, abbiamo incontrato e intervistato il noto scrittore Andrea Bajani, uno degli invitati di questa edizione. Oltre la prassi di una classica intervista, l’incontro con Bajani si è rivelato un autentico dialogo su vari argomenti di attualità, letterari e non solo: dallo scrivere alla letteratura dei nostri giorni, dalla capitale Bucarest alla situazione dei giovani e della famiglia.     

Andrea Bajani, sei venuto a Bucarest per il Festival della Letteratura. Prima di affrontare il tema della letteratura in quanto tale, mi piacerebbe scoprire qualcosa di più sull’amicizia letteraria che hai condiviso con Antonio Tabucchi. Come vi siete incontrati?

Nel caso di uno scrittore, e di Tabucchi in particolare, è inscindibile il privato dal letterario, nel senso che Tabucchi è uno di quegli autori per cui la vita raccontata e quella veramente vissuta si confondono. Forse è più finzionale quella vissuta di quanto non sia quella raccontata. La nostra amicizia è avvenuta tutta intorno ai libri: è stato lui a cercarmi dopo aver letto proprio Se consideri le colpe (un romanzo ambientato in parte qui, in Romania): chiamò la mia casa editrice, Einaudi, chiedendo il mio indirizzo perché voleva scrivermi una lettera. È un’amicizia nata nel segno dei libri e della letteratura, e soprattutto è un gesto di generosità e curiosità umana altissima, perché uno scrittore di quella fama, con una certa età, con tanti premi, si fa ancora incuriosire da quello che la letteratura di una generazione di quasi trent'anni più giovane fa. La nostra amicizia – così come racconto in questa specie di romanzo, Mi riconosci, dove descrivo la morte di uno scrittore che assomiglia tanto a lui – è stata tutta nel segno di questa finzione costante, di questo amore estremo per la letteratura che alla fine è un amore estremo per la vita, la voglia di provare a rovesciarla continuamente e a scherzarci sotto.

Una bellissima coincidenza nel vostro modo di incontrarvi, che mi fa ricordare ciò che Tabucchi raccontava del suo incontro con il portoghese attraverso Pessoa, un incontro del tutto improvviso, un libro su una bancarella. Anche questo è un incontro sotto il segno del libro.

Sì, e soprattutto sotto il segno di una cosa molto più importante dei libri, cioè il farsi sorprendere dalla vita, lasciare che la vita ti porti delle cose che non ti aspettavi, e la vita poi te le porta. La questione è solo se tu le prendi o no: è importante mettersi nella condizione di scoprire quello che non si sa ancora.

Potresti dire ai tuoi lettori qualcosa di più del tuo libro, Mi riconosci? Da una parte ha la forma di un romanzo, ma dall’altra è come una lettera di addio, un ultimo incontro immaginario fra te e Tabucchi.

Non avevo nessun’intenzione di scrivere questo libro. In quel momento ero ad Amsterdam, volevo lavorare a tutto un altro romanzo, però mi arriva la notizia della morte di Tabucchi e scatta il bisogno di scrivere questo libro, che è il più ispirato che io abbia mai scritto, il più romanzesco. L’ho scritto in venti giorni, è uscito così, come se fosse una vocazione. Questo è stato l’aspetto più sorprendente. Avevo tante altre possibilità di omaggiarlo: raccontando di lui, della nostra amicizia, ma questo modo non mi interessava in senso stretto. Quello che mi interessava era omaggiare un artista, uno scrittore attraverso un romanzo, regalargli un romanzo. La cosa che volevo fare era regalare un romanzo in cui lui fosse l’unica cosa che non sarebbe mai potuto essere, cioè un personaggio di un romanzo. Questo libro racconta la fine di uno scrittore che assomiglia tanto a Tabucchi, e viene raccontato da uno scrittore che assomiglia tanto a me, però in realtà è uno dei libri più finzionali che io abbia mai scritto, ho inventato tantissime cose.
Se avessi raccontato ciò che era successo, non sarebbe stata la verità in assoluto, ma una verità soggettiva, invece l’arte è una relazione, quindi devo consegnare a qualcuno una verità, cioè crearla, produrla al momento - fatta espresso, come dicono nei ristoranti, mai surgelata. Un romanzo, per aver una "verità espresso", si deve inventare, perciò alla fine è uscita una cosa simile ad un romanzo a quattro mani: quando lasciavo parlare questo scrittore, lui si portava dietro tutte le storie che Tabucchi gli aveva raccontato.

Ci hai raccontato del tuo incontro con Antonio Tabucchi. Come sono andate invece le cose con la letteratura in sé, con lo scrivere? Forse i tuoi lettori non conoscono molto come hai cominciato a scrivere.

Avevo un professore al liceo, che insegnava italiano e latino, e leggeva le mie poesie – avevo iniziato a scrivere poesia alle medie –, perciò è stato un periodo in cui le scrivevo per lui, scrivevo perché avevo almeno un lettore. Fino a 19 anni ho scritto solo poesia, mai prosa, perché pensavo che non sarei mai stato in grado di inventare una storia: fatto strano, questo, perché io come persona sono un fabulatore. Ma allora era come se avessi paura della letteratura, come se l’invenzione fosse qualcosa aldilà di me, come se le storie fossero qualcosa che non esiste e bisogna inventarle in una maniera incomprensibile, che bisogna produrre e che non c’entrano con lo scrivere.

E come è accaduto il contrario?

Con il tempo mi sono reso conto che si può raccontare ciò che si è vissuto, il che non significa fare dei romanzi autobiografici, ma usare come pietre per costruire un edificio nuovo quello che trovi sulla strada, non quelle che non esistono da nessuna parte. Quindi all’inizio dell'università ho cominciato a scrivere i miei primi racconti, e tanti erano ispirati a scrittori molto diversi tra di loro, uno scrittore italiano che si chiamava Pier Vittorio Tondelli, poi una scrittrice austriaca, Ingeborg Bachman che per me è stata fondamentale, quindi un altro scrittore austriaco, Peter Handke. Ho cominciato a scrivere dei racconti che erano una specie di intimismo esistenziale, a vent’anni forse prematuro. Però erano quelli che in qualche modo mi avevano fatto pensare che la letteratura c’entrasse qualcosa con me. Poi, ho preso una strada totalmente diversa, perché mi sono infatuato per gli scrittori americani, per David Foster Wallace, per il postmoderno, quindi per una narrazione all’opposto di quell’intimismo esistenziale; narrazioni fatte di note a piè di pagina, di umorismo, di una realtà quasi da cartoni animati. I primi due romanzi che ho scritto erano nati sotto quel segno. Una specie di gesto di liberazione, mi distanziavo da quell’intimismo. Mi rendevo conto che potevo lavorare anche sull’immaginario, che io non ero tanto un contenitore di grandi pensieri sulla vita, che per altro non me lo potevo nemmeno permettere perché la mia esperienza vissuta era molto poca, ma ero un contenitore di un immaginario fatto di televisione, fumetti, cinema ecc.

Il tuo primo successo è giunto all’improvviso o si è fatto aspettare?

Nel 2005, quando scrissi Cordiali saluti, che è la storia di un uomo che doveva scrivere lettere di licenziamento, avevo bussato alla realtà che vivevo, anche se poi è un libro totalmente immaginifico. È stato un primo risveglio. Per la prima volta ho pensato che i due elementi, cioè la mia vita privata e l’immaginario, il contesto sociale e politico che vivevo potevano essere un insieme. È stato l’avvio dei primi passi verso una voce che cominciava ad essere la mia, che in qualche modo sbocciò con Se consideri la colpe nel 2007, che vinse tanti premi; la via fu molto più facile, ma anche molto più difficile, perché a quel punto scattava un meccanismo di aspettativa…

Un’aspettativa tanto da parte del tuo pubblico, ma anche da parte della tua casa editrice.

Sì, tutto questo si sente, ma in realtà, l’unica aspettativa dannosa è la tua. Tutto il mondo si può aspettare ciò che vuole, ma se tu ti aspetti altro da te, in qualche modo puoi sentire l’invadenza, il peso, ma ciò non ti condiziona. Quando una qualsiasi opera d’arte ha un suo seguito, questo avviene perché nessuno se l’aspettava, quindi nega qualsiasi possibilità, replicandola, che si possa ripetere la stessa cosa. Un’opera d’arte ʻdi colpoʼ viene apprezzata perché nessun se l’aspettava: se la volta dopo rifai la stessa cosa, tutti se l’aspettano ed è evidente che non avrà lo stesso effetto, non produrrà stupore. E la letteratura è una macchina di stupore.

Veniamo a questo tuo viaggio in Romania. Non è la prima volta che vieni a Bucarest: come trovi oggi questa città? 

La prima volta sono arrivato a Bucarest nel 2006, ma ci sono tornato almeno cinque, sei volte. Però io sono uno che dice moltissime bugie, quindi non so se è vero... Tra la vita immaginata e quella reale non c’è un limite molto chiaro; poi sono anche un ipocondriaco (ride, ndr). Il mondo inventato, nel caso di uno scrittore, è molto più reale, quindi forse sono stato cinque volte, forse due oppure dieci.

Comunque è la prima volta quando vedi Bucarest in questo periodo dell’anno, cioè d’inverno.

Sì, stavolta sono arrivato convinto di avere un malattia incurabile – come dicevo, sono un ipocondriaco –, con la neve fuori, con tutto questo freddo, e ieri sera mi sembrava il posto perfetto per morire. Adesso, dopo un giorno, non penso più che morirò a Bucarest, e quindi la città coperta dalla neve mi piace abbastanza, specialmente con le luminarie natalizie. Questo anche perché nell’immaginario collettivo Bucarest è una città assolutamente brutta, grigia, che porta addosso il peso di una certa storia. E come se nell’immaginario collettivo – che subiamo tutti, è un’aria che si respira, e quello che si respira modifica quello che si è in maniera persino inconsapevole – Bucarest fosse inconciliabile con qualsiasi idea di piacere, di normalità, di bellezza. Invece le luminarie di Natale mi sono sembrate una specie di regalo concessomi dalla città.  

Di sicuro conosci già molto bene la capitale romena. Se un tuo amico volesse visitarla, che consiglio gli daresti, cosa gli raccomanderesti di vedere per la prima volta?

È difficile perché i miei amici stanno alla larga dai miei consigli, anche perché io amo mediamente gli aspetti marginali dei posti, sono i dettagli che mi colpiscono. Se dovessi estraniarmi dalle mie «perversioni» personali, prima di tutto li manderei a Cișmigiu, parco che amo moltissimo, dove sono andato a correre, un parco dove ci sono dei pezzi di me, rimasti a Bucarest. In un mio romanzo, Ogni promessa, che si svolge tra l’Italia e la Russia, c’è una scena ambientata in Italia in cui descrivo un parco e le persone che vanno lì a correre, ma in realtà, mentre la scrivevo, pensavo appunto a Cișmigiu.

La Romania in genere e Bucarest in particolare viene descritta come un luogo paradossale, un incrocio fra l’Occidente e l’Oriente, fra un’eredità latina e una spiritualità bizantina. Tu come la senti?

È per questo che io inviterei a vedere anche la Bucarest di Ceaușescu, cioè la Casa del Popolo. Inviterei a riflettere sulla contraddizione vivente che è quel palazzo, che era di Ceaușescu ma che adesso è il Palazzo del Parlamento, quindi una contraddizione architettonica nella vita di un edificio considerato da un certo punto di vista il simbolo del male totale e, nello stesso tempo, il simbolo della salvezza totale. Se io voglio capire meglio cosa sta succedendo nel mondo, e soprattutto in Europa, tendo a venire a Bucarest perché mi sembra che qui le contraddizioni sono molto più visibili, mentre negli altri Paesi che hanno una tradizione europea più lunga o più recente, paradossalmente, sono più nascoste, messe da parte. A Bucarest, invece, queste contraddizioni tra il passato e il presente, tra il peso della storia e l’ideologia del presente sono più evidenti.

Torniamo ai tuoi romanzi, dove molto presente è il tema della famiglia, specie la famiglia d’oggi con la sua crisi identitaria, i suoi problemi. Un altro scrittore contemporaneo che condivide con te questo fascino per il piccolo universo della famiglia è Amos Oz. Quasi tutti i suoi romanzi si costruiscono intorno al nucleo famigliare. Perché una tale scelta per la storia privata, lasciando la grande storia solo come sfondo?

C’è un fatto molto elementare, cioè essere italiano. L’Italia è uno stato fondato sulla famiglia, strutturalmente non esiste come stato, esistono le famiglie che danno vita alle comunità locali, ma l’Italia come stato non esiste, nessuno lo percepisce. Si può percepire nei momenti di crisi, in rapporto con altri stati. Ma sei prima napoletano, toscano, bolognese e sei prima quella famiglia lì. Quindi, è un modo proprio con cui si dipana proprio la storia in Italia. Evidentemente a me interessa farla interagire con la grande storia, non mi interessa lasciarla nel piccolo. Così come un marinaio, quando deve parlare della vita, parla sempre del mare, un contadino parla sempre della terra, un italiano, secondo me, parlerà sempre della famiglia. La famiglia, poi, in generale è un elemento molto interessante – e citavi appunto Amos Oz – anche perché è il luogo dove esplode la contraddizione, perché la famiglia è una convivenza forzata, è una comunità obbligata.

Non è qualcosa di naturale...

Appunto. O meglio, è naturale nel suo farsi e naturale nel continuare, perché la nascita è un fatto naturale. Il fatto che poi si organizzi, si strutturi è un’operazione culturale che successivamente è venuta fuori e che per forza di cose ha contraddizioni interne tremende: tra il bene comune e il bene individuale, tra lo spirito nazionale e quello istintuale.

Molte voci oggi sostengono che la famiglia si trova in un profondo momento di crisi, senza riuscire ad abituarsi alle novità sociali, al mondo che sta cambiando anche strutturalmente. È un discorso giustificato o un po’ esagerato?

A me non sembra che la famiglia di per sé sia in crisi. Io sono capofamiglia di una famiglia ricomposta, di una moglie con una figlia per la quale sono diventato in qualche modo un secondo padre, e nonostante ciò siamo una famiglia solidissima, e come noi anche altri. Il problema mi sembra piuttosto – ed è un problema tipicamente capitalistico – che sia la reversibilità delle cose, ovvero la questione profondamente legata alle merci, a restituire o cambiare qualcosa che non ti piace. Noi siamo tutti immersi dentro questa cosa: facciamo un abbonamento di telefono, poi se non ti piace te lo cambiano. Questa è l’aria in cui viviamo, bella, brutta che sia, ma è così. Questo mercifica, ma non nel senso che trasforma in merce, bensì attiva lo stesso tipo di reazione anche nell’ambito del privato. È questa la grande crisi occidentale di questo tempo, che coinvolge la famiglia, la politica, la religione, tutti gli ambiti della vita sociale. La condivisione dei progetti a medio e lungo termine impone una forma di resistenza, di fatica, invece la società d’oggi ha abolito dentro di noi lo spazio in cui tutto questo sia possibile, ha abolito l’energia sufficiente, è come se io avessi sempre la batteria del telefonino scarica, faccio una telefonata, poi si spegne.

Le tue parole mi fanno venire in mente un’intervista che raccontava la storia di una coppia qualsiasi, due anziani vissuti insieme per più di sessant’anni e ai quali si chiedeva il segreto del loro vivere insieme per tanto tempo. La risposta di lui fu che conobbe sua moglie in un tempo in cui se una cosa non funzionava , si doveva sistemarla, non buttarla subito via per prenderne un’altra.

La questione è che loro, a differenza di chi vive oggi, conoscevano il sentimento del ricomporre, sapevano come si faceva. È facile essere moralisti e dire «Voi non vi sforzate neanche». Ma è come se quel sentimento, quella capacità non ci sia stata più data. È vero, poi, che il passato serve anche per poter aver un esempio. Però si tratta di un esempio intellettuale, razionale, non è un esempio emotivo. La reversibilità che è stata spacciata per la libertà, era forse all’inizio anche una forma di libertà: le persone che hanno fatto una battaglia per poter divorziare, per battere il comunismo, ecc. Queste sono le grandi dinamiche storiche e quella volontà di abbattere era identitaria, dava una grande forza: ma una volta abbattuta la porta, che si fa con quella forza? Prova a correre e se qualcuno ti apre la porta, cadi per terra. È inutile essere nostalgici, bisogna capire come fare con queste recenti dinamiche storiche.

E secondo te, come si può fare?

In realtà, credo che l’unica possibilità sia finire malissimo, non credo ci sia una possibilità progettuale. Penso che ci sia solo la catastrofe come possibilità, nel senso che già adesso le persone che non si sentono rappresentate politicamente, che risentono la disperazione, ricominciano a fare quadrato nella vita privata, a tentare di costruire delle cose. Credo che sia l’unica strada per la felicità.

Siamo all'inizio di un nuovo anno: se dovessi regalare libro, quale sceglieresti?

Per uno che legge tantissimo (io leggo quattro libri a settimana) non è difficile fare una scelta, ma sono molto legato al periodo. Ad esempio, un libro bellissimo che io ho letto da poco e che a Natale ho regalato a tutti appartiene a una scrittrice francese che si chiama Annie Ernaux e si intitola Il posto. E' un libro meraviglioso sulla dimora, una storia famigliare, la contraddizione, una famiglia di umili origini, che fa però di tutto per far studiare la figlia, così che lei riscatti la classe sociale e si allontani da essa. Ma quando questo avviene, questa distanza immensa che si crea fra queste persone che hanno fatto di tutto affinché lei andasse altrove diventa, insieme a questo altrove in cui ora lei si trova, segno di una distanza quasi incolmabile. Un bellissimo romanzo, lo consiglio a tutti.




Intervista realizzata da Cristina Gogianu
(n. 1, gennaio 2015, anno V)